l’espresso 18.3.18
Ho la tessera Cigielle e voto Cinquestelle
di Gianfrancesco Turano
Alla
fine del mondo come lo conosciamo, il sindacato non sta per niente
male, grazie. Di sicuro, si sente molto meglio di tante formazioni
politiche che si dissolvono con accelerazione esponenziale. Mentre i
partiti si scindono, cambiano nome, scompaiono, la gran parte del mondo
del lavoro resta ferma al trinomio Cgil-Cisl-Uil, come nel 1950. È un
brutto colpo per i profeti della disintermediazione, da Matteo Renzi ai
Cinque stelle. Il leader democrat è stato il critico più radicale dei
sindacati. Le urne gli hanno risposto con chiarezza. Anche il vincitore
Luigi Di Maio ha avuto subito modo di verificare l’alto indice di
gradimento del sindacato nei sondaggi. Nel Sud grillino le domande per
avere il reddito di cittadinanza non sono state presentate all’Inps ma
ai Caf (centri di assistenza fiscale) dei sindacati. Nella coscienza
divisa del cittadino il sindacato è l’organizzazione che, oltre a
presentargli la dichiarazione dei redditi, la domanda per la pensione o
per la cassa integrazione, lo difenderà dai partiti per i quali lo
stesso cittadino ha votato. È il potere democratico più vicino alla
scala 1:1. Cerca accordi con una controparte resistente e lascia le
utopie alle promesse della campagna elettorale. «La coscienza scissa
esiste da decenni», dice il politologo Paolo Feltrin dell’università di
Trieste. «Negli anni Settanta l’operaio scioperava con la Fiom e si
proteggeva votando Dc. Ma è certo che mai voto politico fu più sindacale
di quello del 4 marzo. A dispetto delle dichiarazioni bellicose di
alcune forze politiche verso i corpi intermedi, il sindacato ha molto
poco da temere da un’elezione che legittima le sue battaglie contro la
legge Fornero o contro certi aspetti estremistici del Jobs act». Molti
anni dopo la fine del sindacato come cinghia di trasmissione dei
partiti, la frattura fra coscienza politica e coscienza sindacale è
arrivata al livello di sindrome schizoide. Chi lo ha capito, e ha dato
retta alle rivendicazioni dei lavoratori, ha vinto. Ma il cittadino
scisso non sarà facile da governare. Lo stesso delegato aziendale che ha
votato M5S o Lega, Pd o Forza Italia, è quello che siederà a un tavolo
negoziale per valutare norme e riforme varate dal governo. Il passato
recente è all’insegna del depotenziamento. L’elenco breve include lo
smontaggio della riforma Brunetta sul pubblico impiego, della riforma
Madia sulla pubblica amministrazione e la Buona scuola. Anche alla legge
Fornero si è già aggiunta parecchia acqua con una quindicina di
categorie di fatto esentate dalla norma generale attraverso l’Ape
(anticipo pensionistico) sociale. Il movimento Cinquestelle, partito di
maggioranza relativa e unico rappresentato in parlamento a non avere mai
governato a livello nazionale, ha già conosciuto gli highlander del
sindacato nelle grandi città. Le sindache Virginia Raggi a Roma e Chiara
Appendino a Torino sono passate dalla mancanza di relazioni
diplomatiche a più miti consigli, dopo le batoste iniziali. E molti dei
loro antagonisti sindacali erano, allora come adesso, elettori grillini.
La Lega ha scelto una via pragmatica e di non aggressione dopo avere
tentato senza troppo successo di strutturarsi con un suo sindacato,
quando ancora Beppe Grillo faceva il comico. La bossiana di ferro Rosi
Mauro ha guidato prima il Sal (sindacato autonomista lombardo) nel 1990,
poi il Sinpa (Sindacato padano) nel 1999. Alla fine la pasionaria si è
dovuta buttare in politica ottenendo la vicepresidenza del Senato
(2008-2013) e poi l’espulsione dalla Lega per il caso Belsito, un
processo nel quale è stata archiviata. Oggi nelle piazzeforti regionali
del leghismo, Lombardia e Veneto, i politici locali hanno costruito un
rapporto di stretta interlocuzione e di collaborazione con i sindacati
tradizionali. Per contrasto, il governatore pugliese Michele Emiliano,
uno dei leader della fronda renziana nel Pd, pochi giorni fa ha
incassato la denuncia per comportamento antisindacale dei vertici
dell’Acquedotto (Aqp), controllato dalla Regione. L’altro messaggio
forte del 4 marzo è che il sindacalista va bene se fa il suo mestiere.
