il manifesto 1.3.18
La tragedia di Latina
Non serve l’orrore, ma il lutto
di Sarantis Thanopulos
Il
carabiniere che ieri mattina a Cisterna di Latina ha ucciso le due
figlie dopo aver ferito gravemente la moglie, ha compiuto un gesto
distruttivo non così frequente come l’omicidio della sola compagna, ma
neppure raro.
Nel 2012 un pubblicitario a Brescia ha ucciso i suoi
figli, un bambino e una bambina, gettandoli dalla finestra, e dopo aver
cercato, senza riuscirci, di uccidere sua moglie, si è suicidato. Nel
2016 un medico a Taranto ha ucciso moglie e figlio per uccidersi a sua
volta. La stessa cosa aveva fatto un anno prima un carabiniere a Napoli.
Che l’odio omicida agito contro la compagna debba necessariamente
fermarsi di fronte ai figli è un’aspettativa comprensibile e spesso ciò
accade. Non è, tuttavia, una regola: la furia distruttiva può
oltrepassare il limite compassionevole che le assegniamo.
L’orrore
con cui perlopiù reagiamo, complica la nostra elaborazione del lutto.
Questo è un problema perché il dolore della perdita è l’unico sentimento
costruttivo di fronte alle catastrofi che irrompono nella nostra vita.
L’effetto orripilante, rizza il pelo, crea reazioni vagali, angoscia che
rifugge la sofferenza. Viene dall’infrazione di una
convinzione/convenzione morale, che si pretende legge della natura,
secondo cui i figli siano sacri e inviolabili a prescindere dal tipo di
relazione che hanno con i genitori e dalla capacità di questi ultimi di
sentirsi a loro agio nella propria funzione.
È vero che la
convenzione morale può fermare la mano omicida in coloro che la sentono
come ultimo legame con la comunità umana, ma l’argine non è solido e a
volte cede.
Gli uomini che uccidono moglie e figli non si sentono
né mariti né padri, se non a livello formale, cosa che aumenta il loro
senso di inadeguatezza. Sono interessati alla moglie, in cui vedono la
madre, e il loro interesse per la prole è strumentale al loro
rapportocon lei.
Questo li fa sentire genitori finti, abusivi e
aumenta il loro senso di dipendenza e di subalternità nei confronti
della figura materna. La loro è una condizione di coniuge-figlio, che
cercano di camuffare con la prepotenza, e quando la partner rompe con
loro possono vedere nei figli (vissuti come fratelli privilegiati che
restano con lei) dei rivali odiosi che li hanno emarginati.
Perduto
in questo modo il loro già molto fragile sentimento genitoriale, può
capitare, quando il proprio senso della realtà non regge l’impatto della
separazione, di voler estirpare dal mondo insieme alla compagna anche
l’esistenza stessa della maternità, la propria origine nel mondo,
l’origine della propria sterile, impotente esistenza.
Queste
catastrofi esistenziali, vissute in silenzio nel mondo interno dei
carnefici, prima di esplodere esternamente, sono messe in scena
tragiche, fallimenti irreparabili della relazione con l’altro. Possono
essere riparati solo dentro di noi, spettatori sugli spalti del teatro
tragico della vita, solo se ci facciamo coinvolgere dalla consapevolezza
che le nostre relazioni familiari sono sempre esposte a rotture
traumatiche se trascuriamo di prenderne cura. Silenzio di rispetto nei
confronti dei morti, terrore, compassione e lutto dentro di noi.