giovedì 1 marzo 2018

il manifesto 1.3.18
La tragedia di Latina
Non serve l’orrore, ma il lutto
di Sarantis Thanopulos


Il carabiniere che ieri mattina a Cisterna di Latina ha ucciso le due figlie dopo aver ferito gravemente la moglie, ha compiuto un gesto distruttivo non così frequente come l’omicidio della sola compagna, ma neppure raro.
Nel 2012 un pubblicitario a Brescia ha ucciso i suoi figli, un bambino e una bambina, gettandoli dalla finestra, e dopo aver cercato, senza riuscirci, di uccidere sua moglie, si è suicidato. Nel 2016 un medico a Taranto ha ucciso moglie e figlio per uccidersi a sua volta. La stessa cosa aveva fatto un anno prima un carabiniere a Napoli. Che l’odio omicida agito contro la compagna debba necessariamente fermarsi di fronte ai figli è un’aspettativa comprensibile e spesso ciò accade. Non è, tuttavia, una regola: la furia distruttiva può oltrepassare il limite compassionevole che le assegniamo.
L’orrore con cui perlopiù reagiamo, complica la nostra elaborazione del lutto. Questo è un problema perché il dolore della perdita è l’unico sentimento costruttivo di fronte alle catastrofi che irrompono nella nostra vita. L’effetto orripilante, rizza il pelo, crea reazioni vagali, angoscia che rifugge la sofferenza. Viene dall’infrazione di una convinzione/convenzione morale, che si pretende legge della natura, secondo cui i figli siano sacri e inviolabili a prescindere dal tipo di relazione che hanno con i genitori e dalla capacità di questi ultimi di sentirsi a loro agio nella propria funzione.
È vero che la convenzione morale può fermare la mano omicida in coloro che la sentono come ultimo legame con la comunità umana, ma l’argine non è solido e a volte cede.
Gli uomini che uccidono moglie e figli non si sentono né mariti né padri, se non a livello formale, cosa che aumenta il loro senso di inadeguatezza. Sono interessati alla moglie, in cui vedono la madre, e il loro interesse per la prole è strumentale al loro rapportocon lei.
Questo li fa sentire genitori finti, abusivi e aumenta il loro senso di dipendenza e di subalternità nei confronti della figura materna. La loro è una condizione di coniuge-figlio, che cercano di camuffare con la prepotenza, e quando la partner rompe con loro possono vedere nei figli (vissuti come fratelli privilegiati che restano con lei) dei rivali odiosi che li hanno emarginati.
Perduto in questo modo il loro già molto fragile sentimento genitoriale, può capitare, quando il proprio senso della realtà non regge l’impatto della separazione, di voler estirpare dal mondo insieme alla compagna anche l’esistenza stessa della maternità, la propria origine nel mondo, l’origine della propria sterile, impotente esistenza.
Queste catastrofi esistenziali, vissute in silenzio nel mondo interno dei carnefici, prima di esplodere esternamente, sono messe in scena tragiche, fallimenti irreparabili della relazione con l’altro. Possono essere riparati solo dentro di noi, spettatori sugli spalti del teatro tragico della vita, solo se ci facciamo coinvolgere dalla consapevolezza che le nostre relazioni familiari sono sempre esposte a rotture traumatiche se trascuriamo di prenderne cura. Silenzio di rispetto nei confronti dei morti, terrore, compassione e lutto dentro di noi.

Repubblica 1.3.18
La tragedia di Latina
Il sangue per non perdere il potere
di Natalia Aspesi


Ancora? Non ha fine questo terrorismo che certi uomini continuano a esercitare contro un nemico da annientare, la loro donna?
Talvolta, come nel caso agghiacciante di Latina, uccidendo anche i figli oltre se stessi, ma il suicidio è un affar loro?
È possibile che una donna continui a essere poco credibile quando fa un esposto, non una vera denuncia, per temute violenze del marito, che, convocato, si dice invece tanto innamorato e subito viene creduto e si lascia perdere? Forse, in questo caso, perché lui è un appuntato dei carabinieri, anche se in passato sospeso per qualche mese con l’accusa di truffa ma non di violenza; e perché lei è solo una donna ancora giovane che ogni mattina all’alba esce per andare a lavorare e non vuole più accettare un destino che la spezza. Toccheranno ai responsabili gli accertamenti sul perché non l’hanno ascoltata, se è vero, non ai pettegolezzi e alle illazioni. A ognuno di questi troppi delitti domestici che non hanno mai fine, non c’è mai una risposta credibile, oppure sempre la stessa, che nulla spiega. Chi sceglie di distruggere tutto ciò che ha costruito e amato, o creduto di amare, compreso se stessi, non è in grado di accettare un fallimento, uno smacco: non per gelosia, non per un assurdo amore che rifiuta il disamore, ma perché la soglia della sopportazione all’inimmaginabile, alla sofferenza, si è molto abbassata, forse per tutti noi. Non c’è coraggio, né accettazione soprattutto di questa cosa troppo dura, la fine, per un uomo, di un potere immaginato e inesistente, un’arcaica certezza che nella pochezza della propria persona, nella propria fragilità verso un mondo che ti sfugge, almeno imperi su qualcuno, una famiglia, una donna di cui sei padrone, come lo sei dei tuoi figli. Magari li ami moltissimo ma sono cosa tua, ne puoi fare ciò che vuoi: se tu hai deciso che senza di loro non puoi vivere, nessuno può vivere con loro e ammazzi anche loro. Niente futuro per te, quindi niente futuro per loro. Forse tentare di ammazzare, o ammazzare, la disubbidiente, l’insubordinata, colei che non accetta la superiorità del suo uomo, dell’uomo, la sua fragilità da nascondere e la violenza che sente privilegio maschile, non sono che una ragione secondaria, una parte della totale cancellazione progettata, l’annientamento, l’apocalisse. Un carabiniere poi, con l’arma d’ordinanza, rappresentante delle forze dell’ordine che deve impedire il disordine: in piazza, ma anche in casa, nella sua vita. Si sente questa storia, se ne vede il vedibile, e subito si pensa, un altro pazzo, invece no, fare una cosa orribilmente, tragicamente pazza, non vuole dire essere pazzo, perché non sono i pazzi ad uccidere, ma i criminali: un uomo, un marito, un padre, un carabiniere dall’istinto criminale che prevale su tutto. Si guardano le foto di quelle bambine ridenti, si immagina la scena horror, l’alba ancora buia, il padre che entra nella cameretta delle figlie, la prima l’ammazza nel sonno, forse non se ne è accorta e lui non l’ha guardata, ma l’altra con il colpo si sarà svegliata, avrà visto, capito, i loro sguardi si sono incrociati. Eppure non c’è stata pietà, rinsavimento: la strage come soluzione di un cambiamento di vita difficile ma che ogni giorno avviene dovunque migliaia di volte, magari con dolore ma senza tragedie così grandi. Questa volta c’è anche l’intervento del web, più macabro di quando qualche decennio fa la televisione seguì in diretta per ore la tragedia di Vermicino, la fallita salvezza del bimbo caduto in un pozzo. L’uomo che dal suo balcone fa finta di trattare con gli agenti che occupano quello vicino, viene tempestato di messaggi postati sulla sua assurda pagina Facebook, naturalmente insulti inutili e inutili messaggini perché faccia il bravo, non uccida le bambine e si arrenda: ma lui le bambine le ha già uccise e aspetta di avere il coraggio di uccidersi.
Repubblica 1.3.18
La tragedia di Latina
I post su Facebook
Parla con il killer l’ansia e l’orrore in diretta social
di Cristina Nadotti


Come nella tragedia greca il coro di Facebook partecipa alla vicenda, interviene direttamente nell’azione, dialoga con i protagonisti.
Mentre Luigi Capasso è barricato in casa, il suo profilo social è inondato di messaggi.
Ci sono gli insulti, quelli sono ormai quasi scontati, ma ci sono soprattutto gli appelli, i consigli, le suppliche perché lasci andare le bambine. Il coro di Facebook non sa che sono già morte e lo implora: «Non dare importanza a ciò che ti viene scritto di insulti...
ascoltami non fare nulla che ti possa servire a rovinare il vostro amore... lasciale libere tutto si risolverà... questo momento passerà».
Massimiliano aggiunge: «Caro mio capisco il periodo che state vivendo e Dio potesse fulminarmi se mi azzardassi a giudicare. Hai tutta la mia comprensione per il periodo duro che stai passando a livello mentale e familiare. Il mestiere che fai, alla lunga, logora la mente». Il tono è ossequioso, per non irritarlo: «Sig.@LuigiCapasso, si arrenda e si affidi ai suoi colleghi; la faccia finita e si ravveda, in nome di Dio, la prego!!».
Molti ammoniscono gli odiatori seriali con il maiuscolo: «Non offendetelo, è peggio!». Oppure si sentono investiti di un ruolo: «Rimuovete i commenti che non sono costruttivi. Se li leggerà, visto che non ha il profilo bloccato, rendetevi almeno utili». C’è a tratti la percezione dell’assurdità di tutto quel digitare: «Ma a qualcuno con un po’ di cervello, viene in mente di chiudere questo account prima che fate danni ???!!!».
Passano al setaccio il profilo, gli ricordano i momenti che ha passato con le bambine e chiusi come sono nel loro spazio virtuale, quando la notizia del suicidio di Capasso e della morte delle sue figlie è già su tutti i siti si chiedono l’un l’altro se le piccole sono ancora vive.
Non smettono di rivolgersi all’omicida-suicida neanche a tragedia compiuta, ma questa volta lo fanno soprattutto per insultarlo: «Bastardo delinquente devi bruciare all’inferno se Dio esiste ti deve far vivere ma devi soffrire tantissimo, lurido verme». C’è chi allarga l’insulto a tutta l’arma dei carabinieri, la litania di insulti e di commenti si spezzetta in mille rivoli di discussione che vanno dallo stipendio dei militari all’invito a non andare a votare. Riaffiorano barlumi di consapevolezza: «Stiamo parlando con un assassino morto. Che senso a (rigorosamente senza h)». La risposta di Ele Ele è come un verso da corifeo: «La rabbia...
C’è tanta rabbia e penso sia lecita...È chiaro che non ha senso ma ci può stare!».

La tragedia di Latina
Repubblica 1.3.18
Uomini che uccidono le donne più delitti, meno denunce
Nove su dieci non si rivolgono alle forze dell’ordine dopo i primi episodi
di Alessandra Ziniti


ROMA Il “raptus” non esiste, il femminicidio all’improvviso neanche. Ogni volta che un uomo uccide una donna (soprattutto dentro le mura di casa) gliel’aveva giurato. Dopo settimane, mesi, anni di fiato sul collo, minacce, stalking, violenze morali e fisiche. Delitti annunciati il cui numero continua a crescere, al ritmo di uno ogni tre giorni: 149 nel 2016 ( il 5,6 per cento in più rispetto all’anno precedente), 114 nei primi mesi del 2017 (l’ultimo dato disponibile), ben 1870 negli ultimi dieci anni.
Una strage di donne che fa dire a Mirella Agliastro, consigliere di Cassazione, una lunga esperienza in delitti contro le donne: « Ormai non è più una questione privata tra due soggetti, c’è un reale allarme sociale. Per questo anche le condanne devono essere adeguate » . E però quelle stesse donne vittime di violenza continuano a tacere. Tanto.
Troppo. Nove su dieci non denunciano non gli episodi iniziali, gli atti di stalking, i primi maltrattamenti, ma neanche le violenze più gravi, il preludio al peggio. Come se neanche la paura riuscisse a dare consapevolezza o a vincere la vergogna. Perché spesso è proprio di vergogna che si tratta.
Di donne così, sopravvissute per miracolo o raccontate da chi sapeva e non ha parlato, nelle aule di giustizia Mirella Agliastro ne ha viste tante: « Non denunciano perché si mortificano di ammettere di essere vittime. Sottovalutano i segnali e si illudono di poter ricondurre alla ragionevolezza gli uomini che hanno amato o che amano e che ora le minacciano. E hanno paura che denunciarli possa portare a conseguenze peggiori perché non si fidano della risposta delle autorità. E purtroppo spesso hanno ragione: non sempre le forze dell’ordine hanno la sensibilità necessaria e spesso in un processo le loro incertezze e ambiguità possono trasformarle da vittime a testimoni da attaccare » .
Il numero delle donne che in Italia hanno subito violenza almeno una volta nella vita sfiora i sette milioni. Una cifra impressionante soprattutto se si considera la percentuale delle minorenni: l’11 per cento, dunque più di 700mila, ha addirittura meno di 16 anni. Violenza sessuale, violenza fisica, maltrattamenti quasi sempre all’interno della famiglia o comunque nell’ambito di rapporti sentimentali. Assassini quasi sempre italiani (il 92 per cento) come le vittime, anche se una donna su quattro è straniera. Uomini assassini più al nord che al sud: la Lombardia con 25 casi, seguita da Veneto, la regione con la lista più lunga di femminicidi.
Dalla relazione della Commissione parlamentare sul femminicidio approvata tre settimane fa emerge che negli ultimi quattro anni l’uccisione di donne rappresenta oltre un quarto degli omicidi commessi.
Quasi sempre da mariti o compagni o ex. « La famiglia nella sua fase patologica uccide più della malavita organizzata » , denuncia il presidente dei matrimonialisti italiani, Gian Ettore Gassani, che indica uno dei principali vulnus nella mancanza di interventi dell’autorità giudiziaria durante le separazioni. « Si tratta del momento più difficile per le coppie. Troppi gli interessi in gioco e il dolore da gestire — dice — Quando, nel caso di una separazione giudiziale già avviata, vengono segnalati fatti violenti, l’autorità giudiziaria dovrebbe intervenire immediatamente fissando udienze in tempi rapidissimi nonché prevedere fin da subito e monitorare la situazione.
E quando il conflitto è particolarmente acceso, dovrebbe essere disposta la revoca del porto d’armi e il sequestro di armi in casa » .
Certo è che quasi tutte le cronache di femminicidi e atti di violenza sulle donne raccontano di denunce mancate ma anche rimaste senza seguito, fogli di carta ingiallita in fascicoli che nessuno apre fino a quando non accade il peggio. È uno dei motivi che dissuade mogli, figlie, compagne a rivolgersi subito alle forze dell’ordine. Ordini di allontanamento dal tetto coniugale e divieti di avvicinamento alle case di ex mogli e figli sono adottati ancora con il contagocce: circa 200 nel 2017 a fronte di un considerevole aumento delle denunce per stalking, più di 13.000.
«Purtroppo delle infinite molestie che subiscono le donne non importa niente a nessuno, non se ne parla. Viviamo in un clima di omertà — è l’amara analisi della psicoterapeuta Maria Rita Parsi — E a volte le donne sono le maggiori nemiche delle donne. Mi riferisco a tutte quelle che sono più fortunate ma non si indignano e non scendono in piazza» .