Al governo o in Parlamento piace sempre di meno. Lo hanno decretato le
politiche con la bocciatura compatta, in prima battuta, dei candidati
provenienti dal mondo sindacale. Soltanto con i resti sono stati
recuperati la senatrice Anna Maria Parente, già responsabile del
coordinamento donne della Cisl, e il deputato Guglielmo Epifani, ex
segretario generale della Cgil e reggente del Pd dopo le dimissioni di
Pier Luigi Bersani (2013). Gli altri, tutti esodati. Sono rimasti fuori
il ministro del Lavoro Cesare Damiano (Cgil), solo terzo nella
proletaria Terni, il sottosegretario uscente all’Economia Pierpaolo
Baretta, ex responsabile dei metalmeccanici della Cisl, l’altro cislino
Giorgio Santini, deputato democrat del Veneto, e l’ex Fiom-Cgil Giorgio
Airaudo, uno dei protagonisti dello storico referendum Fiat-Miraiori del
2011, vinto da Sergio Marchionne. «Ho fatto campagna elettorale Foto:
Ansa sul territorio», dice il torinese Airaudo, eletto nel 2013 con Sel e
poi passato in Leu. «Sono andato nelle fabbriche che conosco e dove mi
conoscono. Mi dicevano: non ce l’ho con te ma voto Lega perché toglie la
Fornero e voi ve ne siete andati dal Pd troppo tardi. Altro che cinghia
di trasmissione. Con il governo Monti si è rotto tutto. Il risultato?
Oggi sulle linee di montaggio dell’Iveco ci sono i nonni che non sanno
quando smetteranno di lavorare e che mantengono i figli precari. Per
loro e per gli altri lavoratori vale il principio: il sindacato è il mio
delegato». Airaudo tornerà da dove veniva per affrontare la marcia
verso il rinnovo del vertice Cgil. Per la prima volta gli aspiranti
eredi di Susanna Camusso sono tre: Maurizio Landini, Vincenzo Colla e
Serena Sorrentino. Dal Piemonte alla Sicilia è il momento dell’orgoglio
sindacale anche per Salvo Guglielmino, portavoce nazionale della Cisl.
«Nella mia zona, il siracusano, i Cinque stelle sono arrivati fino al 70
per cento ma non credo che ci saranno contraccolpi per il sindacato.
Nei nostri paesini, dove ormai non ci sono più neanche l’uicio postale e
i carabinieri, si va al patronato, nelle sedi confederali. Noi abbiamo
mantenuto gli avamposti sul territorio. I partiti, no». La tenuta del
sindacato deve molto a un livello di conlittualità bassa. A volte troppo
bassa, come nel caso della riforma Fornero che ha segnato il divorzio
di molti elettori di sinistra dal Pd. Un certo becerismo resiste più nel
rapporto di rappresentanza che nei privilegi corporativi, molto ridotti
rispetto al passato. Lo si vede in un settore debole, i trasporti, dove
sigle che hanno pochi iscritti e che non hanno intaccato in modo
decisivo la forza dei confederali, possono avere un peso localmente
rilevante.
Lo sciopero per i diritti della donna, lo scorso 8
marzo, non ha avuto effetti a Milano dove l’azienda locale (Atm) ha un
solo tesserato dell’Usb su 9600 dipendenti, dei quali 7000 iscritti ai
sindacati. A Roma, com’è tradizione, è stato il caos nonostante
un’adesione molto bassa dei dipendenti Atac (16 per cento). In compenso,
una serie di vertenze-simbolo ha incrementato l’apprezzamento. I casi
Whirlpool, Embraco, Ryanair, Amazon hanno dimostrato che il vecchio
delegato, con tutti i suoi difetti, dà una mano alla vedova e all’orfano
laddove i partiti hanno sgombrato l’area da un pezzo, seppure non si
sono rassegnati alle delocalizzazioni e ai braccialetti con Gps per
controllare i tempi trascorsi alla toilette. È anche una questione
pratica. La trattativa sull’Ilva di Taranto, dove M5S ha stravinto pur
essendo favorevole alla chiusura con riconversione dell’impianto, non si
può fare senza quei corpi intermedi che infastidivano Renzi e che la
fatwah di Beppe Grillo («eliminiamo i sindacati, voglio uno Stato con le
palle») vorrebbe cancellare. Ed è certamente una questione politica. Se
n’è accorto Donald Trump fotografato nei giorni scorsi insieme alle
tute blu in occasione dell’accordo sui dazi a favore dell’industria Usa.
Magari i metal workers ritratti alla Casa Bianca erano in larga parte
“non union”. Ma è un fatto che i lavoratori del manifatturiero
dell’America suburbana hanno dato un apporto fondamentale all’elezione
del milionario di Manhattan. «In tutto l’Occidente», conclude Feltrin,
«la sinistra ha rotto i rapporti con il mondo del lavoro per puntare
tutto sulle minoranze e sui diritti civili. Ma con i diritti civili non
si mangia e non si prende un voto in più»