Repubblica 11.3.18
La regola del tre
di Michele Ainis
Che
cos’è un paradosso? La miglior medicina contro i pregiudizi, diceva
Rousseau. Perché ci fa vedere la realtà sotto la maschera con cui essa
spesso si traveste, e la realtà altrettanto spesso è assurda,
irrazionale. Il paesaggio del dopo voto ne offre una riprova. Anzi più
d’una, dato che in questo caso i paradossi sono nove, come le grazie di
San Michele Arcangelo.
Primo: il 4 marzo hanno votato meno
italiani rispetto al 2013 (73% anziché 75%), ma è cresciuta la
partecipazione. Uscivamo infatti da un quinquennio d’urne sempre più
deserte, fino a raschiare il fondo del barile l’anno scorso, quando
l’affluenza alle comunali s’arrestò al 46%. Stavolta lunghe code ai
seggi, anche per il bollino antifrode del Rosatellum. E nonostante la
pioggia, la pessima campagna elettorale, la scheda incomprensibile, i
pronostici d’un esito senza vincitori. La difficoltà ci stuzzica.
Secondo:
questa nuova voglia coincide con il ritorno al proporzionale, dopo 25
anni di maggioritario. Un quarto di secolo, durante il quale sono
naufragati fin troppi tentativi di cambiare le nostre istituzioni. Ci
sarà un nesso fra tali accadimenti? Se il proporzionale alimenta la
partecipazione, allora può ben darsi che le nuove Camere sappiano
tessere la tela strappata dalle vecchie. Perché adesso si gioca ad armi
pari, senza maggioranze drogate dai premi del Porcellum. Sta a vedere
che a questa legislatura dichiarata morta in culla riuscirà il miracolo
della Resurrezione.
Terzo: tutti a parlare d’un risultato anomalo.
Macché, il responso delle urne conferma la regola non scritta delle
democrazie parlamentari: vince il partito d’opposizione, perde chi
governa. Swing of pendulum ( l’oscillazione del pendolo), la chiamano
gli inglesi. Accadde durante l’altalena fra Berlusconi e Prodi; è
accaduto nel 2013, con il successo (relativo) del Pd, sconfitto dal Pdl
nella precedente tornata elettorale; e accade ora di nuovo, dato che i 5
Stelle incarnavano la principale opposizione in Parlamento. L’eterno
ritorno dell’eguale, avrebbe detto Nietzsche.
Quarto: la
regola-bis. Ossia l’assetto tripolare del Paese, confermato dalle ultime
elezioni. Nessun terremoto dunque, semmai una scossa d’assestamento. E
un criterio matematico per numerare le Repubbliche. Nella prima
(1948-1994) ci fu sempre un primo partito, la Dc. Nella seconda ( 1994-
2013) i protagonisti erano due, destra e sinistra. E nella terza sono
tre, of course. Ma la creatura non è nata adesso, come annunziano i suoi
tanti profeti. Emise già un vagito nel 2013, anche se allora non
l’avevamo udito. Urge un otorino.
Quinto: in questa gara a tre non
trionfa mai nessuno, però c’è sempre un mezzo vincitore. La volta
scorsa fu il Pd, grazie al premio di maggioranza; stavolta i 5 Stelle,
grazie ai propri voti. E siccome il mezzo vincitore fa da calamita, gli
toccano le chiavi del governo. Come dimostra per l’appunto la vicenda
della XVII legislatura, ma altresì un precedente più remoto. Nel 1983,
difatti, la Dc ottenne il 32%, la stessa percentuale che hanno raggiunto
adesso i 5 Stelle. E mandò a Palazzo Chigi 15 ministri, ma sotto un
papa straniero: Bettino Craxi.
Sesto: come insegna l’esperienza
del 1983, e soprattutto quella del 2013, in questi frangenti non comanda
il capitano. Nessuno dei leader che la volta scorsa si erano presentati
agli elettori (Bersani, Berlusconi, Grillo) è poi divenuto presidente
del Consiglio. Per quale ragione? Perché in una partita a tre serve una
figura terza, contigua ma diversa rispetto ai primattori. È la regola
del tre, il numero perfetto della kabbalah.
Settimo: gli ultimi
eredi del Novecento, ossia la destra di Forza Italia e la sinistra del
Pd, hanno ricevuto la batosta più sonora. Sommati insieme, raggiungono
appena i voti del Movimento 5 Stelle. Dunque un mezzo vincitore e due
perdenti: un altro tre. Eppure senza almeno uno di loro ogni maggioranza
è pressoché impossibile ( salvo l’estrema ipotesi d’un governo degli
estremi: M5S+ Lega). Morale della favola: chi perde il voto vince il
dopo voto.
Ottavo: tutti s’attendono un miracolo da San
Mattarella. Che però è come un’ostetrica: può agevolare il parto, non
può generare lui il bambino. La fecondazione tocca ai partiti, sono loro
a doversi mettere d’accordo. E se non ci riescono? Se si dichiarano
impotenti? Allora il presidente diventa onnipotente: dalla separazione
dei poteri al trasferimento del potere. Potere di morte, tuttavia,
almeno in questo caso. Senza una soluzione politica imbastita dai
partiti, Mattarella sancirà la morte della legislatura.
Nono: è il
paradosso del traditore. Giacché lo stallo segnò pure l’avvio della
legislatura scorsa. Se ciò nonostante quest’ultima è durata cinque anni
bisogna ringraziare le scissioni di Alfano, di Fitto, di Verdini, di
Bersani, bisogna genuflettersi dinanzi ai 566 cambi di casacca che hanno
pompato ossigeno dentro la tenda dei governi. Insomma, la principale
fonte di discredito della politica italiana ne ha permesso la
sopravvivenza. Adesso il mercatino degli eletti può ripetersi, ci
sperano già in molti. Errore: fateli pure gli accordi, le transazioni, i
patti. Ma fateli alla luce del sole, come in Germania. Altrimenti dei
partiti politici italiani, dopo questo paradosso, resterà soltanto
l’osso.