Repubblica 1.3.18
L’immortale desiderio di fascismo
L’essere umano porta con sé l’aspirazione alla libertà o la sua negazione?
Esiste una spinta ad adorare il padrone?
di Massimo Recalcati


Per Pasolini il “ nuovo fascismo” non aveva a che fare con le rinate organizzazioni fasciste dopo la fine della seconda guerra mondiale e la Liberazione, ma con il potere di plasmazione delle vite e delle coscienze che il nuovo “ sistema dei consumi” era riuscito a produrre dagli anni Sessanta in avanti. Questa tesi generale — in sé forse discutibile — ha il merito di emancipare il fascismo dal problema della sua eventuale riorganizzazione politica — che secondo Pasolini era un fenomeno del tutto residuale — per ricondurlo a un grande tema antropologico: siamo così sicuri che gli esseri umani amino più la loro libertà delle loro catene?
Il fascismo come rinuncia al pensiero critico, massificazione, irreggimentazione, soppressione sacrificale del singolare, solleva questo vertiginoso e potente dilemma: l’essere umano porta con sé l’aspirazione alla libertà o la tendenza alla sua negazione? Come hanno mostrato con efficacia psicoanalisti come Reich e Fromm il vero scandalo non è tanto il fascismo come regime politico- militare di tipo repressivo, ma il suo desiderio, il suo fascino, la sua presa seduttiva sulle masse. Come scrive Reich in apertura di Psicologia di massa del fascismo il vero problema non è perché le masse abbiano sopportato passivamente l’oppressione del fascismo, ma perché lo abbiano così ardentemente desiderato. Ecco il punto più scabroso che la crisi del nostro mondo sembra aver riesumato: è possibile desiderare il fascismo? Esiste nell’anima dell’uomo — nel suo inconscio — una tentazione fascista, una spinta gregaria ad adorare il padrone, qualcosa come un desiderio fascista?
Quando Freud scrive Psicologia delle masse e analisi dell’Io l’Europa sta precipitando nell’abisso del totalitarismo. In quest’opera egli suggerisce, con uno spirito che sfiora la chiaroveggenza, un ritratto inquietante della pulsione che anima i legami di massa e che spingerà l’Europa verso la seconda guerra mondiale. La guerra, il conflitto violento tra masse contrapposte, il sovvertimento di ogni dispositivo democratico, la contesa fondamentalista delle ideologie, derivavano, secondo Freud, da una trasformazione ordalica del legame sociale. L’affermazione vitalistica delle masse “ senza mente”, come direbbe Bion, è sempre destinata a rovesciarsi nella passione per la distruzione del nemico. L’amore infatuato per il “capo” sprigiona l’odio paranoico e di massa per l’avversario. Questo significa che la ragione illuminista non è stata l’ultima parola dell’Europa sull’uomo. L’incandescenza acefala della vita delle masse fasciste mostra l’altra faccia della ragione critica: pulsioni ribollenti, moti aggressivi, spinte rapaci che, escludendo ogni forma di mediazione simbolica — la democrazia —, esigono imperativamente la loro soddisfazione. L’Europa che Freud descrive come un accorpamento di fasci aspirati dal sogno perverso di un’unità compatta, identitaria, indivisa, è un’Europa che ha provato a risolvere il suo smarrimento, il suo deficit di instabilità e di identità, attraverso l’identificazione ipnotica allo sguardo e al bastone del capo.
Nell’Europa contemporanea la minaccia alla propria ( precaria) unità sembra incarnarsi soprattutto nel fenomeno dell’immigrazione. Si tratta di una “emergenza” che per alcuni mette in gioco la sua stessa sopravvivenza identitaria. In una realtà politica ancora fragile e ricca di contraddizioni — com’è quella europea — la presenza di questo pericolo esterno — unito ai vissuti “ intrusivi” generati dalla globalizzazione — ha riacceso non tanto l’attivismo politico neofascista, ma — cosa assai più pericolosa — il desiderio del fascismo. Si tratta di un insegnamento prezioso della psicologia collettiva: quando il tumulto sociale, la precarietà e l’instabilità raggiungono il loro colmo, la pulsione gregaria che anima l’identificazione “ a massa” può sempre ritrovare il suo vigore. Il desiderio del fascismo è un desiderio — come direbbe Umberto Eco —, “ eterno” perché esprime una tendenza propria della realtà umana: disfarsi dell’inquietudine della libertà, preferire la consistenza delle catene e della dittatura rispetto all’aleatorietà della vita, cercare rifugio nella cementificazione della propria identità piuttosto che rischiare l’apertura e la contaminazione.
L’inconscio delle masse contemporanee — per quanto private di ogni involucro ideologico e tendenzialmente polverizzate —, sospinge nella stessa direzione verso la quale si era incamminato il fantasma nero del totalitarismo: si invoca la mano pesante, la militarizzazione dei territori, l’irrigidimento dei confini, la repressione, l’esclusione etnica, il respingimento dell’invasore. Le Destre reazionarie in Europa e nel mondo cavalcano l’onda emotiva dell’emergenza. Il miraggio del muro promesso da Trump diviene così il simbolo di un desiderio rinnovato di fascismo. Sarebbe stolto però irridere o guardare dall’alto questi moti pulsionali dell’anima perché essi non riguardano solo una parte politica, ma ciascuno di noi nella sua intimità più propria. Il compito della politica non è quello di negarne l’esistenza, né quello di cavalcarli come mezzi cinici per ottenere un facile consenso. La liberazione dal desiderio del fascismo è un’impresa culturale ed etica di lungo respiro. Nell’asperità dell’attualità la politica deve dare prova di non cedere né all’illusione segregativa del muro, né di cancellare la domanda di legalità e di protezione che da quell’infame desiderio eterno, se si può dire così, proviene.

Repubblica 1.3.18
L’eterno ritorno di Severino l’ultimo dei parmenidei
di Antonio Gnoli


Un convegno a sessant’anni da “La struttura originaria”
Era il 1958 quando uscì per le edizioni della Scuola di Brescia La struttura originaria, un libro filosoficamente impervio scritto da un ventottenne che insegnava alla Cattolica di Milano. Sarà questo lo spunto per un convegno in programma a Brescia domani e dopodomani sul pensiero di Emanuele Severino. Il filosofo, che il prossimo anno compirà 90 anni, avrebbe da ridire sull’idea che esista un “suo” pensiero, dal momento che la filosofia non può ridursi a una questione personale. La filosofia non è un punto di vista sul mondo. La filosofia, per Severino, è il destino stesso dell’Occidente e della Verità.
Quella “verità” che l’Occidente ha continuamente travisato con il suo perdurante nichilismo.
Conclusione, l’Occidente è il luogo in cui si è manifestato l’errore, ma altresì è il luogo dell’errare, cioè è il luogo che non ha mai rinunciato a cercare la verità.
Non so se sia abbastanza chiara la riflessione di Severino. Ma l’impianto di questo discorso costituisce la forza de La struttura originaria. Chiedo a Massimo Donà che di Severino è stato allievo che giudizio dà di quell’opera: «È un libro a suo modo epocale, nel quale si combinano in modo geniale la struttura ontologica e immutabile del “Dio” tomista con l’idealismo gentiliano. Ciò che poteva sembrare un connubio bizzarro, che gli costò tra l’altro un’accusa e un processo per ateismo, in realtà fu un modo originalissimo per ripensare la questione dell’eterno o dell’immutabile come il manifestarsi del divenire. Quando Severino fu espulso per le sue tesi eretiche dalla Cattolica venne a insegnare a Venezia. Restai folgorato dalle sue lezioni.
Improvvisamente vedevo Hegel, Kant e Heidegger sotto una luce nuova». Anche Giacomo Marramao, che di Severino non è stato allievo ma ha spesso dialogato con lui, sottolinea la radicalità filosofica de La struttura originaria: «Quando lessi per la prima volta quel libro mi colpì l’assoluta estraneità rispetto a ciò che in quel periodo marxismo, esistenzialismo e fenomenologia proponevano.
Queste erano in qualche modo tutte filosofie del soggetto; mentre quella era puro distillato di pensiero. La proposta filosofica di Severino poteva dunque essere accolta come una stravaganza, una provocazione o una tardiva ripresa dell’idealismo. In realtà in quegli anni passò inosservata ai più. Solo con la riedizione Adelphi nel 1981 (la casa editrice pubblica tutte le sue opere teoriche), La struttura originaria entrò prepotentemente nel dibattito filosofico. Il tratto che più mi colpisce di questo libro è che l’originario non è assunto come sfondo oscuro, irrazionale, prelogico; bensì come una struttura sintattica che si mostra nell’apparire delle cose. Un inno spinoziano all’eternità del mondo. Un inno, a me pare, composto con la passione di Severino per la logica e la matematica. Tanto da indurmi a pensare che gli esiti della sua ricerca siano sorprendentemente simili agli effetti della nuova fisica». Può sembrare sorprendente che un pensiero nato in un ambito filosofico tradizionalista (uno dei maestri di Severino è Gustavo Bontadini) trovi rimandi nella logica pura e nella fisica dei quanti. Non è casuale che egli si sia misurato con i grandi logici del Novecento e in particolare con Rudolf Carnap al quale ha dedicato un lungo saggio apparso in Legge e Caso. In quel libro del 1979 si chiarisce il confronto serrato con il dominio della scienza (e della tecnica) e con la follia dell’Occidente. Quest’ultima espressione sarà una sorta di leit motiv di tutta la produzione severiniana: «Fu una delle locuzioni che maggiormente colpirono la mia fantasia», ricorda Umberto Galimberti. «Era il 1960 quando iniziai a frequentare i suoi corsi.
Quel sistema filosofico, costruito con un rigore estremo, mi sembrò inattaccabile. Una specie di prigione dorata per qualunque pensiero che avesse voluto viverci dentro. Come una grandissima opera d’arte. Avrei mai potuto obiettare a Van Gogh che i suoi girasoli erano imperfetti? Allo stesso modo non trovavo crepe o difetti al suo potente impianto logico. Paradossalmente, fu proprio la costruzione di una macchina così perfetta a spingermi a occuparmi di altro. Cosa avrei potuto aggiungervi?».
Il convegno bresciano, organizzato dall’Associazione di Studi Emanuele Severino, è solo uno degli appuntamenti. Un altro si terrà il 17 aprile al Conservatorio di Milano dove verrà eseguita Zirkus Suite, un’opera musicale che Severino compose nel 1947. «Ho l’impressione», spiega Donà, «che quella musica abbandonata per la filosofia in qualche modo ritorni nelle ultime opere teoriche di Severino, dove la potenza concettuale sembra lasciare spazio all’ineffabile bellezza del suono delle parole».

Il Fatto 1.3.18
La Chiesa immobile di Papa Francesco
Marketing - Bergoglio ha sedotto le masse con carisma e battute, ma non ha riformato l’istituzione che guida. Non per colpa della Curia ostile, ma perché la sua missione è preservare un mondo sempre più fragile
di Marco Marzano


Papa Bergoglio non ha fatto, nei cinque anni che ci separano ormai dalla sua elezione, alcuna riforma, non ha assecondato i piani di coloro che avevano sperato in cambiamenti strutturali nell’organizzazione del cattolicesimo.
Le riforme non si fanno, e probabilmente non si faranno, a causa principalmente dell’inerzia organizzativa della grande struttura ecclesiale e dell’assenza di una crisi profonda, che potrebbe innestare l’avvio di qualche cambiamento. Ci sono state però alcune innovazioni del pontificato che sostituiscono le riforme di struttura: l’attenzione ai temi economici e sociali e la “politica dell’amicizia”.
Al tramonto dell’eventualità di mutamenti reali negli assetti di potere interni alla Chiesa, non è seguita però una delusione profonda da parte dei riformatori e di quella ampia porzione dell’opinione pubblica simpatetica verso l’aggiornamento del cattolicesimo. I motivi per i quali ciò non è avvenuto è il “papismo” di molti cattolici, cioè l’attitudine a pensare il pontefice come all’uomo della provvidenza, all’unico soggetto a cui compete davvero e fino in fondo il diritto di decidere dove la Chiesa debba dirigersi.
A innescare la spirale di eccezionali aspettative è anche il fatto che, una volta eletto, il pontefice non è più rimovibile. Questo elemento fa immaginare che egli sia davvero, dal momento della designazione, un uomo libero, in grado di realizzare quei progetti che ha sempre segretamente coltivato. Questa rappresentazione del sovrano cattolico sottovaluta non solo il peso enorme dell’istituzione, dei suoi interessi, delle sue routine, dei suoi valori di fondo, ma anche il fatto che l’uomo anziano designato a quel ruolo è egli stesso un figlio di quella medesima istituzione.
Il mito del “papa buono e giusto”, circondato da una corte malvagia che ne sabota i tanti magnifici progetti di riforma, è più vivo che mai nella Chiesa di Francesco. La personalità e lo stile del papa argentino si sono imposti con una forza tale da spingere rapidamente in secondo piano le riforme e i cambiamenti strutturali. Francesco è diventato una celebrità così popolare, così seducente e intrigante sul piano personale, da rappresentare in sé una novità sufficientemente ampia per alimentare la fame continua di personaggi e di simboli. Con la sua capacità di sedurre le masse, il papa da un lato aumenta immensamente la popolarità della Chiesa, dall’altro, non solo fa scomparire del tutto dal dibattito pubblico il tema della secolarizzazione e della sempre minor rilevanza del cristianesimo. Ma oscura, quasi fosse una cosa irrilevante, l’esistenza e il funzionamento dell’organismo che dirige, della macchina ecclesiastica, cioè delle prassi politiche, religiose, culturali e normative nelle quali è immerso quel mezzo milione di preti che non si chiamano papa Francesco. Questo, lungi dal rappresentare un problema per l’apparato ecclesiale, diventa la premessa perché esso continui a riprodursi senza eccessive interferenze. Un papa come Francesco occulta, nel discorso pubblico e nella sensibilità collettiva, il dramma dell’allontanamento dei fedeli e le magagne della macchina clericale facendosi, grazie al soccorso dei media, egli stesso cattolicesimo.
Se il papa dice, come ha detto, di aver incontrato quarant’anni fa una psicanalista ebrea, un’affermazione dagli effetti nulli per la vita di un’organizzazione che comprende da tempo tantissimi psicologi, la stampa italiana titola che la Chiesa riconosce e accetta la psicanalisi; se il papa fa una battuta sul giudicare gli omosessuali, per i media la Chiesa ha già archiviato la sua tradizionale posizione di condanna dell’amore tra persone dello stesso sesso. Il sistema della comunicazione tratta la Chiesa come se fosse un’azienda “liquida”, nella quale brand, cultura organizzativa, norme e ragione sociale possono cambiare a seguito di un’alzata di ingegno dell’amministratore delegato. Il papa non fa niente per correggere questo atteggiamento, anzi lo accredita, costruendo in questo modo l’immagine di un’organizzazione religiosa più adatta ai nostri tempi, più gradita alla maggioranza dell’opinione pubblica che in misura sempre più ridotta frequenta sacrestie e oratori e che non nutre particolari pregiudizi contro gli omosessuali o la psicanalisi. La Chiesa cattolica è in realtà l’organizzazione più solida che esista e i cambiamenti al suo interno sono regolati da una selva di regole e di norme, ognuna delle quali richiederebbe, per essere mutata, una riflessione teologica, una discussione dottrinaria, un confronto attento.
Quello che Francesco sembra aver compreso è che il messaggio religioso nel nostro tempo può diventare attraente solo se promette, a chi lo fa proprio, di “vivere meglio”, di realizzare le proprie aspirazioni, di condurre un’esistenza più ricca e serena. L’insistenza sulla dottrina, sul peccato, sulle norme morali da non violare riflettevano un’offerta religiosa basata sullo scambio tra un comportamento dei fedeli retto e rispettoso delle norme morali emesse dalla Chiesa e una garanzia di salvezza eterna assicurata da quest’ultima. In quella visione, la Chiesa si offriva come mediatrice e agenzia di salvezza tra Dio e gli uomini. Questa prospettiva è oggi sempre meno credibile. È ormai divenuta troppo grande la capacità umana di curare e guarire le malattie, di posporre la morte, di aumentare il benessere e la qualità della vita perché lo scenario basato sullo scambio escatologico abbia ancora chance di successo.
Se questa interpretazione è corretta, il papato di Francesco si concluderà senza grandi botti. Francesco ha 81 anni e si avvicina inevitabilmente al termine del suo pontificato, che potrebbe anche concludersi, come avvenuto per il predecessore, con delle clamorose dimissioni “per raggiunta incapacità di assolvere ai doveri dell’alto officio”.
Quale sarà la sua eredità? Come capo della struttura si è rivelato un anziano prete affezionatissimo all’identità cattolica tradizionale, il servitore fedele di una mentalità clericale che ha coltivato per un’intera vita, il primo boicottatore di ogni vera riforma strutturale dell’istituzione. La sua innovazione più grande è stata la pacificazione di tutte le prospettive interne, la composizione, in nome della salvezza dell’organizzazione, dei conflitti tra gruppi e interessi, in un orgoglioso compattamento identitario che getta a mare tutte le ormai anacronistiche divisioni del passato, e con esse le teologie che le giustificavano, per ritrovarsi tutti uniti dentro la medesima struttura di potere maschile e clericale.
Come rappresentante dell’istituzione si è dimostrato in possesso di eccezionali strumenti di comunicazione, che lo hanno reso il personaggio più popolare e amato al mondo, il traghettatore della vecchia barca cattolica nella società del benessere e dell’immagine. Cosa chiedere di più?

