Repubblica 1.3.18
La tragedia di Latina
Il sangue per non perdere il potere
di Natalia Aspesi
Ancora? Non ha fine questo terrorismo che certi uomini continuano a esercitare contro un nemico da annientare, la loro donna?
Talvolta, come nel caso agghiacciante di Latina, uccidendo anche i figli oltre se stessi, ma il suicidio è un affar loro?
È
possibile che una donna continui a essere poco credibile quando fa un
esposto, non una vera denuncia, per temute violenze del marito, che,
convocato, si dice invece tanto innamorato e subito viene creduto e si
lascia perdere? Forse, in questo caso, perché lui è un appuntato dei
carabinieri, anche se in passato sospeso per qualche mese con l’accusa
di truffa ma non di violenza; e perché lei è solo una donna ancora
giovane che ogni mattina all’alba esce per andare a lavorare e non vuole
più accettare un destino che la spezza. Toccheranno ai responsabili gli
accertamenti sul perché non l’hanno ascoltata, se è vero, non ai
pettegolezzi e alle illazioni. A ognuno di questi troppi delitti
domestici che non hanno mai fine, non c’è mai una risposta credibile,
oppure sempre la stessa, che nulla spiega. Chi sceglie di distruggere
tutto ciò che ha costruito e amato, o creduto di amare, compreso se
stessi, non è in grado di accettare un fallimento, uno smacco: non per
gelosia, non per un assurdo amore che rifiuta il disamore, ma perché la
soglia della sopportazione all’inimmaginabile, alla sofferenza, si è
molto abbassata, forse per tutti noi. Non c’è coraggio, né accettazione
soprattutto di questa cosa troppo dura, la fine, per un uomo, di un
potere immaginato e inesistente, un’arcaica certezza che nella pochezza
della propria persona, nella propria fragilità verso un mondo che ti
sfugge, almeno imperi su qualcuno, una famiglia, una donna di cui sei
padrone, come lo sei dei tuoi figli. Magari li ami moltissimo ma sono
cosa tua, ne puoi fare ciò che vuoi: se tu hai deciso che senza di loro
non puoi vivere, nessuno può vivere con loro e ammazzi anche loro.
Niente futuro per te, quindi niente futuro per loro. Forse tentare di
ammazzare, o ammazzare, la disubbidiente, l’insubordinata, colei che non
accetta la superiorità del suo uomo, dell’uomo, la sua fragilità da
nascondere e la violenza che sente privilegio maschile, non sono che una
ragione secondaria, una parte della totale cancellazione progettata,
l’annientamento, l’apocalisse. Un carabiniere poi, con l’arma
d’ordinanza, rappresentante delle forze dell’ordine che deve impedire il
disordine: in piazza, ma anche in casa, nella sua vita. Si sente questa
storia, se ne vede il vedibile, e subito si pensa, un altro pazzo,
invece no, fare una cosa orribilmente, tragicamente pazza, non vuole
dire essere pazzo, perché non sono i pazzi ad uccidere, ma i criminali:
un uomo, un marito, un padre, un carabiniere dall’istinto criminale che
prevale su tutto. Si guardano le foto di quelle bambine ridenti, si
immagina la scena horror, l’alba ancora buia, il padre che entra nella
cameretta delle figlie, la prima l’ammazza nel sonno, forse non se ne è
accorta e lui non l’ha guardata, ma l’altra con il colpo si sarà
svegliata, avrà visto, capito, i loro sguardi si sono incrociati. Eppure
non c’è stata pietà, rinsavimento: la strage come soluzione di un
cambiamento di vita difficile ma che ogni giorno avviene dovunque
migliaia di volte, magari con dolore ma senza tragedie così grandi.
Questa volta c’è anche l’intervento del web, più macabro di quando
qualche decennio fa la televisione seguì in diretta per ore la tragedia
di Vermicino, la fallita salvezza del bimbo caduto in un pozzo. L’uomo
che dal suo balcone fa finta di trattare con gli agenti che occupano
quello vicino, viene tempestato di messaggi postati sulla sua assurda
pagina Facebook, naturalmente insulti inutili e inutili messaggini
perché faccia il bravo, non uccida le bambine e si arrenda: ma lui le
bambine le ha già uccise e aspetta di avere il coraggio di uccidersi.