l’espresso 18.3.18
Cultura
Polemiche
Obbligati a partecipare
di Paolo di Paolo
Ma
non fu illusione, anzi fu per noi acquisto ben saldo, l’aver appreso
che gli intellettuali non tradiscono quando fanno politica, ma soltanto
quando fanno una certa politica...Norberto Bobbio, luglio 1955. Sono
andato a riprendermi “Politica e cultura”, un libro di oltre
sessant’anni fa, per cercare di calmare la strana inquietudine
post-elettorale. Un po’ è servito. Non so se gli intellettuali hanno
perso, come diceva provocatoriamente il titolo dell’articolo di Marcello
Fois sullo scorso numero dell’Espresso; di sicuro, però, sono parecchio
a disagio. I leader delle forze vincenti sembrano non amarli, usano (o
hanno usato ino all’altro ieri) l’etichetta come un insulto: «Voi
intellettuali!». Salvini vittorioso brinda alla faccia di Roberto
Saviano, ironizzando: visto come è andata? Così passa, o si consolida,
l’idea che i professori stiano da una parte, fuori dal mondo, e il
popolo, la gente, la vita vera da un’altra. Così - scottatissimi – i
professori accettano, quasi in silenzio, l’analisi dominante: «Non avete
capito niente». Quelli più disinvolti provano a riguadagnare terreno, a
riposizionarsi in fretta: ma sì che avevamo capito, vi pare? Solo, non
abbiamo fatto in tempo a dirlo, o stavamo scrivendo il prossimo grande
romanzo, o eravamo a un Salone del Libro, o nessuno ci ha interpellati.
Guai a dire a un intellettuale che si impegna poco: s’inalbera subito.
Un paio di anni fa, sempre su queste pagine, avevamo provocato,
sull’eterno (o almeno ciclico) tema “engagement”, una decina di autori. I
più si sono innervositi, anche giustamente. Non se ne esce. Non si può
pretendere - questo è vero - che chiunque scriva, o faccia cinema, arte
in genere, se la senta di intervenire sul presente. A volte, non si ha
l’inclinazione a stare al centro del dibattito. Altre volte, più
semplicemente, non si ha niente da dire. Penso a una scena di “Mia
madre” di Nanni Moretti, di una sincerità disarmante. La regista
impegnata (Margherita Buy) si perde nei propri pensieri durante una
conferenza stampa: «Tutti pensano che io sia capace di capire quello che
succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente».
Forse molti intellettuali hanno vissuto con questo stato d’animo la
stagione politica più recente: con un Silvio B. più spompato e
inoffensivo sulla scena, niente più barricate. Un misto di apatia,
rassegnazione, “vada come vada”? Forse avremmo potuto - privi di
risposte o convinzioni nette - porre qualche domanda in più. Mi è
tornato in mente il solito Pasolini che, nel 1973, inchiodava i suoi
colleghi a interrogativi perentori come: «Che cosa intendete per
estremismo? L’estremismo è una posizione ideologica o un mero fatto di
temperamento? Qual è la differenza tra estremismo e fanatismo? Alla
fine, non credete che tra tutte le attività umane, la politica è o
dovrebbe essere la meno estremista?». Forse avremmo potuto mettere in
discussione certe parole del lessico elettorale, chiedere per esempio
che vuol dire esattamente il termine “sicurezza”, usato in tutti i
programmi politici. Eccetera. Magari qualcuno fra noi l’ha fatto, anzi
di sicuro: bene, bisogna restare a lavorare sodo là, nel campo dei dubbi
– e alzare un poco la voce quando si fa una domanda, tenerla più bassa
proprio quando si dà una risposta. L’anti-ideologico Camus insisteva a
tratteggiare (incarnandola) la figura possibile di un artista-cittadino
né seduto né bugiardo, non un dispensatore di certezze ma di dubbi, uno
che rifiuta di dire agli altri come devono pensare, ma chiarisce con
nettezza, con onestà i suoi sì e i suoi no. Uno che, come il romanzesco
signor Grand, non dà le spalle alla peste, né si mette in ginocchio
davanti a essa; non è rassegnato e non è vigliacco, preferisce una
piccola verità coerente a una verità grandiosa. Procede in senso
contrario alla sfiducia, contraddice ogni forma di cinismo ironico, e
nella propria «interminabile sconitta» resta comunque convinto che
niente sia inutile. Troppo vasto programma? Può darsi. E tuttavia, è
anche quello da cui passa ogni occasione buona a saldare, a risaldare
politica e cultura, a ripensarle parenti, alleate, non contrapposte. Ci
riuscivano quotidianamente, e senza proclami, due persone - posso dire
due intellettuali? - che abbiamo perso nel corso dello stesso anno 2017:
Tullio De Mauro, nato nel 1932, e Alessandro Leogrande, nato nel ’77.