il manifesto 1.3.18
Peripezie politiche e linguistiche della «razza»
Vocaboli. Storia di una parola simbolo della tragicità di un secolo, fino al rovesciamento del suo significato da parte di Gianfranco Contini che la rintracciava nel Medioevo francese, come marchio di bestialità
di Lino Leonardi

Direttore Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano

Quest’anno ricorre il tragico ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali da parte della dittatura fascista. Fu il momento più ignobile della storia istituzionale dell’Italia unita, il momento di massima adesione all’ideologia nazista, preparato da una propaganda pseudo-scientifica, divulgata nella rivista che si intitolava «La difesa della razza».
Da allora, la parola razza non è più una parola neutra. Evoca il genocidio perpetrato dal nazi-fascismo, il ripudio dell’identità umana, dietro le vesti della pretesa identità razziale. Gli atti dell’Assemblea costituente testimoniano le lunghe discussioni per la stesura dell’art. 3, circa l’opportunità di inserire quel termine nella Carta: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Alla fine si decise di tenerlo, con la motivazione che non si poteva tacere quel presunto tratto identitario che era costato la vita a tanti: bisognava esplicitamente negarlo, nominarlo per cancellarlo dall’uso comune. E tuttavia, le cronache della campagna elettorale hanno diffuso nei giorni scorsi l’espressione di uno dei candidati alla presidenza della più grande e ricca regione italiana: di fronte alla migrazione, «dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere». La difesa della razza, appunto.
Tutte le parole hanno un peso, questa più di tante altre: è una parola-simbolo delle tragedie del Novecento, il suo rifiuto deve essere alla base della condivisione repubblicana. Ma oltre a queste considerazioni, vi è un aspetto propriamente linguistico che credo necessario sottolineare.
L’origine del termine razza è stata a lungo incerta, e discussa tra illustri studiosi. Fino agli anni Cinquanta prevaleva l’ipotesi che derivasse dal latino ratio, quanto di più nobile e proprio della natura umana. Leo Spitzer, ebreo viennese che nel 1933 espatriò dalla Germania nazista, sostenne quella tesi: «fu per me un piacere pieno di malizia presentare alla Germania l’idea che la parola che veniva usata in contrapposizione a ’spirito’ vanta così un’origine altamente spirituale».
Ma Gianfranco Contini nel 1959 capovolse la prospettiva, dimostrando che l’origine era tutt’altra. Razza ha le sue prime attestazioni in italiano antico, da cui si diffonde a tutte le lingue europee, ed è una trasformazione medievale dell’antico francese haraz, che indica un allevamento di cavalli, una mandria, un branco. Per una delle più vistose parole-simbolo in nome delle quali si era prodotta l’abiezione della ragione veniva così riconosciuta «una nascita zoologica, veterinaria, equina» (Contini). Un caso formidabile in cui la scoperta dell’origine di una parola può cambiarne la percezione e l’uso, può determinare la sua trasformazione da nobile segno di eccellenza e di distinzione a specifico marchio di bestialità.
Successivi studi hanno confermato la tesi, e l’ultima conferma la offre infine oggi il Tesoro della lingua italiana delle origini, elaborato dall’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano, che ha aggiunto altri esempi duecenteschi e ha documentato l’uso estensivo alle proprietà di una categoria umana solo nella seconda metà del Trecento. La documentazione antica, che attesta la continuità e la trasformazione semantica del termine, non lascia dubbi.
Ancora oggi però il Trésor de la langue française e l’Oxford English Dictionary, pur riconoscendo la derivazione di race dall’italiano razza, non registrano l’etimologia indicata da Contini. Eppure da decenni la parola razza, marchiata a fuoco dalla peggiore ignominia della storia del Novecento, può e deve essere intesa alla luce del suo significato originario, e dovrebbe essere usata solo per definire un’identità non umana.
Nel 1959, quando Contini pubblicò la sua ricerca, un quotidiano nazionale si rifiutò di darne notizia. Nell’Italia e nell’Europa di oggi, cinquant’anni dopo, così diverse da quelle di allora, c’è ancora bisogno di diffondere, anche sul piano strettamente linguistico, la consapevolezza di quell’aberrazione
*Direttore Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano

il manifesto 1.3.18
Cultura   
Le favole di Gramsci tra Spagna e Sardegna
Scaffale. Nelle librerie, «L’albero del riccio e altre fiabe della buonanotte», un'opera che nasce dalla collaborazione tra due case editrici, Icaria editorial di Barcellona e Abbà di Cagliari
di Marina Turi


Ricci che fanno la raccolta delle mele, gazze, donnole, tartarughe, secchielli con pesciolini dentro, corvi e gufi in battaglia per la proprietà di un boschetto, volpi furbissime alle prese con puledrini indifesi. Il gioco della dama, la libertà nel disegno, la scuola e i figli che crescono e diventano giovanetti, il ballo delle lepri e la storia del cavallino che aveva la coda solo nei giorni di festa. Sono alcuni dei temi trattati ne L’albero del riccio e altre fiabe della buonanotte, titolo in italiano dei quattro volumetti che raccolgono una selezione di fiabe scritte e spedite per lettera, dal carcere fascista, da Antonio Gramsci, detenuto matricola 7047, ai figli Delio e Giuliano. Storie che affrontano, con leggerezza, le cose dei grandi e della vita, sono pensieri da dietro le sbarre ed è questo a renderli speciali e, a differenza delle fiabe a cui siamo abituati, non sempre c’è un lieto fine. Leggerle è anche un po’ curiosare nella vita meno conosciuta di Gramsci, per scoprire un suo lato intimista e qualche reperto della sua infanzia in Sardegna.
NELLE LIBRERIE ITALIANE e spagnole, in quattro edizioni, italiano, castigliano, catalano e sardo, perché l’opera nasce dalla collaborazione tra due case editrici, Icaria editorial di Barcellona e Abbà di Cagliari. L’edizione spagnola e catalana è presentata da Rosa Regàs, scrittrice, l’edizione italiana è firmata da Mauro Pala, ordinario di letture comparate. Le traduzioni in spagnolo e catalano sono a cura di Marcello Belotti, da anni trapiantato in catalogna e da sempre innamorato di Gramsci, quella in sardo è di Pepe Coròngiu, esperto di politiche linguistiche. Ogni racconto e ogni lettera è elegantemente illustrato dalla mano di Claudio Stassi, disegnatore per la Bonelli editore. E forse questa delle quattro edizioni in quattro lingue è una trovata editoriale insolita con la pretesa di favorire il dialogo tra idiomi e popoli diversi, seppure vicini. È una idea che irrompe nella scena spagnola di oggi divisa sulla questione catalana, ancora irrisolta, in un momento politico in cui il partito delle destre al governo sostiene che i bambini catalani hanno serie lacune nel buon uso semantico del castigliano.
MISCHIATE ALLE FAVOLE ci sono le brevissime e intense lettere per i figli che vivono in Russia con la madre Julka Schucht, violinista moglie di Gramsci.
Chiede a Giuliano, che non conoscerà mai, le impressioni sul mare che il figlio ha visto per la prima volta. Domanda dei granchi, si informa se ha imparato a nuotare. In un’altra lettera si lamenta con Delio della propria vita tra le sbarre, che «trascorre monotona, ma in modo soddisfacente per la salute» e si rammarica con lui di non poter essere loro vicino, di «non poterli aiutare nel loro lavoro per la scuola e per la vita». Poi si raccomanda con Giuliano di disegnare come vuole, «per ridere e per divertirsi e non seriamente, come se facessi un compito che non ti piace».
Cerca di condividere con loro il suo desiderio di genitorialità, la voglia di esserci, una attenzione protettiva e amorevole, così sensibile alla dimensione della fiaba.

il manifesto 1.3.18
Meloni da Orbán, «fratelli» contro Ong e immigrazione
Ungheria. Visita lampo a Budapest per assaporare l’idea dell’«Europa cristiana». L’italiana ritiene che Roma dovrebbe dialogare con il «gruppo di Visegrád» anziché Parigi e Berlino. Convergenza «anti-Soros»
di Massimo Congiu


BUDAPEST Visita lampo a Budapest di Giorgia Meloni che nella capitale ungherese ha incontrato il primo ministro Viktor Orbán per un confronto su temi di reciproco interesse. All’Europa dell’asse franco-tedesco la leader di Fratelli d’Italia preferisce quella del Gruppo di Visegrád (V4) di cui l’Ungheria del Fidesz è membro attivo e impegnato con ardore nella difesa dell’Europa cristiana e dei popoli. Questo ardore piace alla Meloni i cui punti di vista su Europa e migrazione convergono con quelli dell’uomo forte che guida l’attuale governo danubiano.
LA CONVERGENZA REGISTRATA fra le parti riguarda la lotta all’immigrazione incontrollata, la difesa dell’identità europea minacciata dagli ingenti flussi migratori costituiti prevalentemente da genti di fede islamica e la difesa delle economie nazionali dalle grinfie dei grandi speculatori. «Ritengo che l’Italia dovrebbe aprire un dialogo con il V4 piuttosto che con Parigi e Berlino» ha detto una Meloni seriamente interessata a quanto avviene a est e al confronto che i quattro di Visegrád portano avanti con Bruxelles.
Musica per le orecchie del premier di Budapest che ha accolto l’ospite a braccia aperte vedendo in essa un’alleata, una che condivide la sua idea di Europa e di sovranità nazionale e che appare pronta a combattere la stessa battaglia.
PER I DUE LEADER politici si tratta di lottare contro la tecnocrazia dell’Ue che vorrebbe dettar legge in casa d’altri e contro le manovre di personaggi accusati di agire dietro le quinte per destabilizzare gli equilibri interni dei paesi membri e ridurre il potere dei governi nazionali. Si parla di George Soros, il magnate americano di origine ungherese che il governo Orbán tratta da nemico della nazione. L’esecutivo magiaro sostiene la tesi che vedrebbe l’interessato portare avanti un piano con cui riempire l’Ungheria e il resto dell’Ue di immigrati musulmani. Tesi sposata dalla Meloni che aspetta solo di approdare al governo per vietare alle Ong di Soros di operare in Italia. In questo il governo Orbán fa scuola, dal momento che di recente la maggioranza ha presentato al Parlamento ungherese un pacchetto di leggi contenente misure atte a colpire le Ong che danno assistenza ai migranti, specie quelle finanziate dal discusso magnate statunitense.
La Meloni mostra di trovarsi in sintonia con lo spirito che ispira questi provvedimenti e di gradire la compagnia del capo di un governo che ha manifestato solidarietà concreta alla Polonia minacciata dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona.
ORBÁN HA DI RECENTE ottenuto l’appoggio del Parlamento per sostenere Varsavia nel suo confronto con la Commissione europea che punta il dito contro le nuove leggi riguardanti il sistema giudiziario polacco.
Leggi che, secondo la Commissione, possono mettere a rischio lo stato di diritto nel paese. L’Ungheria di Orbán si dice pronta a stare al fianco della Polonia fino a un eventuale veto di Budapest, in consiglio europeo, contro l’attivazione delle sanzioni.
Tutto ciò in nome del principio per il quale ogni paese è padrone in casa sua, il che significa, secondo i sovranisti, che essere membri dell’Ue non significa dover sottostare ai dettami di Bruxelles.
Orbán e Meloni sono leader politici di due paesi che a breve vanno al voto: all’Italia tocca domenica, all’Ungheria l’8 aprile. Il partito governativo Fidesz è reduce dalla sconfitta patita lo scorso fine settimana alle elezioni locali di Hódmezővásárhely, una delle roccaforti di questa formazione politica.
AL VOTO PER L’ELEZIONE del sindaco ha prevalso Péter Márki-Zay, candidato cattolico appoggiato dall’opposizione del centro-sinistra e da Jobbik. Secondo diversi analisti si tratta di un segnale preoccupante per il governo Orbán, ma va anche detto che lo schema di Hódmezővásárhely non sarà facilmente applicabile a livello nazionale come dimostra anche il fatto che i partiti avversari del governo avrebbero escluso di volervi far ricorso in vista dell’8 aprile. Di fatto, secondo gli ultimi sondaggi, il Fidesz è al 32-34% contro l’11-13% di Jobbik e il 9% dei socialisti. Il voto dello scorso fine settimana, comunque, dimostra se non altro che unita, l’opposizione può ottenere qualcosa sul piano dell’impegno per contrastare Orbán.

La Stampa 1.3.18
Posizioni anti-Ue
Così Fratelli d’Italia rompe il patto del centrodestra
di Marcello Sorgi


La campagna elettorale è così affollata di eventi spettacolari, che i leader in corsa quasi non sanno più cosa inventarsi per cercare di emergere dal chiasso e dalla confusione con cui stanno accompagnando gli elettori alle urne, incuranti del fatto che proprio l’esagerato ricorso allo «spin» rischia di produrre l’effetto opposto, spingendo i cittadini verso l’astensione.
Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia ieri è andata addirittura a incontrare il premier ungherese Viktor Orban, esponente di punta del gruppo di Visegrad, di cui fanno parte anche Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, e portatore di una linea durissima contro l’immigrazione, che ha cercato di consolidare con un referendum, fallito per insufficiente affluenza ai seggi, ma in cui i cittadini ungheresi si erano espressi al 98 per cento a favore di un inasprimento delle misure contro i clandestini e le politiche dell’Ue di redistribuzione dei profughi tra i Paesi partner.
Se Meloni cercava un’illuminazione su un terreno sul quale finora s’è mosso più efficacemente il suo alleato Salvini, specie dopo i fatti di Macerata, trovando l’appoggio della destra filofascista, e spingendo Berlusconi all’inverosimile promessa dell’espulsione di 600 mila clandestini in caso di vittoria, sicuramente c’è riuscita. Ma nella fretta di condividere i metodi di Orban, che ha rivinto le elezioni nel 2014 impegnandosi a costruire una barriera di filo spinato attorno ai confini dell’Ungheria, forse non ha riflettuto sul fatto che all’Italia conviene battersi in Europa affinché le promesse dell’Unione sui migranti, fin qui disattese, siano rispettate. Mentre invece se dovessero prevalere le politiche del gruppo di Visegrad, l’Italia, i suoi immigrati, dovrebbe tenerseli tutti, con evidente pericolo di saturazione.
Ma l’iniziativa di Meloni, oltre a non tener conto di questo, ha rotto il tacito accordo nel centrodestra a non assumere posizioni di oltranzismo anti-Unione europea. Dopo che Berlusconi aveva platealmente fatto pace con Juncker e con la Merkel, rinunciando alla bislacca proposta della seconda moneta, da affiancare all’euro per le transazioni interne, e dopo che anche Salvini aveva messo da parte le posizioni anti-euro e anti-Nato, il viaggio della Meloni a Budapest e il selfie con Orban inaugurano una svolta che, se non sarà corretta, non potrà che creare allarme a Bruxelles e a Strasburgo. Un centrodestra a trazione sovranista e xenofoba concretizzerebbe in Italia l’incubo che s’è appena dissolto in Francia con la sconfitta della Le Pen e in Germania con la vittoria, seppure stentata, della Merkel e la rinascita della Grande coalizione.

