sabato 10 marzo 2018

Repubblica 10.3.18
Il cantiere della sinistra
Decidere se e con quale diavolo scendere a patti non è la priorità
Bisogna prima rispondere alla domanda: cosa deve essere la sinistra
di Massimo Giannini


Forse c’è ancora un po’ di luce, nell’ora più buia della sinistra italiana. Se dopo Di Maio anche Salvini chiede una sponda al Pd, allora non tutto è perduto. C’è ancora spazio per la politica, ammesso che lo si voglia occupare.
Cinque giorni dopo lo tsunami elettorale, i “due vincitori” (come Aldo Moro definì Dc e Pci dopo il voto del ’76 che anticipò il governo della “non sfiducia”) si rendono conto di non bastare a se stessi. E a meno che non si uniscano nell’improbabile “coalizione dei populisti” suggerita da Steve Bannon, principe delle tenebre di Trump, M5S e Lega per governare hanno bisogno dello sconfitto. La cui “utilità marginale”, per paradosso, cresce oltremisura.
In fondo al pozzo nero della peggior disfatta della Storia, questa consapevolezza dovrebbe convincere i democratici che la risalita è possibile. Purché sappiano definire priorità e responsabilità. E purché sappiano guardare a un orizzonte più vasto e più lontano. Decidere subito se e con quale diavolo scendere a patti non è “la” priorità.
È stata un’abile arma di distrazione di massa, usata da Renzi per non guardare nell’abisso della sconfitta e far sfogare su altro la delusione delle truppe.
E invece è proprio da qui che bisogna ripartire. Perché il Pd è scomparso dall’Italia gialloblù raccontata da Ilvo Diamanti? Perché ha bruciato 5 milioni di voti dalle europee 2014, cedendone 1,8 milioni a M5S e 900 mila al centrodestra? Cos’ha saputo opporre alla flat tax e all’istanza securitaria che ha fatto volare Salvini al Nord e al reddito di cittadinanza e all’emergenza legalitaria che ha fatto esplodere Di Maio al Sud? Puoi proporre i pochi spiccioli del Reddito di inclusione a 6,5 milioni di poveri? Puoi smerciare le finte garanzie del Jobs Act a 3,5 milioni di giovani precari?
La lista delle domande è infinita. Fino ad arrivare a quelle cruciali: cosa deve essere “ sinistra” in questa Europa smarrita, come può predicare la faccia buona della globalizzazione senza abdicare alla protezione, lottare contro le disuguaglianze senza rinunciare al merito, combattere i populismi senza erigersi a oligarchia. Se questa è la priorità, un minuto dopo arriva la responsabilità, che si declina in due modi.
In primo luogo c’è la leadership. È chiaro che quella di Renzi è ormai esaurita. Ma è altrettanto chiaro che scaricare le coscienze e le colpe sull’apposito segretario è pura vigliaccheria. Domenica scorsa non è caduto solo Renzi, che ha trasformato una grande speranza in una gigantesca delusione. Con lui ha fallito un intera classe dirigente. La maggioranza, che ha assecondato bullismi e tollerato Gigli Magici. La minoranza, che ha borbottato senza mai offrire uno straccio di alternativa. Gli scissionisti, che invece di cacciare la mucca dal corridoio sono scappati di casa. Ora è giusto che la scelta del nuovo segretario passi dal popolo delle primarie: le urne hanno confermato quanto sia drammatico lo strappo tra gli apparatciki in grisaglia che vivono nei talk show e gli italiani in carne ed ossa che campano nei disagi.
In secondo luogo c’è la governabilità. Mattarella chiede a tutti di guardare « all’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini » . Cosa deve rispondere il Pd? Dopo Berlusconi, Alfano e Verdini, qui ed ora non c’è nessun altro rospo da baciare, per trasformare in premier il giovane Forlani pentastellato o il tribuno in felpa verde. Come hanno scritto prima Ezio Mauro e poi Mario Calabresi, c’è invece un’irriducibile incompatibilità politico-culturale che assegna alla sinistra il posto dove stare, l’opposizione “ con la propria gente e con le proprie idee”. Nonostante i suoi sforzi per “costituzionalizzarsi”, i suggestivi paradossi di Eugenio Scalfari e Domenico De Masi ( che lo descrive come «una forza ormai socialdemocratica») quello di Grillo e Casaleggio resta un movimento pre- politico e anti- politico, il cui obiettivo è superare la democrazia rappresentativa con una piattaforma ibrida e post- ideologica.
Dunque, non ci sono né ci saranno inciuci da fare o poltrone da spartire. Ma il percorso verso la governabilità sarà lungo. E se nel frattempo saprà avviare la sua ricostruzione, il Pd dovrà affrontarlo a viso aperto. Nel febbraio ‘ 78 Moro scriveva: « Con la Dc convinta e solida, anche il contatto, che si sta rivelando necessario nella situazione attuale, con il partito comunista, non dovrebbe fare tanta paura » . La stessa cosa dovrebbe valere oggi per la sinistra rifondata, che non dovrebbe temere comunque di mettersi in gioco (a partire dall’elezione dei presidenti di Camera e Senato). Senza inseguire i “ casti connubi” tra Dc e Psi degli anni 60, ma neanche ridursi al ruolo del Ghino di Tacco craxiano degli anni Ottanta.
Potrà venire il momento in cui Di Maio, dismessa l’armatura del trionfatore e la postura del ricattatore, sarà costretto ad offrire un patto. Per ridurre il “danno maggiore” (governo Di Maio-Salvini) o il “danno minore” ( nuovo ritorno alle urne) la sinistra potrà anche sedersi a un tavolo, magari in streaming, e non col cappello in mano ma sfidando i grillini. Provando a rendere meno scellerato quel patto. Ponendo le sue condizioni. Fedeltà totale alla Ue, rispetto dei Trattati e impegno assoluto a non eluderli in modo unilaterale, correzione del reddito di cittadinanza, ius soli, riforma elettorale maggioritaria. Pochi punti irrinunciabili, appoggio esterno e a tempo, poi di nuovo al voto e nemici come prima. Se Di Maio non ci stesse, si assumerebbe la responsabilità della rottura. Ma almeno il Pd avrebbe fatto fino in fondo la sua parte, e riscoperto le ragioni politiche per esistere e per resistere.