Dimostrando, con i libri e con i gesti, che la cultura può (forse deve)
non essere politicizzata, ma non può essere apolitica. E ora? Che ci
aspetti un governissimo o un governicchio, che a guidarlo siano i nuovi
leader o un vecchio garante istituzionale, che possiamo fare? Quello che
abbiamo sempre fatto, nel piccolo e nel grande, o qualcosa di diverso?
Ci mettiamo idealmente all’opposizione o, altrettanto mentalmente, in
una comfort zone, al calduccio del compromesso? Seguitiamo a navigare a
vista o immaginiamo una nuova rotta? Ognuno farà come crede, ma direi:
teniamo vivo il dialogo, il più possibile. Fra noi, ma non solo fra noi.
Nei saloni e nei festival, ma non solo nei saloni e nei festival. Non
stiamocene troppo zitti, in ogni caso. «Ristabilire la iducia nel
colloquio signiica rompere il silenzio». È ancora Bobbio: «Nulla più del
silenzio può costituire una cintura di difesa per il nostro dogmatismo,
perché nulla più che la parola degli altri può turbare il nostro sonno
dogmatico». Ciascuno, aggiunge il filosofo, dispone di un piccolo tesoro
di certezze personali che non mette di buon grado in discussione, che
chiude gelosamente nel silenzio della sua intimità. «Ne facciamo tutti i
giorni esperienza su noi stessi. Se quelle poche certezze vengono
attaccate e scosse, bisogna ricominciare daccapo e ricominciare è
faticoso. Più che faticoso è umiliante. Con gli altri parliamo assai più
volentieri dei particolari decorativi della nostra costruzione
metaisica che delle fondamenta. E quando la costruzione è compiuta o ci
sembra compiuta tanto da considerarla stabile, allora è il silenzio,
tante isole di silenzio». Proviamo a creare, con tutti i mezzi a
disposizione, ponti e ponticelli fra isole di silenzio. Non cerchiamo
troppi rifugi. Esponiamoci alle sberle di grillini ortodossi e leghisti
granitici, se necessario. Può farci bene. Rimettiamo sul tavolo i
«nostri presunti tesori», facciamoli pure sbefeggiare un po’, se questo
serve a spezzare la catena del silenzio. «Renderci disponibili agli
altri perché possano guardarci dentro e magari mettere tutto a
soqquadro. Rinunciare alla presunzione che gli altri abbiano torto solo
perché la pensano diversamente da noi». Ci proviamo? Non avremo la
tempra e la mitezza di nonno Bobbio, ma se il 4 marzo del 2018 è da
considerarsi un anno zero, un inizio, un disastro o una grande
occasione, comunque qualcosa di inusitato, tanto vale rompere qualche
schema, provare a fare un passo nell’inesplorato. Se Di Maio e Salvini
ci sembrano tanto abissalmente distanti da noi è anche perché non li
abbiamo mai invitati a cena. Né ci hanno invitato loro, per carità. Ma
io sono pronto a prenotare: non so se funziona, ma facciamo che l’invito
è questo.