Repubblica 1.3.18
Internazionale nera I selfie sul Danubio di Meloni e Orbán “Intesa tra patrioti”
Viaggio blitz a Budapest dal premier xenofobo e antieuropeista La presidente di Fdi: “Lavoreremo assieme”
di Alessandra Longo


ROMA Finalmente Giorgia Meloni stringe convinta la mano di qualcuno. Lui è Viktor Orbán, primo ministro ungherese dal 2010, quello dei reticolati antimmigrati, quello che vorrebbe «rastrellare e deportare su un’isola gli irregolari», quello dell’identità cristiana europea prima di tutto, quello che ha rifatto Costituzione e legge elettorale a sua immagine e somiglianza e messo il bavaglio alla stampa. «Tra patrioti europei ci si intende subito alla grande » , twitta la presidente di Fratelli d’Italia.
Viaggio lampo, a pochi giorni dal voto. Ieri un’alzataccia, alle sei partenza da Ciampino insieme ad Adolfo Urso ( ministro con Berlusconi, candidato al Senato e presidente della Fondazione politica Farefuturo, il vero artefice dell’incontro tra anime gemelle avvenuto a margine di un think tank italo-ungherese).
Eccoli, Giorgia «la patriota» e Viktor l’antieuropeista, in odor di xenofobia. Cheese! Photo opportunity sotto le rispettive bandiere e vista fiume. Lei, raggiante, lui protettivo. Insieme per un’ora, nella sede del Parlamento di Budapest, «wonderful place! » , dice Meloni. Se Salvini flirta con Marine Le Pen (un po’ appannata), e i CinqueStelle inseguono Putin, l’ex camerata punta su Orbán, sull’Ungheria, « che ha politiche avanzate per la natalità e la famiglia » , che spende un miliardo in filo spinato per ricacciare gli indesiderati ( e vorrebbe poi presentare il conto all’Unione Europea), che detesta « i burocrati di Bruxelles ».
Capelli al vento, sullo sfondo del Danubio, Meloni fissa la telecamera: «È andata bene, benissimo. Condividiamo con Orbán tanti punti di vista dai quali partire per fare un lavoro comune nei prossimi mesi » . Gli elettori sono avvisati.
Di cosa hanno parlato? «Di difesa delle radici cristiane, del processo di islamizzazione in corso».
Il feeling è grande, non solo con l’uomo solo al comando di Budapest, ma anche con l’intero gruppo di Visegrad ( Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia), tutti promotori della cortina di ferro anti- migranti, Paesi che rifiutano il piano di ripartizione proposto dall’Unione Europea. Orban ha già detto che i nostri migranti non li vuole («Teneteveli»).
Meloni però tifa Italia- Visegrad contro « lo strapotere dell’asse franco-tedesco». E contro la linea fin qui seguita dal nostro centrosinistra in Europa.
Viaggio breve ma intenso (alle 11.30 tutto finito, ripartenza per l’aeroporto), tra gente unita da un comune sentire. Tra l’altro anche l’Ungheria andrà alle urne un mese dopo l’Italia. Anche di questo si è parlato nel seminario organizzato da Adolfo Urso, moderatore l’analista politico Paolo Quercia. Avendo asfaltato l’opposizione e svuotato le istituzioni, Orbán e i suoi conservatori populisti di Fidesz ( Unione Civica Ungherese), sono dati in vantaggio ma meno di altre tornate elettorali. Alle comunali di Hodmezovasarhely, dove Fidesz governa da 20 anni, gli uomini di Orbán sono passati dal 61 per cento al 42. Primi segni di un declino magari a favore dello Jobbik, partito ancora più a destra? Meloni si tiene stretto Orbán: « Spero sia riconfermato ».

il manifesto 1.3.18
L’intelligenza artificiale e un nuovo compromesso sociale
Secondo Raymond Kurzweil, futurologo visionario, l’anno della svolta universale sarà tra 10/12 anni quando il robot trascenderà il cervello umano
di Alfonso Gianni


Lo rilevava già Enrico Berlinguer in una intervista rilasciata a Ferdinando Adornato nel dicembre del 1983, dove ricordava come egli stesso avesse proposto al 22° congresso della Fgci un convegno sulla futurologia, come capacità di affrontare le nuove contraddizioni del tempo.
Alla maliziosa domanda dell’intervistatore sul «sole dell’avvenire», mantra di un futuro socialista mai avveratosi, il segretario del Pci rispondeva che “c’è un paradosso: sul sole dell’avvenire oggi discutono più gli scienziati che i comunisti”. Sono passati 35 anni e la situazione non è mutata se non in peggio, visto il disgregarsi del pensiero e della forza comunisti.
La contingenza elettorale non ha certo favorito la ripresa di un dibattito politico dotato di un certo respiro. Forse era persino ingenuo sperarlo. A maggior ragione va apprezzato come gli articoli di Mario Dogliani e di Gianni Ferrara (il manifesto, 26 gennaio e 16 febbraio) siano in felice controtendenza. Il tema posto è di grande complessità, ovvero come rispondere alla crescente disoccupazione strutturale indotta dai sempre più veloci processi di digitalizzazione e di robotizzazione in atto in tutti i settori dell’economia. Non mancano analisi di vario genere, diverse catastrofiste, altre più ottimiste, alcune persino agiografiche legate alle “magnifiche sorti e progressive” della tecnologia. Ma tutte sorgono e circolano più in ambito scientifico e sociologico che non politico. Anzi la politica non pare neppure sfiorata dalla drammatica complessità del problema.
MENTRE CIÒ CHE APPARIVA argomento del futuro, è oggi realtà, nella dimensione più distopica possibile. Mi fermo ad un esempio solo che mi pare emblematico di come si sono invertiti i flussi della globalizzazione e quanto aggressiva sia la tendenza a sostituire il lavoro morto – quello incorporato nei robot – al lavoro vivo. La cinese Tianyuan Garments ha annunciato che aprirà una fabbrica tessile in Arkansas, grazie a generosi incentivi diretti e agevolazioni fiscali da parte della Contea. Potrà produrre 23 milioni di t-shirts all’anno, made in Usa, al prezzo medio di 33 centesimi di dollaro. Secondo il presidente della società cinese, che lavora anche per Adidas, Armani e Reebok, in nessun paese del mondo il costo del lavoro sarà così basso.
La fabbrica sarà infatti interamente gestita da robot, con una velocità di produzione calcolata in 26 secondi a pezzo. Per ora la Tianyuan si è impegnata ad assumere 400 persone a Little Rock, la capitale dell’Arkansas: saranno prevalentemente operatori delle macchine. Ma fino a quando questa occupazione durerà?
L’estensione della robotizzazione aggredisce tutti i settori, compreso quelli ad elevato contenuto di lavoro intellettuale. Un travaso di lavoratori dall’uno all’altro segmento produttivo, come successe nelle precedenti rivoluzioni industriali, è oggi sostanzialmente illusorio. Certamente una resistenza a processi di distruzione occupazionale può e deve essere intrapresa. Senza vagheggiare moderni luddismi.
Intervenire sugli algoritmi che regolano velocità e intensità della prestazione lavorativa è oggi un punto decisivo che qualifica la contrattazione. Ma il problema è che la robotizzazione riguarda l’intero mondo del lavoro, non solo quello manifatturiero, ove ancora si può contare sulla forza operaia e buoni tassi di sindacalizzazione. Ma non sempre e non ovunque. In più i processi si muovono sempre più rapidamente.
Secondo Raymond Kurzweil, uno dei futurologi più visionari, l’anno di svolta della storia universale potrebbe essere vicino, tra dieci/dodici anni, quando l’intelligenza artificiale riuscirà a trascendere i limiti del cervello umano, fermo a una capacità computazionale di soli cento trilioni di connessioni, peraltro lente.
SE UNA SIMILE PREVISIONE fosse confermata anche soltanto in minima parte è evidente che la sola contrattazione potrebbe ben poco. Diventa strategico da subito muoversi per una consistente riduzione dell’orario di lavoro – ovviamente a parità di retribuzione per non comprimere la domanda interna –; per un piano di interventi pubblici diretti nell’economia in quei settori innovativi che il capitale disdegna, inventando anche nuove forme di lavoro; per la conquista di un salario di cittadinanza che sia sì incondizionato, ovvero slegato dalla prestazione individuale di lavoro, ma non certo dalla capacità produttiva dell’intera società, senza la quale non vi sarebbe ricchezza reale da ridistribuire in modo equo. Dogliani richiede un nuovo compromesso fra stato e mercato per «socializzare la ricchezza prodotta dalle macchine». Ma per fare questo – afferma – ci vorrebbe uno stato fortissimo. Il che è contraddetto dallo svuotamento di poteri dello stato-nazione da un lato e, osserva Ferrara, dal fatto che «alla base della società resterebbe immutato il rapporto capitalistico di produzione e la posizione dominante del capitale».
IL NOCCIOLO DURO e insopprimibile dei rapporti di forza fra capitale e lavoro si ripropone, peraltro su scala almeno continentale – visto che quei processi di robotizzazione sono guidati e implementati da imprese multinazionali – e ciò succede proprio mentre all’apparenza il lavoro sembra sparire o regredire a livello servile. Come di fatto ci dicono i processi in corso. Il che ci indica che anche un nuovo compromesso sociale, come fu quello che si costruì nel terzo quarto del secolo passato, poggia le sue basi sul conflitto tra le classi. Se quella operaia non ha la compattezza e la centralità d’un tempo, vi è però l’estensione a livello sociale delle varie forme di sfruttamento, oltre che di negazione di diritti, che può costituire la base oggettiva più che di un’alleanza, di una unità del variegato e represso mondo del lavoro. Ed è solo così e su questo che si può ricostruire una sinistra a livello politico. Vaste programme? Sì certo. Ma esserne consapevoli è già un buon inizio.

Repubblica 1.3.18
“Ancora non possono dirsi “italiani”
I grandi assenti in un Paese che non sa sognare
di Michela Marzano


Diritti. Sarebbe bello che qualcuno ne parlasse, anche solo per ricordare come nel nostro Paese ancora non ci siamo. E che sono veramente tante le persone che aspettano che le proprie libertà fondamentali siano prese sul serio e riconosciute. Ci sono centinaia di giovani nati in Italia, che parlano la nostra lingua, hanno la nostra cultura e condividono i nostri valori, che ancora non possono dirsi “italiani”. Ci sono centinaia di bambini e di bambine che, solo perché vivono in famiglie composte da due uomini o due donne, non hanno ancora il diritto di godere degli stessi diritti di tutti gli altri bambini. Ci sono centinaia di uomini e di donne che, pur avendo moralmente il diritto di autodeterminarsi, non vedono la propria autonomia riconosciuta a livello giuridico quando si tratta di affrontare i delicati momenti dell’inizio o del fine vita. È come se, una volta chiuso il capitolo delle unioni civili e del testamento biologico nel corso della scorsa legislatura, i responsabili politici del nostro Paese avessero deciso che non ci fosse più bisogno di perdere tempo (o energie) con i diritti, e che fosse giunto il momento di occuparsi di altro. E i bambini che vivono nelle famiglie omogenitoriali che non sono ancora né protetti né riconosciuti come ugualmente degni di considerazione e di attenzione? E gli stranieri nati in Italia che hanno tutto degli italiani, a parte il riconoscimento pieno della propria cittadinanza? E l’accesso alle origini per tutti coloro che sono nati da madre che non consente di essere nominata e che si vedono preclusa anche solo la speranza di conoscere un pezzo della propria storia? E il cognome materno, che ancora oggi non si può trasmettere ai propri figli come se solo l’identità paterna fosse degna di essere ricordata? E il bisogno fondamentale per ognuno di noi di restare «soggetto della propria vita» fino alla fine, decidendo quando e come morire?
Sembra assurdo, ma è proprio così: di questi problemi non ne parla nessuno. E i diritti, nei programmi di praticamente tutti i partiti, sono assenti: nessuna promessa, nessuna prospettiva, nessun progetto, nessuna visione. Come se fosse inevitabile che, in Italia, esistano cittadini di serie A e cittadini di serie B, e che questi ultimi si debbano accontentare delle briciole, capendo una volta per tutte che le priorità sono altre. Peccato che la promozione dell’uguaglianza di tutti e di tutte, nonostante le differenze di sesso, di genere, di orientamento sessuale, di colore della pelle, di credo religioso, di abilità o disabilità fisiche o psichiche, faccia parte del codice genetico di ogni democrazia liberale, e che solo creando le condizioni morali e materiali per il rispetto della dignità di tutti l’Italia potrà poi confrontarsi a testa alta con il resto dell’Europa.

il manifesto 1.3.18
Quanto costa a Di Maio la svolta governista
di Michele Prospero


Quanto pagherà nei consensi la svolta governista che induce Di Maio a vagare negli schermi tv, in compagnia della sua squadra di governo? L’onda che nel 2013 travolse il bipolarismo nasceva da una protesta contro la politica che aveva sposato i dogmi dell’austerità.
Ora il M5S, da agente della rivolta, si propone quale campione della stabilizzazione. E accetta il pensiero più insidioso della seconda repubblica: le elezioni non riguardano la rappresentanza, ma investono direttamente il governo. Non è senza rischio il passaggio dal comico che minaccia e nelle piazze grida il verbo nuovo («uno vale uno») al candidato premier che esibisce il reclutamento delle sue «eccellenze» cui prenotare un incarico di governo. Dal ritmato slogan «siamo cittadini punto e basta», con una giravolta il M5S passa alla promessa di un ministero della meritocrazia.
Grillo ha ucciso i partiti che si erano consegnati al governo tecnico di «rigor Monti» e ora Di Maio cammina pericolosamente in vista di una riesumazione del cadavere dei tecnici. Proporsi come un Monti in miniatura è un passaggio rischioso. Con il mito dei super competenti il M5S rinuncia alla sua ragion d’essere, una rivolta dei senza nome e degli esclusi, che miete consenso al di là della identità dei candidati (gli elettori avrebbero potuto perdonare persino lo spettacolo degli scontrini, delle candidature di massoni e condannati).
Ammainare la bandiera della rabbia, per indossare la grigia giacca della rispettabilità tecnocratica, comporta per il M5S una completa ricollocazione nello spazio politico. Ciò mette in libertà antichi sostegni sia verso la destra (il risentimento contro le potenze europee avverte più forte l’attrazione fatale di Salvini), sia verso il centro (il governo degli esperti riabilita il valore delle virtù calme di Gentiloni o Padoan), sia verso sinistra (la campagna contro la burocrazia e la spesa pubblica restituisce un ruolo alla difesa del welfare, del lavoro).
Presentandosi agli elettori non più come forza di protesta ma in nome della credibilità e del prestigio dei ministri in pectore, Di Maio scatena la involontaria (e costosa) comparazione con l’esperienza di governo effettiva dei sindaci pentastellati. Presentandosi come forza integrata nei riti di un sistema di potere ormai sfibrato, il non-partito (non più) grillino mette in pericolo la sua stessa sopravvivenza. Partecipando al gioco del candidato premier che in maniera grottesca invia al Quirinale i nomi dell’esecutivo, Di Maio viene colpito da un ethos mancante, e affonda nelle preferenze per carenza di credibilità.
La questione non è la sua scarsa esperienza e la sua giovane età. La pongono in questi termini gli stessi osservatori che hanno esaltato l’esuberanza giovanile di Renzi e la scarsa solidità della sua squadra. Non è questo il nodo. In fondo, il leader del M5S ha alle spalle cinque anni di vice presidenza della camera. Un curriculum persino superiore a quello di chi, quando scalò Palazzo Chigi, alle spalle aveva solo la presidenza della provincia di Firenze.
Quando Di Maio si propone come presidente del consiglio e capo di esperti altera l’identità del M5S che, non a caso, ha condotto la sua campagna di marzo solo con una piattaforma politicista, con una agenda tutta interna al palazzo. La stessa proposta di un «contratto di programma», con chiunque in aula si dichiari disponibile all’abboccamento, svela l’integrale conversione che dalla piazza conduce al palazzo. Di Maio sembra essere colpito dalla sindrome Giannini, del commediografo dell’Uomo Qualunque che, dalla protesta contro tutti i politicanti, incautamente passò al gioco politicista delle intese. Con le sue offerte, che Togliatti non si lasciò sfuggire accettando la pratica del dialogo e dell’attenzione, determinò lo sgonfiamento della forza che nel dopoguerra aveva organizzato l’antipolitica.
Anche l’ultima battaglia positiva che il M5S ha condotto, quella in difesa della costituzione contro il plebiscito renziano, viene intaccata dalla proposta di revisione della Carta per l’abbattimento del cuore del regime parlamentare-rappresentativo: l’assenza di ogni vincolo di mandato per il deputato. Non a caso la sintonia è stata subito trovata con Berlusconi che ha sempre coltivato l’obiettivo della cancellazione della libertà costituzionale del parlamentare per ricondurlo agli ordini dell’azienda.
Le incaute mosse del M5S restituiscono margini alla sinistra. Che può recuperarli però solo promettendo opposizione, lotta. Ce ne sarà bisogno dopo il 4 marzo, quando esploderà la crisi del Pd, il M5S mostrerà la sua debolezza culturale. La sinistra tornerà ad essere una necessità per la democrazia italiana, sfigurata e aggredita dagli abbracci multipli di Berlusconi che si rivolge a Di Maio per uccidere il parlamentarismo e alle truppe di Veltroni, Bonino e Prodi (non solo di Renzi) per l’approdo al presidenzialismo carismatico.

