l’espresso 18.3.18
Le idee
Per capire la differenza col razzismo serve l’etologia più della politica. E c’è un solo rimedio: la cultura
La paura è animale
di Raffaele Simone
«Bisogna
reagire a una cultura della paura che, seppur in taluni casi
comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare
discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente».
Così parlò, il 22 gennaio scorso, il cardinale Gualtiero Bassetti,
presidente della Conferenza episcopale italiana, nella prolusione al
Consiglio permanente Cei. Si riferiva ovviamente alla supposta “paura”
degli italiani dinanzi al lusso di immigrazione che si riversa da anni
sul paese. «Avere dubbi e timori non è un peccato», ha precisato a mo’
di conforto riprendendo le parole del Papa, «il peccato è lasciare che
queste paure determinino le nostre risposte».
Ma si può davvero
cancellare la paura, e in particolare la paura collettiva, dalla lista
delle grandi emozioni umane? È possibile raggiungere la “libertà dalla
paura” di cui parlava Franklin D. Roosevelt nel suo famoso discorso del
1941? E poi: la paura può essere considerata un peccato? In questo caso,
la storia pullulerebbe di peccatori, individuali e collettivi, dato che
nel suo corso sono registrati non pochi momenti di Grandi Paure
collettive, di solito originate da notizie false (le fake news non sono
un’invenzione dell’era digitale). La più famosa fu forse quella che si
scatenò nelle campagne francesi poco dopo la Rivoluzione del 1789: la
falsa notizia di un’invasione di bande di briganti stranieri che
venivano a distruggere i raccolti e uccidere i contadini per vendicare
la nobiltà danneggiata dalle rivolte agrarie. Ci fu chi si rivolse al
signore in cerca di aiuto. Altri usarono i forconi e le falci proprio
contro di lui facendogli pagare con la vita i suoi privilegi. Felix
culpa, però, si direbbe: per tagliare corto coi disordini l’Assemblea
Nazionale decise di eliminare i privilegi feudali, le disparità fiscali e
la vendita delle cariche, determinando così la fine dell’Ancien Régime.
Non sempre però la conclusione è così benigna. In due occasioni (verso
la fine degli anni Dieci e ai primi degli anni Cinquanta) nel mondo
politico e tra il popolo degli Stati Uniti corse quella che qualcuno
chiamò Paura Rossa, creata dal diffondersi della convinzione che un
gruppo comunista clandestino volesse infiltrare il governo e
impadronirsi del potere. In quel caso la conseguenza fu una spietata
caccia alle streghe e l’epoca del maccartismo. Un volume introvabile,
che raccoglie un impressionante catalogo di paure collettive dal
medioevo alla modernità (a cura di Laura Guidi e altre, Storia e paure.
Immaginario collettivo, riti e rappresentazione della paura in età
moderna, 1992), mostra quanto è frequente il formarsi di Grandi Paure.
Anche
gli etologi e i neuroscienziati, però, mostrano che la paura non è una
scelta personale, ma una risposta naturale e poco governabile. In
“L’errore di Cartesio”, Antonio R. Damasio la colloca tra le cinque
«emozioni universali» (insieme a felicità, tristezza, ira e repulsione).
L’etologia la definisce più precisamente come lo stato «psicologico,
isiologico e comportamentale indotto negli animali e negli umani da una
minaccia, attuale o potenziale, al proprio benessere o alla propria
sopravvivenza». E vi intravvede una funzione positiva: predisporre a
fronteggiare situazioni critiche. Ora, la situazione critica perché la
paura si scateni è proprio l’incontro con chi non è come noi, con
l’altro, con lo straniero. Alla paura dinanzi al diverso e allo
sconosciuto l’animale risponde, secondo gli etologi, con una strategia
attiva o una passiva. Alla prima, battezzata fight-or-flight «combatti o
scappa», si ricorre quando la minaccia è ancora evitabile. La strategia
passiva invece consiste nel freezing (nel mondo umano, dovrebbe
corrispondere alla timidezza), cioè il restare immobili e acquiescenti, e
si attiva quando alla minaccia non ci si può più sottrarre. La scelta
tra l’una e l’altra dipende dalla valutazione del momento: se ha a che
fare con un predatore, l’animale attiva il freezing quando il pericolo è
ancora lontano; se invece si supera una distanza considerata di
sicurezza, attiva una risposta di fuga.
La risposta degli umani
alla paura non sembra troppo dissimile. Verso i sei mesi il bambino
comincia a distinguere le persone familiari dagli estranei e reagisce in
modo differenziato a chi appartenga al primo o al secondo gruppo: con
simpatia verso i primi, con avversione e evitamento verso i secondi. Se
ha a che fare con estranei, cerca una persona nota che si interponga e
lo rassicuri. Come diffida degli estranei, il bambino, soprattutto
quando è in gruppo, tende a stigmatizzare e isolare gli outsider e i
diversi, usando varie procedure, principalmente il dileggio e il
bullismo. A suscitare reazioni di questo tipo non è solo chi appartiene a
un gruppo dotato di diversità vistose (per es., aver la pelle di un
altro colore o seguire pratiche e rituali urtanti per i locali): basta
esser troppo grasso o troppo magro, balbuziente, troppo alto o troppo
basso, molto bravo a scuola o molto somaro. In altre parole, il gruppo
fissa arbitrariamente dei criteri standard di normalità e qualunque
differenza vistosa rispetto a quei criteri funziona come trigger per
indurlo a riiutare, anche in modo violento. In questa risposta il grande
Irenäus Eibl-Eibesfeldt vede, bontà sua, un’«aggressione educativa»,
perché serve a spingere il “diverso” ad adeguarsi alla norma del gruppo,
in modo che tutto torni normale.
Considerazioni come queste
suggeriscono che non è tanto facile tenere a bada la paura, meno anco-
ra quando è collettiva e magari manovrata da qualche meneur de foules
(come li chiamava Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle 1895),
cioè da qualche mestatore che la sfrutta ai suoi fini. Ma contengono un
suggerimento ulteriore, anche se fastidioso a prima vista: la paura
dello straniero, dello xenos, è diversa dal razzismo. Il razzismo è una
costruzione culturale derivante da ideologie e convinzioni deliranti. La
paura dello straniero (esito a usare il termine xenofobia) è invece una
risposta naturale dinanzi a qualcuno che non ci somiglia e di cui non
capiamo le intenzioni. Se le teorie politiche incorporassero qualche
elemento di etologia umana e tenessero conto delle emozioni di cui siamo
portatori e spesso preda, riuscirebbero forse a spiegare come mai (vedi
il Rapporto Eurispes 2018) solo il 28,9 per cento degli italiani sappia
indicare la reale incidenza degli stranieri sulla popolazione (in
realtà dell’8 per cento). Per il 35 per cento la quota sarebbe
esattamente il doppio e per il 25 per cento addirittura un residente in
Italia su quattro sarebbe non italiano. La paura agisce come un
allucinogeno: ingigantisce e deforma i fenomeni. Che cosa può sciogliere
il nodo? La fede, come suggeriscono Bergoglio e il presidente Cei?
Oppure, più efficacemente, la cultura? Difficilmente una paura
collettiva fa presa su chi si informa, interroga i fenomeni, li valuta
nel loro giusto peso. Questa lista di pratiche virtuose (me ne rendo
conto scrivendola) è però visibilmente patetica in un’epoca in cui i
lettori di giornali diminuiscono a vista d’occhio e una politica urlata e
mendace induce a tutt’altro.