l’espresso 11.3.18
Elogio del danno
di Evelina Santangelo
Il
caso potrebbe essere di quelli da archiviare in fretta come uno
sproloquio surreale, se non chiamasse in causa figure ed enti culturali
di grande rilievo, come l’Associazione italiana editori. In breve. Un
giornalista, e dunque uno che in linea di principio rientrerebbe tra chi
in una società svolge un ruolo intellettuale, intervista il direttore
artistico della Fiera dell’editoria di Milano, bibliofilo, docente
universitario, organizzatore culturale. Tema: Non c’è nessuno che possa
fare più danno alla Cultura di un intellettuale. Che uno già, dinanzi a
una situazione così paradossale, avrebbe subito voglia di chiudere la
questione con le parole di Mr Martin della “Cantatrice calva” di
Ionesco: «Dimentichiamo, darling, tutto ciò che non è accaduto tra di
noi». Perché poi l’intervista è un botta e risposta per dimostrare la
superiorità del fare manageriale sul fare intellettuale, dove il fare
manageriale è pop e il fare intellettuale è snob. Un po’ come i film
noiosi evocati tra i must della sinistra e le scarpette da tennis un po’
di destra del Gaber di Destra-Sinistra. Dunque, festa per i 110 anni
dell’Inter come specchietto per allodole-non-lettrici. Una voce che da
un altoparlante spara L’infinito oltretombale del Leopardi come versione
pop-distopica della Cultura alta. «O parole, quanti delitti si
commettono in vostro nome», scriveva Ionesco. E qui sembra che il
delitto più grande coincida con la parola «intellettuale». Basta
riattraversare alcuni momenti capitali di cosa ha significato ed è
costato essere intellettuali per capire che il sospetto non è infondato.
Se è abbastanza chiaro a tutti che il termine ha a che vedere con
attività riguardanti l’ingegno umano, non è altrettanto evidente se
quell’ingegno produca progresso spirituale, artistico, culturale (e, in
certi casi, anche materiale) o solo scompiglio. Quasi sempre l’ingegno
umano, nelle sue più alte e azzardate manifestazioni, finisce per
scompaginare pensieri e visioni consolidate, superare limiti
invalicabili. Galileo Galilei era uno scienziato, un uomo che usava
intelletto, raziocinio, immaginazione. Se le sue ricerche e scoperte gli
sono costate processi e umiliazioni è stato perché avevano conseguenze
sul piano intellettuale e culturale, ribaltavano il modo di pensare
l’Uomo, la Terra e il Potere. Diversamente nessuno si sarebbe
preoccupato di cosa girasse intorno a cosa, se la terra o il sole. Lo
stesso vale per Giordano Bruno, accusato di eresia in virtù delle sue
concezioni teologiche e ilosoiche. Fu anche e proprio per l’intuizione
vertiginosa di mondi ininiti in uno spazio ininito che pagò con morte
atroce la colpa d’insinuare smottamenti nella dottrina. E Dante? Non
pagò forse con l’esilio quella sua indipendenza di pensiero che innerva i
versi della Commedia? Questi timori che da sempre accompagnano la igura
dell’intellettuale nel momento in cui può incidere nel pensiero
collettivo oggi si tingono di una nuova patina, più sbarazzina: la
necessità di andare incontro alle aspettative di svago ed emozioni che
sembrano proilarsi come uniche alternative alla fatica di vivere. E qui,
il termine «intellettuale» pare evocare un modo di fare cultura, quello
di un’intera generazione che, dopo gli orrori della Seconda guerra
mondiale, per immaginare un futuro possibile tra macerie materiali e
spirituali, indentiicò lo scrittore o l’artista con un ruolo civile,
facendone portatore di una visione del mondo, di un’emancipazione
collettiva ma traducendo questa urgenza nel ruolo di una élite con i
suoi riti e le sue parole d’ordine, al punto che tanti (Pasolini, in
primis) ne patirono orizzonti limitati o allineamenti. Credo che su
questo modo d’intendere il fare intellettuale oggi si alimenti ad arte
il sospetto che grava sulla igura dell’intellettuale (la cui accezione
implica prevalentemente un’appartenenza più o meno di sinistra insieme a
un’idea di snobismo, cerebralismo e privilegio). Nei “Quaderni dal
carcere”, un pensatore libero, e per questo buttato in galera, come
Antonio Gramsci parlava di un nuovo intellettuale organico alla società,
homo faber e homo sapiens insieme, spingendosi a scrivere: «Ogni uomo
inine, all’infuori della sua professione, esplica una qualche attività
intellettuale… partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, contribuisce a sostenere o a modiicare una
concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare». Una
visione che implicava idee dirompenti: responsabilità collettiva, iducia
nell’uomo come parte attiva di una società. Mi viene da pensare a
quanti uomini e donne oggi svolgono attività di ingegno, coltivano
saperi al servizio di una collettività. Penso ai festival piccoli e
grandi difusi nel nostro Paese, anche in luoghi diicili o sperduti (come
il cuore della Barbagia dove accade L’Isola delle Storie di Gavoi).
Penso ai circoli di lettori in aree anche remote. Penso a trasmissioni
curate da intellettuali che creano attenzione intorno alla lingua, ai
libri: Fahrenheit, La lingua Batte, Quante Storie. Penso a quanti stanno
investendo energie nel creare un tessuto difuso di piccola editoria con
punte di prestigio come NnEditore. Penso a blog come @CasaLettori con i
suoi 62.000 follower. Certo, tutto questo convive col suo contrario, il
narcisismo social, il cretinismo che accumula like, il dilettantismo
che si fa mestiere, un’orizzontalità che non è spazio di partecipazione
democratica ma arroganza di chi pretende il diritto di parola e di
ascolto senza prendersi la briga di dare solide fondamenta al proprio
pensiero. E convive con il cinismo di chi specula su pregiudizi e
ignoranza, anzi li alimenta, grazie a un mezzo potentissimo come
Internet, non diversamente da quel che accadde con la Radio nelle mani
di gente come Goebbels, che scrisse appunto: «La vera radio è
propaganda. Propaganda signiica combattere in ogni campo di battaglia
dello spirito, generando, moltiplicando, distruggendo, sterminando,
costruendo, disfacendo», alimentando quel che Hannah Arendt chiama il
«caos delle opinioni». In un momento in cui è diicile orientarsi tra
fake news e pressappochismi che hanno la posa d’intellettualità, e tra
le spirali di un mercato in cui è difficile scegliere, dichiarare o
avallare la dichiarazione che gli intellettuali fanno danno alla Cultura
significa screditare uomini e donne che stanno investendo energie e
ingegno in un progetto culturale diffuso contribuendo a costruire una
concezione di cultura e società che non si accontenti di pastoni
scimmiottanti le tv commerciali o un’idea di pop ridotto a roba
frizzantina, difondendo così l’idea che la cultura sia un gioco di
prestigio o uno slogan ben confezionato. Se c’è una cosa che dovremmo
tenere a mente tutti è che ogni progresso umano, scientifico, culturale,
sociale, spirituale e anche materiale, lo dobbiamo a intellettuali,
gente di ingegno che, come, si è messa in solitudine pensosa davanti a
un colle, un orizzonte, e tenendo isso lo sguardo su quel limite ha
saputo immaginare mondi capaci di andare oltre, anche a costo di esili e
umiliazioni. Negare questo ruolo signiica essere i peggiori nemici non
solo della cultura ma della società tutta, operare per ridurla a
un’entità supina e inebetita, per farne quel che più fa comodo al potere
di turno.