La Stampa 1.3.18
“Sostiene il boicottaggio di Israele”
L’economista e universitario Fioramonti nega, ma un’intervista del 2016 lo incastra
Polemica sul ministro scelto da Di Maio
di Ilario Lombardo


Lorenzo Fioramonti fa il suo debutto da fanta-ministro del M5S con una bugia: «Non ho mai sostenuto e non sostengo tutt’oggi, ovviamente, alcun boicottaggio nei confronti di Israele» dice. A inchiodarlo però è il web dove è semplice trovare una sua intervista alla testata The Daily Vox: «C’è un boicottaggio accademico internazionale contro i funzionari pubblici di Israele, che è supportato da gruppi progressisti sia in Israele sia in Palestina, e ha molto sostegno anche in Sud Africa. Questo boicottaggio è la chiave per una pace equa e sostenibile in Medio Oriente, mettendo in evidenza come dietro la facciata di soluzioni tecnologiche ci sia un sistematico sfruttamento delle comunità palestinesi».
Era l’11 febbraio 2016, Lorenzo Fioramonti era ancora solo il direttore del Centre for study of governance innovation ed economista all’Università di Pretoria. «Un popolare accademico - dice il titolo dell’intervista - che rifiuta di partecipare al summit sull’acqua» per protesta contro la presenza dell’ambasciatore israeliano in Sud Africa, Arthur Lenk che avrebbe parlato delle soluzioni di desalinizzazione adottate da Israele. Perché invitare lui, un’autorità e non dei tecnici? - si chiede l’allora prof Fioramonti -. Perché non sono stati invitati a parlare altri rappresentanti di altri Paesi mediorientali con problemi di siccità? «Ci sono abbastanza prove di come Israele porti via l’acqua ai palestinesi» e «abbia una posizione basata su politiche inique e spesso oppressive».
Fioramonti non poteva sapere che due anni dopo, diventato il candidato ministro del M5S al ministero dello Sviluppo economico, questa storia gli sarebbe stata scagliata contro dai suoi avversari politici e non solo. Pagine ebraiche, rivista edita dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, parla di «inquietudine e indignazione per la candidatura a ministro di un docente di economia contraddistintosi in passato per aver sostenuto la campagna d’odio e boicottaggio contro Israele». Segue il Pd che attacca, anche se qualcuno si spinge oltre e tira in ballo l’antisemitismo che poco c’entra con questa vicenda.
Certo è che Luigi Di Maio per difenderlo parla di «fake news», quando la notizia del boicottaggio invece è vera, e lo stesso Fioramonti scivola nel tentativo di eclissare un’intervista che è facilmente rintracciabile.
Alla fine l’economista è costretto a rinnegare se stesso e ad adeguarsi al comunicato confezionato dalla comunicazione del M5S che lo sconfessa: «Il M5S disconosce ogni forma di boicottaggio nei confronti dello Stato di Israele in quanto partner economico-politico essenziale nella stabilizzazione delle aree di crisi». Per la Comunità ebraica romana, dopo il comunicato riparatore dei grillini, la faccenda può chiudersi. Resta comunque l’impressione che, come già dimostrato dal viaggio in Medio Oriente di Di Maio, il M5S non abbia maturato una linea unica su Israele. Due anni fa Manlio Di Stefano costrinse il futuro leader a una polemica con gli israeliani per un’intervista che legittimava Hamas come possibile interlocutore. Proprio sulla gestione idrica, poi, Di Maio fu incalzato per un’interrogazione che il gruppo romano, compresa Virginia Raggi, presentò quando era all’opposizione contro l’accordo tra la municipalizzata Acea e il colosso di Israele Mekorot, accusato di deviare l’acqua verso le colonie.
Per quanto può, Di Maio tenta di nascondere le contraddizioni interne al M5S ma sa che avendo aperto a figure non militanti del grillismo non tutto potrà essere controllato. Nulla ha potuto per esempio contro Alessandra Pesce, candidata dell’Agricoltura, dirigente dello stesso ministero che, a Tagadà, ha definito «un buon ministro» Maurizio Martina del Pd proprio mentre era seduta accanto a Di Maio che invece aveva bollato come «indegne» le misure del governo sul settore. Oggi sapremo chi sono tutti i nomi della squadra di un ipotetico governo. Intanto è certo Domenico Fioravanti allo Sport. Una scelta, come quella di Fioramonti al Mise, figlia di altre rinunce.

Il Fatto 1.3.18
La commedia degli equivoci del Pd e del Pd2, detto LeU
di Marco Palombi


In queste settimane c’era qualcosa che mancava alle nostre vite, ma non sapevamo cosa: era Enrico Letta. L’ex premier, di cui avevamo colpevolmente dimenticato l’esistenza e il forzato esilio, ci ha fatto sapere, dalla Polonia, di aver votato a Parigi: “Il voto del 4 marzo? – s’è domandato su Twitter – Se penso all’Italia e all’Europa voglio augurarmi che Paolo Gentiloni ne esca rafforzato con la coalizione che lo sostiene”. Ora, Gentiloni non è il candidato premier del suo partito (e quello della coalizione neanche esiste), ma Letta nomina lui perché si capisca che 1) Renzi gli sta sul gozzo; 2) ha votato Bonino (d’altra parte voleva Morire per Maastricht, giusto il titolo di un suo volume del 1997, e +Europa ha il programma giusto per l’obiettivo). L’equivoco del centrosinistra è l’equivoco di San Gentiloni, vergine e martire, candidato a non si sa cosa, da settimane in ostensione come la Madonna Pellegrina senza spostare un voto nei sondaggi (d’altra parte che deve spostare uno che arrivò terzo su tre alle primarie del Pd a Roma). L’unica, vera fortuna del Pd è LeU, ormai una sorta di “Pd2 la vendetta”, formazione i cui sussurri confusi (ieri Grasso s’è impiccato a un governo “di scopo” con Renzi e Berlusconi “se ce lo chiede Mattarella” facendosi smentire dal giovine Fratoianni) sembrano un ostinato tentativo di far scendere la lista sotto al 3% ed evitare, dissolvendosi, la futura scissione tra bersaniani ed ex Sel. Al traguardo manca poco e noi avremmo un’idea in questo senso risolutiva: perché non dire chiaro e tondo che pure LeU vota Gentiloni?

Il Fatto 1.3.18
Ogni promessa è debito: i partiti senza coperture
Molti annunci, poche risorse per finanziarli. Dalla Flat Tax al reddito di cittadinanza ai sussidi alle famiglie: servirà molto deficit
Pronti a tutto. Le “offerte” dei partiti per guadagnarsi il voto alle elezioni politiche di domenica
di Stefano Feltri


In questa campagna elettorale che molti considerano la più brutta di sempre, almeno un dato positivo c’è: i partiti hanno presentato dei programmi più dettagliati che in passato e sono stati chiamati a renderne conto, a spiegare quali numeri c’erano dietro vaghe promesse. Dopo settimane di annunci in tv, fact checking sui giornali e repliche dei responsabili economici delle varie forze, si riesce ad avere un quadro di sintesi. Come stime dei costi e delle coperture abbiamo considerato quelle dell’Osservatorio sui conti pubblici guidato dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli alla Cattolica di Milano (che ha sintetizzato il tutto nei grafici in questa pagina). Ecco cosa promettono i protagonisti delle elezioni del 4 marzo, quante coperture hanno presentato.
Partito democratico
Lavoro, welfare e altri 80 euro
Il Pd propone interventi per 38,6 miliardi di euro secondo l’Osservatorio di Cottarelli, 35 miliardi secondo la stima del responsabile del programma, l’economista della Bocconi Tommaso Nannicini (candidato a Milano). In continuità con la linea dei governi Renzi-Gentiloni, il grosso delle misure riguarda welfare, lavoro e imprese: dall’estensione degli 80 euro alle partite Iva all’allargamento della platea del Rei, il reddito di inclusione per chi è in povertà assoluta, a una serie di sussidi alle famiglie con incentivi per l’affitto dei giovani e per le madri che tornano a lavorare dopo la gravidanza. Sono previste molte assunzioni nella Pubblica amministrazione: oltre allo sblocco del turnover (sostituzione di chi va in pensione), ci sono anche 10 mila nuovi ricercatori e 10 mila vigili del fuoco e appartenenti alle forze dell’ordine. Continua la strategia di sostegno agli investimenti delle imprese lanciata dal ministro Carlo Calenda con il programma “Industria 4.0”.
LE COPERTURE. Il Pd non ha mai presentato una lista dettagliata di coperture, si limita a spiegare che si tratta di interventi simili a quelli già realizzati e che non richiedono sforzi di finanza pubblica superiori a quelli della fase Renzi-Gentiloni. L’Osservatorio di Cottarelli indica come unica fonte di copertura specifica identificabile 400 milioni di nuovo gettito come “effetti indotti da maggiori spese”. Tra gli auspici c’è quello che un governo Pd rassicuri i mercati e la Commissione Ue, evitando una manovra correttiva di primavera, e liberando quindi risorse. Altrettanto teorica è la possibilità che l’Italia ottenga ulteriore flessibilità negli impegni di riduzione del debito e possa quindi finanziare misure in deficit.
LA MISURA SIMBOLO. Il Pd ha scelto di non avere una singola proposta caratterizzante, Nannicini sottolinea come quello che conta è il combinato tra rimodulazione degli interventi di welfare e stimoli alla crescita, con l’obiettivo di generare nuova occupazione sostenibile. Matteo Renzi punta sui “9 miliardi alle famiglie”, cifra che si ottiene aggregando insieme tutti gli interventi destinati a giovani, donne e familiari a carico.
A CHI SI RIVOLGE. È un programma rivolto al ceto medio-basso, lo stesso pubblico di riferimento degli 80 euro, con il tentativo di parlare anche alle partite Iva e alle imprese.
Liberi e Uguali
Università, imposte sui patrimoni e sussidi
La somma degli interventi principali di Liberi e Uguali vale, secondo i calcoli dell’Osservatorio di Cottarelli, 101,1 miliardi di euro. Tra gli interventi principali c’è una revisione dell’Irpef, riducendo l’aliquota del primo scaglione (20 miliardi), una riforma dei sostegni fiscali alle famiglie, con riorganizzazione e aumento di risorse (20,1 miliardi). La misura più costosa, secondo l’Osservatorio, è la trasformazione dei vari prelievi sui redditi da capitale e sul patrimonio mobiliare e immobiliare in una imposta unificata con aliquota progressiva e varie esenzioni. Un intervento fiscale che comporterebbe anche una riforma dell’Imu sugli immobili e che costa 32 miliardi.
LE COPERTURE. Senza considerare le stime tutte virtuali di 50 miliardi recuperabili con la lotta all’evasione fiscale, restano, nei calcoli di Cottarelli, 52,9 miliardi. Altri 29,6 miliardi dovrebbero arrivare dalla “imposta di equità”: non una nuova patrimoniale, spiegano da LeU, ma un accorpamento razionalizzato dei tanti prelievi che già ora gravano sui patrimoni, dal bollo auto all’Imu alle imposte sul conto corrente.
LA MISURA SIMBOLO. La parte più approfondita del programma di LeU è quella su istruzione e ricerca. Tra le proposte c’è quella di “ampliamento della gratuità dell’istruzione universitaria”. Cancellare le tasse annuali costerebbe circa 1,6 miliardi. La misura è stata criticata perché sarebbe finanziata da tutti i contribuenti, anche dai più poveri o da quelli che non hanno figli che studiano, ma ne beneficerebbero solo famiglie con universitari che non sono in fondo alla scala sociale.
A CHI SI RIVOLGE. È un programma che promette redistribuzione e più welfare, si rivolge alle parti basse del ceto medio e agli statali attuali e futuri, in particolare al mondo della scuola e dell’università, docenti e studenti. Non cerca consensi a destra o tra le imprese.
Centrodestra
Flat Tax, il condono e più pensioni per tutti
Ci sono programmi specifici dei singoli partiti (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia), ma c’è anche un programma di coalizione che secondo i calcoli dell’Osservatorio di Cottarelli vale 136,2 miliardi. Quasi la metà si deve al progetto di flat tax sui redditi da lavoro (64 miliardi) e il resto deriva dal “reddito di dignità” (23 miliardi) di cui non è mai stato dettagliato il contenuto e le condizioni, ma dovrebbe essere una forma di imposta negativa di cui beneficia chi è nella no-tax area, e dall’abolizione della riforma Fornero (21 miliardi). Tra le altre misure principali l’aumento a 1.000 euro delle pensioni minime (4 miliardi), di quelle di invalidità (1,9 miliardi) e delle spese per la Difesa, per rispettare gli impegni Nato (9,1 miliardi).
LE COPERTURE. Silvio Berlusconi ha detto di avere pronti 275 miliardi di coperture per le sue promesse elettorali. Secondo Cottarelli, il programma genera risorse per soli 82,4 miliardi. La copertura più rilevante è l’eliminazione delle agevolazioni fiscali (tax expenditures) come conseguenza dell’introduzione della flat tax: 64 miliardi. La riforma Fornero verrebbe poi sostituita da un altro intervento sulla previdenza (che dovrebbe portare forse 10,5 miliardi) i cui i contenuti non sono mai stati esplicitati. Tra le coperture vengono considerati anche 4,3 miliardi ottenibili soltanto azzerando l’intera spesa per il salvataggio e l’accoglienza dei migranti. L’Osservatorio Cottarelli non considera il gettito del maxi-condono fiscale che verrebbe abbinato alla riforma del fisco (le stime più ottimistiche parlano di 40-60 miliardi).
LA MISURA SIMBOLO. Tutto ruota intorno alla flat tax. Riformare l’Irpef è un’esigenza condivisa, visto che il reddito ottenuto dal lavoro è molto più tassato di quello prodotto dalle rendite immobiliari e finanziarie. Ma al di là delle questioni di copertura, la flat tax produce benefici molto diseguali: le famiglie che stanno nella fascia del 10 per cento dei redditi più bassi avrebbero un beneficio medio annuo di 28 euro, quelle che stanno nel 10 per cento più ricco di 9.475 euro (calcoli di Massimo Baldini e Leonzio Rizzo su Lavoce.info). La progressività, assicura il centrodestra, sarebbe garantita almeno in parte dall’ampliamento della no-tax area e dall’imposta negativa per i poveri.
A CHI SI RIVOLGE. Il programma punta all’elettorato classico di Berlusconi: pensionati, professionisti con redditi (dichiarati) elevati che otterrebbero benefici dalla flat tax, evasori e partite Iva che hanno contenziosi col fisco interessati al condono. Per le imprese c’è poco: più che alla crescita è un programma orientato al consenso.
Movimento 5 Stelle
Reddito di cittadinanza e aiuti alle famiglie
Secondo l’Osservatorio di Cottarelli, le misure espansive valgono 103,4 miliardi. Il pacchetto principale è quello fiscale: riforma delle aliquote Irpef a beneficio dei redditi più bassi (11 miliardi), espansione della no-tax area (11 miliardi), e riduzione dell’Irap per le imprese (11 miliardi). Gli altri due interventi consistenti sono la modifica della riforma Fornero sulle pensioni (21 miliardi) e il reddito di cittadinanza per disoccupati e pensionati (14,9 miliardi). Alle famiglie vengono offerti nuovi sussidi per 17 miliardi.
LE COPERTURE. Cottarelli stima che ce ne siano soltanto per 39,2 miliardi, quasi la metà di queste derivano dal taglio delle tax expenditures, cioè dalla cancellazione di una serie di sconti fiscali oggi in vigore (per 14,3 miliardi). 10 miliardi arrivano dalla cancellazione degli 80 euro renziani, inglobati nell’intervento sull’Irpef. Lorenzo Fioramonti, candidato a essere il ministro dello Sviluppo, ha spiegato che gran parte delle risorse arriverebbero da una revisione della spesa (ardua, però, visto che il commissario renziano Yoram Gutgeld ha tagliato 29,9 miliardi che sono stati subito usati per finanziare altre misure di spesa). Un’altra parte sarebbe finanziata in deficit, in deroga agli attuali impegni con la Ue.
LA MISURA SIMBOLO. Il reddito di cittadinanza resta la misura caratterizzante del programma M5S: sarebbe una versione espansa per somme (780 euro circa a salire per le famiglie) e per platea del Rei varato dal governo Gentiloni. I cinquestelle in campagna elettorale hanno enfatizzato soprattutto l’impegno a investire 2 miliardi per riformare i centri per l’impiego che devono aiutare i disoccupati, beneficiari del reddito di cittadinanza. Non hanno però spiegato come farebbero a migliorarne l’efficienza.
A CHI SI RIVOLGE. Gli obiettivi sono i disoccupati, che otterrebbero il reddito di cittadinanza, la parte più bassa del ceto medio e gli aspiranti statali (c’è la promessa di quasi 30.000 assunzioni). La parte rivolta alle imprese cerca il consenso di quelle più piccole e delle partite Iva, come dimostrano anche le rassicurazioni di un atteggiamento non troppo intrusivo del fisco che hanno preso il posto delle denunce del sommerso e dell’evasione fiscale.

