Repubblica 12.3.18
Intervista a Axel Honneth
“Le élite di sinistra hanno perso i legami con le loro radici”
di Benedetta Tobagi
«È
una situazione deprimente», Axel Honneth, giunto in Italia in
coincidenza con il terremoto elettorale, abbassa gli occhi chiari,
pensoso, «è la situazione più difficile per l’Europa da 20-30 anni».
«Per questo sono venuta da un filosofo a chiedere cosa si può fare»,
replico, e ridiamo per sdrammatizzare. Filosofo sociale, già assistente
di J?rgen Habermas, Honneth è la figura di punta della terza generazione
della storica Scuola di Francoforte. Teorico della “libertà sociale” e
delle forme sociali e politiche del riconoscimento, si trova a Milano
proprio per parlare di come “accettare il diverso” (questo titolo della
masterclass tenuta alla Fondazione Feltrinelli), nel ciclo di incontri
su diritti e cittadinanza “A road to Europe 2030”. «In effetti»,
riprende «secondo Kant il filosofo ha il compito morale di essere
ottimista, sul piano teoretico, anche contro i tuoi sentimenti
personali, per ispirare gli altri a fare le cose giuste, in questo caso
proseguire il cammino per l’integrazione europea. Ma confesso che per me
non è mai stato così difficile».
Perché?
«Lungo l’arco
della mia esistenza l’integrazione europea è sempre stata un orizzonte
di progresso, lento ma continuo. Ora appare in discussione. I movimenti
populisti di destra hanno conquistato larga parte dei lavoratori
bianchi, delle fasce non privilegiate. Penso abbia a che fare con il
fallimento delle forze socialdemocratiche, che non hanno saputo
esprimere le paure e le speranze di questi gruppi. Al governo in molti
Paesi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, non hanno dato
risposta alle loro preoccupazioni principali: l’impatto della
globalizzazione e la perdita di benessere e privilegi conquistati in
precedenza».
E la sinistra è crollata in tutta Europa. Ha scritto
un saggio, “L’idea del socialismo. Un sogno necessario”. Da dove
ripartire per rilanciarlo?
«Mentre sono cresciute le forme
neoliberali di capitalismo, insoddisfazione, ansietà e critiche non sono
più espresse, come in passato, in un vocabolario di sinistra, ma sono
articolate in un lessico di destra – com’era accaduto nella Repubblica
di Weimar – che non implica una visione di progresso, ma esprime la
speranza in termini di regresso, come riconquista di qualcosa di
perduto, una comunità nazionale chiusa con un forte stato sovrano,
capace di salvaguardare ciò che abbiamo guadagnato e il nostro onore, la
nostra reputazione».
Nella raccolta di saggi “La libertà negli
altri”, pubblicata dal Mulino nel 2017, insiste sull’importanza per i
soggetti di poter godere di “stima sociale”, per una buona società.
Quanto pesa il fatto che la cultura non sia più un valore nemmeno per le
classi dirigenti e il lavoro intellettuale sia sottopagato?
«Anche
in Germania (so che in Italia la situazione è ancora peggiore) cresce
una classe di accademici disoccupati e non retribuiti. Per trovare un
qualunque impiego, anche temporaneo, deve cercare nicchie, sapersi
adattare. Ciò alimenta l’opportunismo, posizioni ideologicamente deboli.
La mia insoddisfazione però riguarda soprattutto i colleghi professori
ben pagati, con posizioni sicure, gente che viene dai vari movimenti
della sinistra e ha perso i legami con le sue radici. Hanno sviluppato i
loro pregiudizi, a volte sono diventati islamofobi. Non sono l’esempio
migliore per il resto della società».
In questi saggi di filosofia
sociale, quando parla di riconoscimento e autostima fa molti
riferimenti a teorie psicoanalitiche (Winnicott, Freud): molte patologie
sociali si connettono a profonde fragilità individuali. Ma cosa si può
fare a livello pubblico? Non tutti possono permettersi una terapia…
«Ciascuno
di noi ha bisogno di un luogo protetto, dove poter parlare di sé e dei
propri problemi sentendosi completamente al sicuro. Quando c’è questo,
quando i legami d’amicizia sono profondi e il contesto famigliare sano,
non c’è gran bisogno di analisi e terapie.
Legami solidi possono fare molto.
Talvolta
sono relativamente ottimista, l’amicizia gioca ancora un ruolo
importante nella società, è un legame in buona salute. Al tempo stesso, i
rapporti personali sono in sofferenza a causa della mercantilizzazione
della società e dell’importanza crescente delle connesse “libertà
negative”, l’idea “sono solo e devo farcela”, e questo indebolisce le
relazioni e fa mancare i contesti protetti».
I movimenti
euroscettici trionfano perché la maggior parte delle persone non sente
di appartenere a una comunità europea, non la percepisce come un dato
positivo e strutturante.
Cosa si può fare?
«Innanzitutto,
servono politiche economiche europee che si prendano cura del malessere
di chi patisce le crescenti disuguaglianze: investimenti pubblici e
redistribuzione della ricchezza. La spinta deve venire da Francia e
Germania. Si è concesso troppo al mercato, a danno delle persone. Poi,
anni fa, si parlava molto di come costruire una sfera pubblica europea,
attraverso televisione e giornali, ma, a parte il canale Arté, non s’è
fatto nulla. I programmi di scambio come l’Erasmus hanno avuto un enorme
successo nel creare cittadini che si sentono davvero europei, ma hanno
coinvolto solo le élite accademiche.
Oggi anche i poveri possono viaggiare, ma non sono “scambi”.
Bisogna
mettere a punto programmi che coinvolgano anche altre categorie e
professioni e le fasce meno colte. Infine, la cosa più importante, la
scuola pubblica è stata sottostimata e impoverita, ma è lo strumento
cardine per l’integrazione europea. Pensate all’importanza di studiare
storia in chiave europea. E bisogna proseguire con decisione
nell’insegnamento dell’inglese come seconda lingua comune, poter
comunicare è un presupposto essenziale. Magari il figlio di un elettore
della Lega, se impara bene l’inglese a scuola e partecipa a degli
scambi, farà scelte diverse».