lunedì 19 marzo 2018

l’espresso 18.3.18
Ho la tessera Cigielle e voto Cinquestelle
di Gianfrancesco Turano


Alla fine del mondo come lo conosciamo, il sindacato non sta per niente male, grazie. Di sicuro, si sente molto meglio di tante formazioni politiche che si dissolvono con accelerazione esponenziale. Mentre i partiti si scindono, cambiano nome, scompaiono, la gran parte del mondo del lavoro resta ferma al trinomio Cgil-Cisl-Uil, come nel 1950. È un brutto colpo per i profeti della disintermediazione, da Matteo Renzi ai Cinque stelle. Il leader democrat è stato il critico più radicale dei sindacati. Le urne gli hanno risposto con chiarezza. Anche il vincitore Luigi Di Maio ha avuto subito modo di verificare l’alto indice di gradimento del sindacato nei sondaggi. Nel Sud grillino le domande per avere il reddito di cittadinanza non sono state presentate all’Inps ma ai Caf (centri di assistenza fiscale) dei sindacati. Nella coscienza divisa del cittadino il sindacato è l’organizzazione che, oltre a presentargli la dichiarazione dei redditi, la domanda per la pensione o per la cassa integrazione, lo difenderà dai partiti per i quali lo stesso cittadino ha votato. È il potere democratico più vicino alla scala 1:1. Cerca accordi con una controparte resistente e lascia le utopie alle promesse della campagna elettorale. «La coscienza scissa esiste da decenni», dice il politologo Paolo Feltrin dell’università di Trieste. «Negli anni Settanta l’operaio scioperava con la Fiom e si proteggeva votando Dc. Ma è certo che mai voto politico fu più sindacale di quello del 4 marzo. A dispetto delle dichiarazioni bellicose di alcune forze politiche verso i corpi intermedi, il sindacato ha molto poco da temere da un’elezione che legittima le sue battaglie contro la legge Fornero o contro certi aspetti estremistici del Jobs act». Molti anni dopo la fine del sindacato come cinghia di trasmissione dei partiti, la frattura fra coscienza politica e coscienza sindacale è arrivata al livello di sindrome schizoide. Chi lo ha capito, e ha dato retta alle rivendicazioni dei lavoratori, ha vinto. Ma il cittadino scisso non sarà facile da governare. Lo stesso delegato aziendale che ha votato M5S o Lega, Pd o Forza Italia, è quello che siederà a un tavolo negoziale per valutare norme e riforme varate dal governo. Il passato recente è all’insegna del depotenziamento. L’elenco breve include lo smontaggio della riforma Brunetta sul pubblico impiego, della riforma Madia sulla pubblica amministrazione e la Buona scuola. Anche alla legge Fornero si è già aggiunta parecchia acqua con una quindicina di categorie di fatto esentate dalla norma generale attraverso l’Ape (anticipo pensionistico) sociale. Il movimento Cinquestelle, partito di maggioranza relativa e unico rappresentato in parlamento a non avere mai governato a livello nazionale, ha già conosciuto gli highlander del sindacato nelle grandi città. Le sindache Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino sono passate dalla mancanza di relazioni diplomatiche a più miti consigli, dopo le batoste iniziali. E molti dei loro antagonisti sindacali erano, allora come adesso, elettori grillini. La Lega ha scelto una via pragmatica e di non aggressione dopo avere tentato senza troppo successo di strutturarsi con un suo sindacato, quando ancora Beppe Grillo faceva il comico. La bossiana di ferro Rosi Mauro ha guidato prima il Sal (sindacato autonomista lombardo) nel 1990, poi il Sinpa (Sindacato padano) nel 1999. Alla fine la pasionaria si è dovuta buttare in politica ottenendo la vicepresidenza del Senato (2008-2013) e poi l’espulsione dalla Lega per il caso Belsito, un processo nel quale è stata archiviata. Oggi nelle piazzeforti regionali del leghismo, Lombardia e Veneto, i politici locali hanno costruito un rapporto di stretta interlocuzione e di collaborazione con i sindacati tradizionali. Per contrasto, il governatore pugliese Michele Emiliano, uno dei leader della fronda renziana nel Pd, pochi giorni fa ha incassato la denuncia per comportamento antisindacale dei vertici dell’Acquedotto (Aqp), controllato dalla Regione. L’altro messaggio forte del 4 marzo è che il sindacalista va bene se fa il suo mestiere. Al governo o in Parlamento piace sempre di meno. Lo hanno decretato le politiche con la