Il Fatto 1.3.18
Via dall’Afghanistan, almeno risparmiamo
di Massimo Fini


L’Emirato islamico d’Afghanistan (vale a dire i Talebani), che si considera tuttora il governo legittimo di quel Paese essendone stato spossessato da un’invasione straniera, attraverso una lettera aperta indirizzata direttamente al “popolo americano” ha proposto agli Stati Uniti di avviare un negoziato per arrivare finalmente alla pacificazione in una terra che non conosce tregua da quasi quarant’anni, se si escludono i sei e mezzo in cui fu governata dal Mullah Omar.
È difficile immaginare che gli americani accettino di trattare (del resto un niet è già arrivato dalla Nato) stretti come sono fra un malposto orgoglio nazionale e il proprio totalitarismo ideologico. La guerra afghana è infatti ormai puramente ideologica non essendoci evidenti interessi economici – al contrario – e nemmeno strategici, a differenza di quello che avviene nell’Estremo Oriente dove l’obbiettivo Usa è di tenere Seul in perenne conflitto con Pyeongchang, in funzione essenzialmente anticinese, mentre le due Coree potrebbero tranquillamente convivere in modo sereno come hanno dimostrato le recenti Olimpiadi invernali.
Eppure dalla fine della guerra all’Afghanistan gli americani hanno solo da guadagnare. 1. Soldi innanzitutto. Gli Stati Uniti infatti vi spendono 45 miliardi di dollari l’anno. Donald Trump, che è molto attento ai quattrini del ceto medio americano (“America first” vuol dire innanzitutto questo) dovrebbe rifletterci.
Che senso ha continuare a spendere soldi in una guerra che gli stessi strateghi e think tank americani ammettono che “non può essere vinta”? E invece “the Donald”, che per il resto ha sconfessato pressoché in tutto la politica del suo predecessore, in questo caso ha seguito la linea Obama inviando in Afghanistan altri 4.900 uomini. 2. L’Isis, nonostante le sanguinose sconfitte di Mosul e Raqqa e l’eliminazione di un proprio territorio, è ritenuto ancora, e con ragione, una grave minaccia, tanto che non c’è riunione fra presidenti o ministri degli Esteri o degli Interni degli Stati che non appartengono alla galassia sunnita in cui il terrorismo jihadista non sia uno dei temi in discussione e non c’è incendio o esplosione di un caseggiato, con tutta evidenza casuali, di cui non ci si affretti ad affermare che il terrorismo internazionale non c’entra, così forte è la paura che la sua sola esistenza ci ha messo addosso.
Bene, i Talebani, pur sunniti, in Afghanistan combattono l’Isis e riescono per ora a fare argine. Ma la cosa non può durare a lungo, perché i Talebani, stretti fra gli occupanti occidentali e i guerriglieri che si richiamano al Califfato di Al Baghdadi, perdono terreno rispetto ai jihadisti, come dimostrano alcuni recenti attentati a Kabul targati Isis. E così, a loro volta, per riaffermare la loro supremazia sono costretti a incrementare gli attacchi agli obbiettivi militari occidentali (quattro solo nell’ultima settimana con un bilancio di 23 morti fra i soldati del governo fantoccio di Ashraf Ghani sostenuto dagli Stati Uniti).
Ma potrebbe anche accadere – e ce ne sono già le avvisaglie – che i Talebani finiscano per allearsi con Isis, invece di combatterlo, considerandolo il male minore rispetto agli occupanti occidentali. L’Isis ne uscirebbe quindi enormemente rafforzato. Questo Putin l’ha capito benissimo riconoscendo ai Talebani lo status di “movimento politico e militare” e quindi non terrorista. Non si capisce perché gli americani non possano fare lo stesso accettando di trattare con gli emissari dell’Emirato islamico d’Afghanistan e ponendo così fine a una guerra che ha causato centinaia di migliaia di vittime civili, di persone contaminate dai proiettili all’uranio impoverito, di bambini nati per lo stesso motivo deformi, e che non giova a nessuno se non, appunto, al terrorismo internazionale che, battuto per ora in Medio Oriente, ritrova vigore in Asia Centrale e da lì, oltre alla Russia, può ritornare a colpire in Europa e negli stessi Stati Uniti.
In quanto a noi, che in quel Paese manteniamo 900 soldati, i cinquestelle hanno promesso in campagna elettorale che se andranno al governo ritireranno dall’Afghanistan il nostro inutile contingente che ci costa 475 milioni l’anno.
Con 475 milioni non si risanano certo le malandate finanze del nostro Stato, ma almeno il ritiro dall’Afghanistan, il rifiuto di fare gli eterni servi sciocchi degli americani, oltre che un dovere morale, sarebbe anche una prova, sia pur su un aspetto apparentemente minore, della credibilità dei “grillini” e dei loro programmi.

il manifesto 1.3.18
Quando la produzione del sapere è legata ad apparati di potere
Tempi presenti. Un’intervista con l’antropologa Ruba Salih, ospite domani della rassegna «Femminile Palestinese», su decolonizzazione e libertà accademica. «Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da essa»
di Chiara Cruciati


A settant’anni anni dalla Nakba e la fondazione dello Stato di Israele il popolo palestinese vive da rifugiato, apolide e disperso. Dentro la Palestina storica la colonizzazione israeliana prosegue incessante, supera le frontiere ed entra nel linguaggio, la produzione del sapere, la narrativa internazionale.
Il processo di «memoricidio», come l’ha definito lo storico israeliano Ilan Pappe, ha permesso a Israele di radicare nell’immaginario collettivo miti che non hanno riscontro storico, un’idea di Israele che plasma una storia e forgia un linguaggio, quelli del vincitore.
Ne abbiamo discusso con Ruba Salih, antropologa italo-palestinese e docente alla Soas dell’Università di Londra. Con Pappe sarà all’Università di Salerno venerdì per discutere di «Decolonizzazione e libertà accademica», evento della rassegna Femminile Palestinese.
Cosa significa decolonizzare l’accademia?
Gli effetti del processo coloniale del secolo scorso, la cui espressione attuale è l’occupazione israeliana, rimbalzano nel mondo accademico, non esistendo una produzione del sapere isolata dagli avvenimenti politici esterni. Si vede nei programmi, le politiche delle università, i testi spesso distorti in quanto riproduttori di canoni coloniali. La decolonizzazione si realizza in primo luogo individuando i legami che la produzione del sapere ha con l’apparato economico, militare e politico responsabile dei processi neocoloniali.
In secondo luogo svelando i modi in cui l’università riproduce una politica economica non neutrale ma basata su rapporti di potere: attraverso corporation e investimenti in paesi in cui tali processi sono in atto e attraverso l’ammissione di studenti di una certa classe o etnia, decidendo a priori chi diventerà élite e chi ne sarà escluso. In terzo luogo agendo sulla cultura politica quotidiana, ripensando la performatività dell’insegnamento e le modalità di rapporto con persone che non hanno la stessa tradizione pedagogica o epistemologica.
Infine, decolonizzando il sapere: analizzare come i paradigmi neocoloniali sono riproposti nella letteratura, ancora improntata sul sapere bianco, maschile, di upper class, che rappresenta culture e popoli diversi come soggetti chiusi e statici, oggetti di ricerca estranei alla loro dimensione politica e culturale. Una forma di feticismo.
In Italia sono stati cancellati eventi, anche da università, incentrati sulla Palestina. Lei è stata protagonista di un simile atto di censura. Cosa è successo?
A novembre avevo organizzato un evento con Omar Barghouti all’Università di Cambridge. L’ateneo lo ha cancellato e io sono stata accusata di non essere neutrale. Un attacco gravissimo, che prelude alla messa in discussione della mia capacità di insegnamento, e al mondo accademico in sé perché la censura è giunta nel quadro di Prevent, la legge britannica anti-terrorismo e anti-radicalizzazione. La sua oscura implementazione ha trasformato le università in luoghi di sospetto dove la libertà di espressione si è assottigliata.
E Prevent ha un capitolo dedicato alla questione palestinese, etichettata come area di radicalismo. Professori e studenti si sono mobilitati: sono state raccolte firme e il caso è stato reso pubblico. Cambridge è stata accusata di violazione della libertà di espressione e di insegnamento. E alla fine si è scusata, dicendo di aver ceduto alle pressioni di quelle che ha definito lobby. In Inghilterra sono fortissime, gruppi con la missione di limitare le espressioni di solidarietà con la Palestina.
Intervengono con diverse strategie: l’ambasciatore israeliano fa il giro delle università come ospite; attivisti pro-israeliani intervengono sistematicamente nei dibattiti per ridicolizzare la discussione, accusare di antisemitismo o filmare i presenti, compiendo violenza psicologica. Si difendono parlando di libertà di parola, che però non vale in senso positivo visto che ci impediscono di esercitare la nostra. Promuovono un’idea asettica e neo-liberal della neutralità, che si applica solo ad alcuni ambiti.
In un suo saggio su islamismo e femminismo parla della necessità di superare «l’approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico». Siamo fermi alla visione coloniale del secolo scorso, paternalismo e superiorità intellettuale?
Oggi non esiste nemmeno più l’approccio paternalistico verso le donne dei paesi colonizzati, quella missione «civilizzatrice» che il colonizzatore si attribuiva. Si è andati oltre gerarchizzando l’umanità. Con la rinascita di movimenti neofascisti non c’è più bisogno di produrre un discorso legittimizzante: l’altro non esiste in quanto essere umano. Macerata ha palesato l’approccio suprematista che cancella il discorso culturale con cui il colonialismo si legittimava. Scompare anche la «curiosità» che mosse i colonizzatori, una conoscenza mirante al controllo in senso foucaultiano. Oggi l’interesse alla conoscenza non c’è perché una parte di umanità va esclusa ai fini dello sviluppo generale. Su questo ha un ruolo anche l’accademia dove riemergono pericolose riabilitazioni di rappresentazioni coloniali, che nella pratica pesano su studenti di una certa provenienza, sottoposti a draconiane misure di controllo.
Rientra in tale contesto anche il superficiale approccio all’Islam, etichettato come religione di oppressione femminile?
Si è fermi all’idea coloniale della donna come priva di volontà e capacità di decidere per sé. Il discorso è simbolico e politico: sui corpi delle donne si costruisce il senso della nazione e si misurano i suoi confini rispetto alle altre. La questione in Occidente non attiene alla donna in sé, ma alla necessità di giustificare l’enorme violenza che le società occidentali esercitano sulle donne.
Pensiamo alle due giovani uccise in Italia con quasi identiche modalità, Pamela a Macerata e Jessica a Milano: nel primo caso un paese si è mobilitato fino a un attentato terroristico quasi legittimato; sul secondo è calato il silenzio, seppur si tratti di identica violenza esercitata da un uomo. Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da quella violenza, riproponendo l’idea che il male sia altrove.
Domani, a Salerno, prenderà parte alla rassegna «Femminile palestinese», che racconta la Palestina attraverso le voci delle donne…
Il movimento delle donne in Palestina è vecchio di cento anni, inserito in una società tradizionale dove coestistono movimenti femministi, religiosi, comitati popolari, dove la resistenza è quotidiana. In Palestina dove c’è politica ci sono le donne, come ci sono nella produzione culturale e artistica di cui spesso hanno influenzato se non modificato la narrativa (penso a scrittrici come Sahar Khalifeh o poetesse come Fadwa Tuqan). Eppure per lungo tempo l’occupazione israeliana ha guardato alle donne palestinesi come soggetti fragili e quindi oggetto di minore violenza diretta. Non per umanità ma per una struttura mentale coloniale che guarda alla società palestinese come retrograda e patriarcale.
Oggi il cambiamento è dirompente: se nella Prima Intifada c’è stata una sospensione dei ruoli di genere, perché le donne partecipavano alle diverse forme di disobbedienza civile e alla costruzione della società esattamente come gli uomini, oggi le donne – lo dimostra Ahed Tamimi – hanno ripreso un ruolo su tutti i livelli, anche quello fisico, ponendo i loro corpi contro l’occupazione. È una presenza che parla agli uomini palestinesi ma anche all’occupazione, un doppio processo di de-mascolinizzazione.
Da giorni le università britanniche sono in sciopero. Quali le ragioni?
È il più grande sciopero della storia accademica britannica contro il progetto di far dipendere le pensioni dall’andamento del mercato: si profila un dimezzamento della pensione. Ciò significa che chi non viene da famiglie benestanti sarà escluso dal mondo accademico. È un attacco generalizzato alla cultura, giustificato con la bugia del deficit. Ma se gli studenti pagano in media 9mila sterline l’anno, gli atenei licenziano, ristrutturano e non reinvestono in borse di studio o programmi educativi. Al contrario raddoppiano gli stipendi dei manager e investono nel settore immobiliare. Nulla di nuovo nel panorama del neoliberismo. Di nuovo c’è il mix tra delegittimazione degli accademici e guerra dei ricchi ai poveri.
***
Domani incontro a Salerno insieme a Ilan Pappe
«Palestina, decolonizzazione e libertà accademica»: è il titolo dell’incontro domani 2 marzo alle 10.30 nell’aula Vittorio Foa del dipartimento Dspsc dell’Università di Salerno. Organizzato dalla rassegna «Femminile Palestinese», curata da Maria Rosaria Greco e da Casa del Contemporaneo, vedrà l’intervento dello storico israeliano Ilan Pappe e dell’antropologa italo-palestinese Ruba Salih, che discuteranno del tema con Giso Amendola e Gennaro Avallone.
A intrecciarsi sono i temi dirimenti della decolonizzazione dentro e fuori l’accademia, sfida alla narrazione israeliana che si è imposta nel discorso occidentale sulla questione palestinese. L’incontro si inserisce all’interno di una rassegna, alla quinta edizione, focalizzata sull’analisi dello scenario contemporaneo in Palestina attraverso voci e storie di donne, giornaliste, registe, cuoche, artiste.
All’evento di venerdì seguiranno l’incontro con la scrittrice palestinese Adania Shibli e la rassegna cinematografica e gastronomica «Cinema, hummus e falafel». In questi giorni è inoltre in uscita la seconda edizione del libro «Di storia in storia. From tale to tale», ora bilingue, pubblicato da Oèdipus Edizioni a cura di Maria Rosaria Greco: la trascrizione integrale della lectio magistralis che Ilan Pappe tenne a Salerno sulla pulizia etnica della Palestina e sull’importanza del linguaggio e del ruolo dell’accademico. Il libro vuole essere il primo di una serie di «quaderni della rassegna» che ne permettano una documentazione puntuale.

