lunedì 12 marzo 2018

Repubblica 12.3.18
L’invidia di Trump per il “ dittatore” di Pechino
Con il suo assordante silenzio di fronte al “salto indietro” della Cina la più grande liberaldemocrazia rinuncia al suo ruolo di leader dell’Occidente
di Federico Rampini


NEW YORK In un comizio elettorale in Pennsylvania, Donald Trump ha proposto la pena di morte per gli spacciatori di droga. Tra gli applausi dei suoi fan, ha spiegato: «L’idea me l’ha data Xi Jinping»a (la Cina è la nazione che applica la pena di morte nel modo più massiccio). Da quando il presidente cinese si è fatto “incoronare a vita”, violentando perfino la Costituzione ereditata dai suoi predecessori comunisti, dalla Casa Bianca non si è levata una sola critica, non una protesta diplomatica. Il silenzio assordante è stato spezzato ancora da Trump, ma in senso elogiativo. A proposito della presidenza senza limiti di mandato, Trump ha detto, tra l’ironico e il semiserio: «Magari un giorno dovremmo farci un pensiero anche noi».
Peraltro già l’anno scorso, quando Xi lusingò la vanità del presidente americano riservandogli un’accoglienza senza precedenti a Pechino (gli fece personalmente da cicerone in una visita guidata della Città Proibita), Trump apparve inebriato e coprì di elogi il padrone di casa definendolo «il re della Cina». Non in senso polemico. Sono tante le cose che Trump invidia del suo omologo, per esempio la museruola alla stampa. Ancora ieri il presidente americano ha mostrato la sua insofferenza verso la libertà d’informazione insultando un giornalista della Nbc («figlio di p…») e l’intera Cnn («falsa come l’inferno»).
Ci stiamo abituando a tutto? Non era mai stato pensabile che un leader cinese venisse incoronato dittatore a vita senza un balbettio di denuncia-protesta da parte della più grande liberaldemocrazia al mondo.
Questa America ha rinunciato a interpretare il ruolo di leader dell’Occidente. Siamo in un mondo a rovescio. La Cina, proprio mentre imbocca una grave deriva autoritaria, con un accentramento di potere che segna un pauroso salto all’indietro, non ha più alcun bilanciamento da parte degli Stati Uniti. La seconda superpotenza mondiale, con un peso economico immenso, sta operando sotto i nostri occhi una metamorfosi mostruosa. Sotto Jiang Zemin e Hu Jintao era un regime autoritario governato da una leadership tecnocratica e collettiva. Ora arretra verso la dittatura personale, come ai tempi di Mao e Deng Xiaoping, quando però il suo peso sulla scena mondiale era molto minore. E sulla sponda opposta del Pacifico, chi governa la più antica e la più grande liberaldemocrazia occidentale osserva tutto ciò con ammirazione, invidia. Gli europei tacciono codardi, nella loro peggior tradizione: da Berlino a Londra, da Parigi a Roma, il silenzio sugli eventi di Pechino è agghiacciante; ci si preoccupa solo di piazzare qualche contratto commerciale o di attirare qualche investitore cinese a casa nostra.
Ma è nell’ordine delle cose. Se perfino l’America rinuncia al suo ruolo storico, chi può illudersi che l’esanime Europa riempia quel vuoto?
Non solo sui diritti umani e la democrazia l’Occidente batte in ritirata. Anche su altri fronti è evidente la subalternità di Trump a Xi. Sulla Corea del Nord il presidente americano elogia il ruolo di mediazione dei cinesi, mentre semmai proprio a Pechino c’è la cabina di regia di un “trappolone”, che punta alla finlandizzazione delle Coree e all’espulsione dell’America da quell’area (vedi l’inquietudine del Giappone). Sui dazi, pur denunciando l’enorme avanzo commerciale cinese, Trump usa toni meno bellicosi che con gli alleati europei. Ai paesi membri della Nato, legati da un patto di difesa che dura da 70 anni, la Casa Bianca dice a muso duro che dopo l’acciaio e l’alluminio potrebbe tassare pure le auto. Con Pechino usa il linguaggio della persuasione morale, esortando Xi ad un’autoriduzione volontaria del patologico avanzo commerciale. È evidente chi gode del rispetto di quest’America e chi invece ne riceve disprezzo.
Avere uno sguardo lucido su quel che accade non significa glorificare il passato. Sotto Clinton Bush e Obama, le prediche americane sui diritti umani non cambiarono il comportamento dei governi di Pechino. Forse contribuirono ad alimentare un nazionalismo revanscista nella popolazione cinese, su cui oggi fa leva Xi. È paradossale però che per la prima volta da anni stia accadendo un fatto sorprendente: serpeggia la protesta contro Xi tra gli studenti cinesi che frequentano i campus universitari qui negli Stati Uniti. È una grossa novità. In passato questa diaspora élitaria si distingueva per il suo nazionalismo a oltranza. Ora perfino loro sembrano dire: troppo è troppo. E noi gli voltiamo la schiena.