bocciatura compatta, in prima battuta, dei candidati provenienti dal mondo sindacale. Soltanto con i resti sono stati recuperati la senatrice Anna Maria Parente, già responsabile del coordinamento donne della Cisl, e il deputato Guglielmo Epifani, ex segretario generale della Cgil e reggente del Pd dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani (2013). Gli altri, tutti esodati. Sono rimasti fuori il ministro del Lavoro Cesare Damiano (Cgil), solo terzo nella proletaria Terni, il sottosegretario uscente all’Economia Pierpaolo Baretta, ex responsabile dei metalmeccanici della Cisl, l’altro cislino Giorgio Santini, deputato democrat del Veneto, e l’ex Fiom-Cgil Giorgio Airaudo, uno dei protagonisti dello storico referendum Fiat-Miraiori del 2011, vinto da Sergio Marchionne. «Ho fatto campagna elettorale Foto: Ansa sul territorio», dice il torinese Airaudo, eletto nel 2013 con Sel e poi passato in Leu. «Sono andato nelle fabbriche che conosco e dove mi conoscono. Mi dicevano: non ce l’ho con te ma voto Lega perché toglie la Fornero e voi ve ne siete andati dal Pd troppo tardi. Altro che cinghia di trasmissione. Con il governo Monti si è rotto tutto. Il risultato? Oggi sulle linee di montaggio dell’Iveco ci sono i nonni che non sanno quando smetteranno di lavorare e che mantengono i figli precari. Per loro e per gli altri lavoratori vale il principio: il sindacato è il mio delegato». Airaudo tornerà da dove veniva per affrontare la marcia verso il rinnovo del vertice Cgil. Per la prima volta gli aspiranti eredi di Susanna Camusso sono tre: Maurizio Landini, Vincenzo Colla e Serena Sorrentino. Dal Piemonte alla Sicilia è il momento dell’orgoglio sindacale anche per Salvo Guglielmino, portavoce nazionale della Cisl. «Nella mia zona, il siracusano, i Cinque stelle sono arrivati fino al 70 per cento ma non credo che ci saranno contraccolpi per il sindacato. Nei nostri paesini, dove ormai non ci sono più neanche l’uicio postale e i carabinieri, si va al patronato, nelle sedi confederali. Noi abbiamo mantenuto gli avamposti sul territorio. I partiti, no». La tenuta del sindacato deve molto a un livello di conlittualità bassa. A volte troppo bassa, come nel caso della riforma Fornero che ha segnato il divorzio di molti elettori di sinistra dal Pd. Un certo becerismo resiste più nel rapporto di rappresentanza che nei privilegi corporativi, molto ridotti rispetto al passato. Lo si vede in un settore debole, i trasporti, dove sigle che hanno pochi iscritti e che non hanno intaccato in modo decisivo la forza dei confederali, possono avere un peso localmente rilevante.
Lo sciopero per i diritti della donna, lo scorso 8 marzo, non ha avuto effetti a Milano dove l’azienda locale (Atm) ha un solo tesserato dell’Usb su 9600 dipendenti, dei quali 7000 iscritti ai sindacati. A Roma, com’è tradizione, è stato il caos nonostante un’adesione molto bassa dei dipendenti Atac (16 per cento). In compenso, una serie di vertenze-simbolo ha incrementato l’apprezzamento. I casi Whirlpool, Embraco, Ryanair, Amazon hanno dimostrato che il vecchio delegato, con tutti i suoi difetti, dà una mano alla vedova e all’orfano laddove i partiti hanno sgombrato l’area da un pezzo, seppure non si sono rassegnati alle delocalizzazioni e ai braccialetti con Gps per controllare i tempi trascorsi alla toilette. È anche una questione pratica. La trattativa sull’Ilva di Taranto, dove M5S ha stravinto pur essendo favorevole alla chiusura con riconversione dell’impianto, non si può fare senza quei corpi intermedi che infastidivano Renzi e che la fatwah di Beppe Grillo («eliminiamo i sindacati, voglio uno Stato con le palle») vorrebbe cancellare. Ed è certamente una questione politica. Se n’è accorto Donald Trump fotografato nei giorni scorsi insieme alle tute blu in occasione dell’accordo sui dazi a favore dell’industria Usa. Magari i metal workers ritratti alla Casa Bianca erano in larga parte “non union”. Ma è un fatto che i lavoratori del manifatturiero dell’America suburbana hanno dato un apporto fondamentale all’elezione del milionario di Manhattan. «In tutto l’Occidente», conclude Feltrin, «la sinistra ha rotto i rapporti con il mondo del lavoro per puntare tutto sulle minoranze e sui diritti civili. Ma con i diritti civili non si mangia e non si prende un voto in più»