Corriere 1.3.18
I massacri di Ghouta e una tregua che nessuno vuole davvero
di Franco Venturini


Quattro giorni dopo l’unanime indignazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, è evidente che nessuna tregua è entrata in vigore tra Ghouta Est e Damasco. Non arrivano gli aiuti, non partono i civili sottoposti a bombardamenti feroci. E quel che è peggio è che c’è una logica ferrea, nel proseguimento del massacro.
Assad vuole «ripulire» la regione della capitale, e non ha alcun interesse a sospendere i suoi attacchi. Tanto più che a Ghouta Est si nascondono piccoli gruppi di discendenza qaedista che colpendo Damasco con i mortai gli offrono una conveniente motivazione.
Putin controlla Assad, e condivide, o ispira, la sua strategia. Oltretutto l’idea della tregua di cinque ore al giorno è farina del suo sacco, e il capo del Cremlino è parso così sensibile alle esigenze umanitarie. Utile, alla vigilia delle elezioni.
Erdogan è felicissimo che i riflettori si siano accesi su Ghouta, allontanandosi dalla sua non travolgente offensiva contro i curdi siriani. Tanto più che Putin, annunciando ieri il salvataggio (non citato da altri) di un gruppo di civili, ha ringraziato proprio lui.
Jaish al-Islam, Tahrir al-Sham e altri gruppi di opposizione jihadista trincerati a Ghouta Est non hanno interesse, nemmeno loro, al successo della tregua. Per ricevere armi e finanziamenti da fonti sunnite occorre essere protagonisti, e sparare contro Assad. È il cinismo della guerra.
L’Iran, non coinvolto direttamente, appoggia Assad e condivide la spiegazione secondo cui al Palazzo di Vetro è stato fatto il possibile, e il Cremlino ha poi aggiunto una sua generosa proposta. Ma i combattimenti non potranno cessare se i «gruppi terroristi» continueranno a fare vittime nei quartieri centrali di Damasco. La colpa è loro.
Nessuno sembra voler parlare di proporzioni, 500 morti a Ghouta Est in nove giorni contro 7 a Damasco, nessuno dice che a Ghouta Est sono stati bombardati anche gli ospedali, nessuno ha intenzione di fermarsi. È la solita storia siriana: se gli interessi dei protagonisti non coincidono, e mai come oggi essi sono stati diversi, gli sforzi dell’Onu diventano inutili balletti diplomatici.

il manifesto 1.3.18
«Irricevibile», la Brexit si incarta sull’Irlanda del Nord
Gran Bretagna. Theresa May rigetta la proposta Ue di includere Dublino e Belfast in un «allineamento normativo», mantenendole entrambe nell’unione doganale e nel mercato unico. Implicherebbe l’introduzione di controlli al confine interno
di Leonardo Clausi


LONDRA Tra i tanti sassolini nelle scarpe leopardate di Theresa May in cammino verso la British Exit, quello del temuto confine fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna è un ciottolo vero e proprio. E se ieri Londra e Bruxelles erano unite nel gelo metereologico, un altro gelo, quello negoziale, le divideva più che mai.
La proposta contenuta nelle centoventi pagine della prima bozza di trattato legale dell’Unione Europea sulla Brexit avanzata ieri dal negoziatore Ue Michel Barnier, prevede l’inclusione delle due Irlande in un «allineamento normativo», mantenendole entrambe nell’unione doganale e nel mercato unico qualora non si trovasse alcuna soluzione alternativa, è stata rigettata con foga da Westminster. Giudicata anzi irricevibile, tanto che «nessun primo ministro britannico potrebbe mai accettarla», giacché «minaccia l’integrità costituzionale del Regno Unito».
Insomma, l’Ue starebbe cercando di annettersi, attraverso l’Irlanda, l’Irlanda del Nord, la rappresentazione più efficace dell’inferno ad occhi orangisti. Come se non bastasse, anche Jeremy Corbyn ha finalmente varcato machiavellicamente il Rubicone, gettando fuoribordo il suo euroscetticismo e abbracciando pubblicamente una Brexit morbida (dentro mercato unico e unione doganale) pur di attrarre i dissidenti tory eurofili e indebolire May ulteriormente.
Bruxelles la vede invece come una «misura di sicurezza» che avrebbe lo scopo di evitare l’introduzione di un confine fisico fra i due Paesi, confine rimosso dopo anni di dolorosa guerra civile e negoziati culminati nella pacificazione raggiunta nel Friday Agreement del 1998, il maggior traguardo politico del premierato di Tony Blair. Ma naturalmente implicherebbe, di fatto, l’introduzione di controlli al confine all’interno della Gran Bretagna.
Prima di Natale, pur di passare alla fase due del negoziato che le stava disperatamente a cuore – quella che, una volta esplicitati i termini del divorzio avrebbe gettato le basi per un nuovo accordo commerciale con Bruxelles – Theresa May aveva preso tempo cercando di placare i puntelli del suo governo di minoranza: quei deputati del Dup di Arlene Foster che vedono l’equiparazione anche solo commerciale fra Irlanda e Irlanda del Nord come l’inizio della fine dell’Ulster e il ritorno – o meglio, l’andata – di quest’ultima tra le braccia di Dublino. Ma è chiaro che si trattava di una misura per prendere tempo con lo scopo di meglio prepararsi al redde rationem attuale. C’è poi un’ancora più indigesto boccone da inghiottire: quello del perdurare della giurisdizione della lussemburghese Corte di giustizia europea per tutta la durata della procedura di uscita. E ora, di fronte alla ratifica legale della proposta, puntuale è arrivata la sua levata di scudi politica.
A soffiare sul fuoco della lesa sovranità costituzionale si unisce il ministro degli esteri Boris Johnson, che due giorni fa aveva liquidato la questione del confine fra le due Irlande come facilmente risolvibile, equiparandola al regolamento del traffico fra due quartieri londinesi, attingendo alla sua luminosa esperienza di sindaco della capitale. Le burle di Johnson, così come l’andirivieni del suo governo, non hanno di certo divertito il primo ministro irlandese Leo Varadkar, che aveva profeticamente salutato il temporaneo accordo di fine 2017 come «la fine dell’inizio». Varadkar ha esplicitato tutto il suo malcontento in un’intervista radiofonica. «Non va bene che certe persone, siano politici pro-Brexit o partiti nordirlandesi dicano di no proprio ora. Se non gli va bene questa misura di sicurezza che propongano questa o quella soluzione alternativa».
Barnier, che probabilmente pregustava questo momento, non si è scomposto di fronte agli strilli di Westminster. Ha detto di non avere alcuna intenzione di «provocare la Gran Bretagna», aggiungendo che il suo testo non è che la ratifica di quanto ufficiosamente esplicitato prima della fine dell’anno, che non contiene alcuna sorpresa. Ha anche lui esortato May a produrre delle alternative. Mentre l’orologio ticchetta – alle undici di sera Gmt del 29 marzo dell’anno prossimo il Paese sarà irrevocabilmente fuori dell’Ue – diminuisce la visibilità su come e dove si andrà a finire.

Corriere 1.3.18
Brexit, negoziati in crisi
La premier Theresa May: «La Ue vuole smembrarci. Le proposte dell’Europa minacciano l’integrità del Regno Unito»
L’Europa fa muro sull’Irlanda May più debole
di Luigi Ippolito


Londra Le proposte europee «minacciano l’integrità costituzionale del Regno Unito»: la premier di Londra Theresa May è stata netta nel respingere al mittente la bozza di trattato sulla Brexit presentata ieri da Bruxelles. E ha in sostanza accusato la Ue di voler smembrare la Gran Bretagna: «Nessun primo ministro britannico potrebbe mai acconsentire e io lo metterò assolutamente in chiaro», ha tagliato corto.
Il nodo del contendere è, ancora una volta, l’Irlanda del Nord. Il documento di 120 pagine prodotto ieri da Bruxelles prevede la possibilità che la provincia resti nell’unione doganale con la Ue, per di più sottoposta all’autorità della Corte europea di giustizia: l’obiettivo è mantenere il nord e il sud dell’isola in un’«area comune» dopo la Brexit, in modo da evitare il ritorno di un confine fisico fra le due Irlande.
Dopo l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, infatti, la frontiera fra la Repubblica di Dublino e l’Ulster diventerebbe l’unica demarcazione terrestre fra Regno Unito e Unione Europea e dovrebbe quindi essere sottoposta a controlli doganali. Ma uno dei cardini degli accordi di pace del Venerdì Santo — di cui quest’anno cade il ventennale — che misero fine a decenni di guerra civile in Irlanda del Nord, è proprio la totale permeabilità del confine: resuscitare le barriere incrinerebbe questo equilibrio e potrebbe riaccendere le tensioni sull’isola.
Per evitare tutto questo il testo europeo prevede che l’area pan-irlandese sia distinta dalla Gran Bretagna per quanto riguarda le dogane, la circolazione dei beni, l’agricoltura, l’ambiente, l’iva, gli aiuti di Stato e il mercato dell’energia. Addirittura, sarebbero previsti controlli doganali sulle merci che entrano nell’Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna. Non stupisce dunque che la May abbia affermato che «il testo pubblicato dalla Commissione, se applicato, minerebbe il mercato comune britannico e minaccerebbe l’integrità costituzionale del Regno Unito creando un confine lungo il Mar d’Irlanda».
Ancora più dura la reazione degli unionisti nordirlandesi, i cui voti in Parlamento sono necessari per la sopravvivenza del governo May, che non ha di per sé la maggioranza: «Non stiamo lasciando l’Unione Europea per sovrintendere allo smembramento del Regno Unito», ha detto il capogruppo a Westminster Nigel Dodds.
Altrettanto decisa l’opposizione degli ultrà della Brexit in seno al partito conservatore, per i quali le proposte di Bruxelles sono «completamente inaccettabili» ed equivalgono a un’annessione di fatto dell’Irlanda del Nord alla Repubblica di Dublino.
Ma la posizione del governo di Londra è resa più debole dalla svolta laburista di lunedì, quando Jeremy Corbyn ha annunciato che il suo partito è favorevole alla permanenza di tutta la Gran Bretagna in una unione doganale con la Ue: se così fosse, il problema irlandese sarebbe automaticamente risolto. Questa posizione trova anche il consenso di una pattuglia di deputati conservatori filoeuropei, ma è respinta dalla May e dal suo governo in quanto considerata una tradimento dello spirito della Brexit.

La Stampa 1.3.18
Nella Slovacchia che ha scoperto la mafia
“Ora abbiamo paura”
I colleghi del cronista ucciso per le inchieste: “In molti lasciano”
Tre arresti, dimissioni nel governo. Giallo su un italiano in fuga
di Monica Perosino


«Talian», l’italiano, vive in una piccola cittadina slovacca quasi al confine con l’Ungheria. La villetta di «Nino, l’italiano» pare una fortezza piantata in un’altrimenti tranquilla e borghese area residenziale. Circondata da un alto muro intonacato di giallo, protetta da cancellate in ferro e telecamere, si può solo intuire la Lamborghini bianca parcheggiata oltre la staccionata. Da tre giorni la casa sembra disabitata. Nessuno risponde al telefono, né al citofono. Le luci sono spente.
È di fronte a questo cancello chiuso, quello della villa di Antonio Vadalà, che è partita e si è fermata l’inchiesta del giornalista Ján Kuciak, 27 anni, ucciso con un colpo di pistola al petto mentre era in casa sua, assieme alla fidanzata, Martina Kusnirova, tra giovedì e domenica sera. I corpi sono stati trovati lunedì mattina. L’inchiesta di Ján, mai finita, è stata pubblicata ieri da Aktuyality.sk e dai suoi affiliati. «Più persone sanno - dicono i colleghi di Jan - più al sicuro siamo. Non possono ucciderci tutti». Con la redazione presidiata dalla polizia, la scrivania vuota del collega ucciso, tra fiori, candele e messaggi, c’è chi non ce la fatta: «Alcuni hanno avuto paura, si sono dimessi dal gruppo d’inchiesta». Più delle vendette degli oligarchi, della mafia russa, della turbolente vicina Ucraina, quello che gli slovacchi non credevano di dover temere era la ‘ndrangheta italiana. Ma ecco che un giornalista viene ucciso. È la prima volta nella storia del Paese. E la polizia, scartate le prime ipotesi di omicidio-suicidio (impossibile per la dinamica balistica) o che il vero obiettivo fosse la fidanzata Martina (archeologa), ha ribadito ieri sera che il giornalista è stato ucciso a causa del suo lavoro, e la «pista italiana» è quella più credibile. Ed è così che, la Slovacchia, il giovane Paese nato dalla Rivoluzione di velluto, si è riscoperta terra di conquista dei clan.
Ieri è arrivata la notizia che tutti aspettavano, una prima traccia dopo 72 ore: tre persone sono state fermate dalla polizia. Sono spacciatori che, in un’intercettazione, parlano di «prendere le armi per andare a Velká Maca», il paese dove abitava Ján Kuciak. E sempre ieri sono cadute le prime teste a Bratislava: oltre alle dimissioni del ministro della Cultura, hanno fatto un passo indietro dall’ufficio del governo i due coinvolti nell’inchiesta del giovane reporter: Maria Troskova, e il segretario del consiglio di sicurezza Vilian Jasan, anche lui indicato come vicino all’imprenditore italiano che farebbe parte dell’orbita `ndranghetista. I due negano: «Si sta facendo abuso dei nostri nomi nella lotta contro il primo ministro Fico». Quanto al ministro della Cultura Marek Madaric, le sue dimissioni poggiano su altri motivi: «Dopo quello che è successo non posso rimanere calmo seduto nella mia poltrona». A Bratislava in molti sono scesi in piazza, manifestazioni commosse con accuse al governo.
I fondi europei
Fino a poche ore prima della morte Ján Kuciak stava lavorando a una corposa inchiesta sul pagamento fraudolento di fondi Ue a italiani residenti in Slovacchia con presunti legami con la ’ndrangheta calabrese. Di favori e affari tra persone vicine al governo e imprenditori dalle attività quantomeno sospette, di sostegni elettorali garantiti in cambio di protezione. Sul piatto, tra l’altro, i fondi europei per l’agricoltura e le energie rinnovabili: 2 miliardi Ue per lo sviluppo rurale (2014-2020), 6 milioni per le energie alternative, e oltre 8 milioni di euro slovacchi «dissolti» nelle mani delle famiglie nel 2015-2016. Un bottino ghiotto per i calabresi, che improvvisamente diventano imprenditori agricoli e businessmen devoti al fotovoltaico. Ján Kuciak punta il dito su quattro famiglie nell’orbita della criminalità calabrese, con le mani in pasta soprattutto nell’agricoltura, nel fotovoltaico, nel biogas e nell’immobiliare. Decine e decine di società, aperte e poi chiuse e centinaia di certificati di proprietà di terreni agricoli per i quali avrebbero ricevuto fraudolentemente sussidi.
Le famiglie
Alla testa sempre gli stessi nomi: Vadalà, Rodà, Catroppa e Cinnante. Vicini, più o meno strettamente, ai clan calabresi. E vicini, chi più chi meno, al mondo politico slovacco.
Dopo anni di affari passati inosservati in Slovacchia, è Antonio Vadalà a «mettersi più in luce». In passato, confermano fonti investigative di Bratislava, era stato coinvolto in episodi «minimi» e mai appurati. Una frode immobiliare che aveva fatto svanire 80 mila euro di Iva. Alcuni dipendenti di una ditta agricola di Trebisov, concorrente di Vadalà, che subiscono minacce «particolari»: corone mortuarie e proiettili di fronte ai cancelli. Vadalà compare anche nelle carte di un’altra inchiesta, questa volta in Italia, nel 2003, che si apre proprio nel periodo del suo trasferimento in Slovacchia e che proverebbe i suoi legami più che stretti con il clan. È solo nel 2011 che Vadalà fa il salto e diventa socio di Maria Troskova, ex modella, e oggi consigliera del premier Fico. Con lei fonda un’azienda, una delle 40 elencate nel registro delle imprese di Bratislava, e di cui risulta titolare l’italiano.
Ma è la famiglia Rodà che i piedi in Slovacchia li mette per prima, con Pietro Rodà coinvolto già nel 2007 nell’operazione «Ramo spezzato», che aveva smantellato un commercio fraudolento di bestiame tra Italia e Slovacchia. Oggi, è un altro Rodà, il fratello Diego, a prendersi la ribalta, oltre che per le sue attività come «imprenditore agricolo» per la sua collezione di Ferrari e per la mania di parcheggiarne una in salotto.

La Stampa 1.2.18
Gli affari d’oro delle ’ndrine
nell’Est Europa post comunista
I gruppi criminali hanno approfittato della caduta del Muro Strutture flessibili, vertici in Calabria e ramificazioni in tutto il mondo
di Federico Varese


«La ’ndrangheta è invisibile, come l’altra faccia della luna», ebbe a dire un magistrato americano che negli anni Ottanta indagava su una famiglia criminale calabrese.
Operando per molti anni in un cono d’ombra, l’organizzazione nata in Calabria nell’Ottocento è oggi presente in tutti i continenti e, se crediamo ad un rapporto dell’istituto di ricerca Demoskopica, fattura 53 miliardi di euro l’anno. Gli investigatori hanno contato circa 400 cosche sparse per il mondo, con migliaia di affiliati. Quali sono le ragioni di questo successo planetario, ben superiore di quello della mafia siciliana e della camorra napoletana?
Le ragioni del successo
La ’ndrangheta ha una struttura organizzativa flessibile, in grado di coordinare le famiglie, e allo stesso tempo di assicurare loro ampia autonomia. La ’ndrina («famiglia») di San Luca, un piccolo paese alle falde del massiccio dell’Aspromonte, è considerata la depositaria della tradizione dell’organizzazione e ogni gruppo deve ottenere il beneplacito da San Luca per poter operare. Ma non tutte le decisioni vengono prese a San Luca: almeno a partire dagli Anni Cinquanta esistono organi di raccordo territoriali, attivi sia in Calabria che nel resto del mondo. Ad esempio, la Lombardia è la camera di compensazione dei sedici gruppi che operano in quella regione italiana. Organi simili esistono per il Piemonte, la Liguria, il Canada, la Germania e l’Australia. La camorra non è mai riuscita a creare organi di raccordo, e quindi i conflitti vengono spesso risolti con il ricorso alle armi. In ogni caso, non esiste un’entità unitaria o un rito condiviso tra i gruppi criminali che operano nel Napoletano.
La famiglia di sangue
Una seconda ragione del successo dei calabresi dipende dal fatto che ogni «famiglia» criminale coincide con la famiglia di sangue: il boss è anche parente della maggior parte degli affiliati, a differenza di quanto accade nel caso di Cosa Nostra. Ne segue che il numero di pentiti di ’ndrangheta è nettamente inferiore a quello della mafia siciliana, che invece non recluta sulla base dei legami di sangue. Rivolgersi alle forze dell’ordine per un mafioso calabrese significa denunciare non solo i propri complici, ma anche padre, fratelli, suoceri, generi e cugini. Uno studio pubblicato nel 2011 ha stimato che i pentiti di Cosa nostra erano circa il 7% dei membri dell’organizzazione, mentre nel caso della ’ndrangheta non andavano oltre il 2.6%.
Con i narcos
La terza ragione del successo è stata l’abilità di entrare di prepotenza nel mercato della droga, forgiando solidi rapporti con trafficanti in Colombia e in Messico. Cosa nostra, che negli Ottanta era al centro del traffico di eroina proveniente dall’Oriente, ha perso questo vantaggio storico. La scelta strategica di Toto Riina di imporre la propria leadership su tutte le famiglie (e quindi di eliminare i rivali) e poi di lanciare un attacco frontale allo Stato italiano ha reso l’organizzazione debole e ha prodotto una dura reazione da parte delle autorità, che sono riuscite ad arrestare la maggior parte dei boss. Gestire complessi rapporti transnazionali richiede un margine di manovra che viene meno quando l’organizzazione è impegnata in faide intestine e in una lotta senza esclusioni di colpi con lo Stato. Al contrario, la ’ndrangheta ha preferito fare affari in sordina, evitando gli omicidi eccellenti. Va aggiunto che il porto di Gioia Tauro permette l’attracco dei grandi containers proveniente dall’America del Sud, mentre quello di Palermo non è così moderno. Il boss calabrese Piromalli, che volle quel porto, ebbe un’intuizione fondamentale per l’organizzazione.
Il crollo del muro
Infine, esponenti della ’ndrangheta sono stati tra i primi a capire le opportunità offerte dal crollo del muro di Berlino. Sin dagli Anni Novanta hanno investito e riciclato denaro in Est Europa. Non stupisce che oggi siano presenti nei Paesi dell’ex Jugoslavia.
In questo secolo vi sono state importanti indagini condotte dalle procure di Reggio Calabria, Catanzaro, Milano e Torino, che hanno ricostruito traffici internazionali e ramificazioni nel Nord d’Italia. L’organizzazione non è più invisibile. Eppure ogni soluzione di lungo periodo deve essere politica e sociale: lo Stato italiano deve recuperare un’autorità oggi perduta sul territorio di quella regione per sconfiggere le ramificazioni internazionali di questa mafia di successo.

il manifesto 1.3.18
A Bombay l’eccesso è normale
Reportage. Nella città indiana la gente vive sui marciapiedi, si mangia e si dorme all’addiaccio, il barbiere sbarba o taglia en plein air, le capre e le mucche camminano libere, i ragazzini giocano a cricket bloccando il traffico
di Angelo Ferracuti


BOMBAY Già uscendo dall’aeroporto di Bombay, il chiarore pallido fatto di umidità e inquinamento atmosferico che mi aspettavo avvolge la città e si materializza, tanto da rendere tutto quello che vedo non a fuoco, illumina le cose di una luce smorta, appannata. L’aria, invece, ha uno spessore polveroso e denso, anche la vegetazione ai lati delle strade è esangue mentre viaggio a bordo di un piccolo taxi nero, uno dei tanti che sfreccia nel traffico frenetico, che con i suoni dei clacson sgraziati e perturbanti sono la jam session quotidiana di questa metropoli indiana dai molti primati negativi: è una delle città più inquinate del mondo, e anche quella con la più alta densità demografica, 390 mila persone per chilometro quadrato, con gli slum fatiscenti sotto i grattacieli lasciati grezzi e incompiuti per abusivismo edilizio. Ma questo luogo di luoghi è anche pieno di energia vitalistica, e milioni di poveri già alle prime ore dell’alba si mettono in movimento frenetici alla ricerca disperata di sbarcare il lunario.
Questi piccoli taxi sono un buon osservatorio per attraversare la città, cercare di coglierne il conio, e nei pochi giorni di permanenza ne ho presi parecchi, anche perché sono economici e gli autisti degli ottimi raccontatori, insomma si danno da fare per dirti dove stai in quel determinato momento indicandoti edifici e mercati, o cercando di accompagnarti altrove deragliando per rendere più redditizia la tratta. Mentre viaggiamo verso il centro, e l’autista giovane dai capelli nerissimi e dalle ciglia folte cerca di farsi largo nel traffico, dai quadrati delle baracche costruite a nido d’ape, con piccole celle una attaccata all’altra fatte di materiali diversi, spuntano facce e corpi di uomini e donne che vivono ammassati come formiche pullulanti in zone di città fatiscenti e nauseabonde, senza acqua e fognature; bambini che corrono scalzi e mezzi nudi nelle vie ingorgate, donne con in testa fagotti, uomini atavici che trascinano carri, sono i reietti, due terzi della popolazione, che occupano solo il 5% del suolo della città, mentre quelli più abbienti e capaci di corrompere polizia e politici stanno comodi nel resto. Ma dai tetti di questi sobborghi sporchi e puzzolenti, spuntano centinaia di antenne satellitari, così come i balconi dei palazzi con le facciate annerite sono tutti occupati da panni stesi di molti colori. Sono appena arrivato e già Bombay mi mostra il suo volto sudicio e rovinato. L’aria è piena di polveri, la polvere prevale su tutto il resto, è una polvere che dopo un po’ diventa persino famigliare, copre le strade, sta sopra i marciapiedi dissestati, è sulle superfici delle automobili, arriva prepotente alle narici, e chi è costretto a respirarla soffre di faringite granulare. L’autista mi dice che questa è una città strana, qui molti si ammalano di tifo o di colera per colpa dell’acqua putrida che sta nelle strade, per giunta, metà della popolazione non ha il bagno, quindi si calcola che otto milioni di persone defecano all’aria aperta, per non dire dei topi, anche loro un esercito, che però almeno hanno un pregio, eliminano la parte mangiabile dei rifiuti che impestano i quartieri, anche quelli del centro.
LA MATTINA SEGUENTE, mi sveglio all’alba e prendo un treno dalla stazione di Chhatrapati Shivaji. All’entrata, derelitti dormono per terra, avvolti da coperte logore, un uomo senza gambe si sposta con la sola forza delle mani come una trottola sulla banchina, altri stanno supini dentro i vagoni, la pancia scoperta, i piedi sporchi e feriti, mentre mi siedo nel sedile rigido in formica spartano, e il convoglio parte veloce, le portiere aperte, quasi come quelle di un carro merci, qualche ritardatario corre e salta su all’ultimo momento, e fuori è ancora notte. Sono poche fermate e a Dadar, proprio dietro la stazione e sotto un cavalcavia, è iniziato già il mercato della verdura, su una strada laterale illuminata da luci fioche infestata di rifiuti e cartacce, in terra sono seduti dietro ceste colme di ortaggi centinaia di venditori, accovacciati e quieti, e ragazzi con mazzi dei due maggiori quotidiani freschi di stampa. In terra, in questa colonna di acquirenti che s’ingrossa più passa il tempo e sta per albeggiare, altri venditori ritardatari che arrivano frenetici, trasportando i pesanti fagotti in spalla, mentre avanzo inalando gli odori delle erbe speziate insieme con quelli del fango e delle fogne, e la polvere, l’onnipresente polvere di Bombay, che è la città dove ogni quartiere, ogni piazzetta, ogni via ha i suoi particolari e unici odori e fetori. I venditori ti guardano smarriti, con dolce tristezza mostrano i piccoli grappoli di banane, le zucchine bianche, rimescolano cesti colmi di lunghe carote, e cavoli posati in terra come palle da rugby.
Nella via successiva i piazzisti di fiori, dalla cui ceste spuntano boccioli recisi coloratissimi, vendono anche ghirlande, collane di fiori che mani sapienti intrecciano, e alla fine della via in un baracchino un venditore sta friggendo su una pentola vadapav, dei bignè ripieni. All’alba la città ha ancora una patina sbiadita, il cielo è ancora smorto, privo di luce chiara. Passando per la zona del lungomare, sullo specchio d’acqua una nuvola di smog si alza dal livello del mare e cancella in parte gli alti palazzi di fronte, ma per vedere Bombay bisogna andare nella zona di Crawford market, dove la gente vive sui marciapiedi, e questo margine diventa una casa all’aperto dove si mangia e si dorme all’addiaccio, il barbiere sbarba o taglia en plein air, le capre e le mucche camminano libere, i ragazzini scalzi giocano a cricket con mazze in legno rudimentali bloccando il traffico tra un lancio e l’altro.
SUKETU METHA ha scritto un libro straordinario su questa città che lui stesso definisce «degli eccessi», Maximum city, un prototipo del reportage massimalista, dove come succedeva per i classici del realismo sociale, come a Zola, Dickens e Jack London, riesce ad entrare nel ventre palpitante e putrido della città dove torna a vivere proprio da New York insieme alla sua famiglia con l’intento di raccontarla. Leggendolo, capisci quanto sia temerario, forse impossibile, raccontare i luoghi, decifrarne i sedimentati profondi. La mia piccola percezione è ingigantita dall’esperienza diretta: «Il cibo e l’acqua di Bombay, (…) sono contaminati dalla merda. La dissenteria amebica si trasmette attraverso gli escrementi. Abbiamo nutrito nostro figlio di merda. Può essere stato il mango che gli abbiamo dato da mangiare, o la piscina dove lo abbiamo portato a nuotare. O forse è venuta dai rubinetti di casa», ammette alla fine sconsolato lo scrittore.
DELL’ULTIMO GIORNO, resta tra tutte le cose viste, mentre la sera ritorno in albergo, l’immagine di un uomo magro e molto anziano, seduto per strada, le gambe scheletriche, il corpo gracile come quello di un uccello, un saio nero sudicio che gli lascia liberi gli ossuti arti inferiori, che continua a girare la testa da destra a sinistra, da sinistra a destra meccanicamente, mostrando gli occhi vitrei e arrossati ai passanti, senza allungare la mano per elemosinare, ma tenendola stretta a sè rigida come gli artigli di un iguana, roteando faccia e sguardo, avanti e indietro, instancabile. Mi fa capire semplicemente che la povertà in una città assurda come questa può farti diventare pazzo.

Repubblica 1.3.18
In Tunisia
Il pianeta Tatooine
Nelle case berbere dei cavalieri Jedi “Qui viviamo in pace con lo spirito”
Sono gli ultimi abitanti delle storiche dimore scavate sottoterra dove era stata ambientata la saga di Guerre Stellari
di Giampaolo Cadalanu


ZOHRA BENSEMRA Quando la Cnn, tre anni fa, ha lanciato un allarme un po’ affrettato, prendendo spunto dal sequestro di un piccolo arsenale per raccontare che la provincia di Tataouine era diventata una zona pericolosa, punto di passaggio per i jihadisti diretti verso il confine con la Libia, i tunisini l’hanno presa bene.
La strada per una risposta beffarda era sin troppo facile: su internet sono subito comparse “le prove dell’avvistamento di guerrieri pericolosissimi”. A guardare bene, però, erano solo foto di scena degli Stormtrooper, la guardia d’élite dell’Impero reso immortale da George Lucas nella saga di Guerre Stellari.
Altro che nido di fondamentalisti islamici: questa zona della Tunisia è orgogliosa proprio per aver fornito gli sfondi all’epopea di Luke Skywalker, che gli sceneggiatori hanno fatto nascere in un pianeta chiamato proprio Tatooine.
La benedizione hollywoodiana è diventata un richiamo d’eccezione per gli appassionati del genere, pronti ad affrontare escursioni sotto il solo impietoso del Djebel Dabar per vedere da vicino i luoghi dell’avventura. Gli antichi granai di Ksar Hadada, costruiti con fango, sassi e paglia, nel grande schermo si erano trasformati nel villaggio di Mos Espa, in cui il giovane umano Anakin Skywalker, (che diventerà il “cattivo” Darth Fener), trionfava con uno “sguscio” autocostruito nella gara di monoposto battendo una concorrenza di origine multiplanetaria, grazie ai riflessi sovrannaturali tipici dei cavalieri Jedi.
Le case troglodite, scavate sotto terra nella cittadina berbera di Matmata, invece, nella fantasia di Lucas diventavano il luogo d’origine di Luke, con un alberghetto locale trasformato nell’abitazione degli zii. Ma la dimora immaginaria della famiglia Skywalker, entrata anche in altri film e persino nel videogame Call of Duty, è ancora un centro di vita locale. Per la gente di Matmata, 365 chilometri a sud di Tunisi, il richiamo della location pittoresca vale ben poco: conta molto di più l’orgoglio di abitare nella casa secolare degli avi, a godersi d’estate il fresco garantito dalle pareti di roccia contro l’aria rovente del deserto, e d’inverno la protezione contro le temperature più rigide.
Qualcuno è partito negli anni ‘60 e ‘70, durante la “modernizzazione” voluta da Bourghiba forse anche per diluire l’identità berbera. Chi è rimasto lamenta la scarsità di turisti, ma non vuole nemmeno sentir parlare di trasferirsi.
Come racconta con grande dignità la signora Mounjia, fotografata nella sua cucina: «Non ho nessuna voglia di lasciare la mia casa troglodita per una moderna: si può comprare tutto, ma non la pace dello spirito».