l’espresso 11.3.18
Polemiche
L’intellettuale ha perso
di Marcello Fois
Resta appartato. Non sposta un voto. Oggi è una figura sconfitta. Ma la società ne ha bisogno. La provocazione di uno scrittore
L’intellettuale
non può deontologicamente essere simpatico al potere in corso. Mi
spingerei fino a dire che uno dei compiti dell’intellettuale è di
rappresentarsi, in automatico, come antagonista. Come figura che non
cede al ricatto della consolazione, della lamentela, del luogo comune,
del consenso. Le società che funzionano, anche a fasi alterne, sono
quelle in cui questa precisa forma di antagonismo si esercita senza
ricatti. È un mestiere come un altro quello dell’intellettuale, solo un
po’ più articolato, perché bisogna sapere più cose senza vergognarsene,
avere la tendenza a fare collegamenti senza temere di svuotare le
platee, partire dalla complessità senza confonderla con la
complicazione, avere il coraggio della parola astrusa o del lemma
inusuale. L’intellettuale è quello che ricorda in quanti modi si possa
dire la stessa parola di cui tutti paiono accontentarsi. Sa che, per
questo semplice contributo, sarà tacciato di saccenteria, ma non si
lascia intimidire, accoglie su di sé il peso della povertà lessicale
generalizzata e prova a dimostrare che il linguaggio ha valore anche
nella scelta, direi selezione, dei termini e non solo nel tono di voce
con cui si decide di esprimerli. Prova a spiegare che “la consecutio
temporum” migliora la frase, e il messaggio conseguente, come una buona
lezione di Pilates migliora il gluteo cadente; che non è affatto vero
che anche il figlio dell’ingegner tal dei tali, deportato al MoMa
durante la gita scolastica a New York, è in grado di dipingere un quadro
di Pollock o di Miró; che quando si parla, e si scrive, per l’ennesima
volta, di “silenzio degli intellettuali” bisogna controllare di non
essere un intellettuale che ha usato il suo spazio pubblico sulla grande
stampa nazionale per lamentare il silenzio degli altri senza aver detto
niente del suo silenzio. Gli intellettuali, l’abbiamo appena visto, non
spostano un voto. Nel nostro Paese si ha una tendenza perversa a
confondere la risonanza con la sostanza. Ci siamo abituati a un’idea di
intellettuale pubblico come oracolo consolatorio, con la tendenza
all’appiattimento, e quindi all’adeguamento, della lingua e del
pensiero. Quel tipo di “intellettuale” parla a comando e quando sta
zitto lo fa a ragion veduta. Il suo intento è di trovarsi nel posto
giusto nel momento giusto. Quasi sempre il salotto televisivo di turno.
Fa il polemico senza esserlo, è presente, lo vediamo tutti, quindi c’è.
Ma si muove sempre nei limiti di una performance in cui le parti sono
già scritte. Quel tipo di “intellettuale” si rappresenta come popolare,
dando a quella parola l’accezione più offensiva e umiliante.
Concedendosi mani e piedi al generalizzato adeguamento verso il basso,
sminuendosi per affermare la propria superiorità. Ci si rivolge al
popolo, dunque si riduce la portata dei concetti, il patrimonio delle
parole, al minimo, disprezzando, di fatto, l’interlocutore. Tuttavia,
come un buon politico, un buon genitore, un buon insegnante, anche un
intellettuale non dovrebbe avere nessun interesse per la popolarità,
sapendo, su di sé, di svolgere un compito a rilascio lento, spesso
lentissimo. Nel nostro deprimente Paese Pasolini e Bobbio, per fare due
esempi semplici, rilasciano ancora senza sosta. E servono come il pane.
L’intellettuale dovrebbe sempre tenere presente il peso, fisico e
psicologico, delle affermazioni che fa. Dire cose di cui si deve
rispondere, significa non usare parole qualunque ma mirare con
precisione e dunque avere in mente un preciso scopo. Chi spara nel
mucchio, chi non si prende un po’ di tempo per mirare, chi non è in
grado di selezionare i propri interlocutori non è un intellettuale. È
un’altra cosa, magari anche migliore, ma non un intellettuale. La parola
stessa, intellettuale, che noi tendiamo a confinare nella lista
nebulosa dei termini a libero accesso come poeta, scrittore, pittore,
attore, cantautore, politico, amministratore, direttore di salone del
Libro, è invece assai poco accogliente. A differenza di quanto
sostengono taluni nessuna di queste funzioni è spaziosa e capiente. Per
ognuna di esse occorre attitudine, studio, fatica, coraggio. Non è
affatto vero che intellettuali, attori, pittori, poeti, cantautori,
politici, amministratori, direttori di Saloni del Libro, possano esserlo
tutti. Si può millantare di esserlo, si può persino essere nominati,
eletti, rappresentati, pubblicati, senza che questo autorizzi a
definirsi tali. Gli intellettuali hanno l’onere di spiegare che la linea
del consenso, ai ini dell’incidere sul proprio tempo, è assolutamente
ininfluente. Il video su Youtube di un cane a cui vengono applicati
quattro piccoli doposci per farlo zompettare sulla neve, e del suo
conseguente, per alcuni divertente, disagio nel muoversi, ha ottenuto
oltre quaranta milioni di visualizzazioni. E allora? Basta accendere la
televisione per percepire con chiarezza quanta differenza ci sia tra la
professionalità e l’improvvisazione. Sempre che la si voglia percepire.
L’assenza di intellettuali in una società fa in modo che questa
percezione si attenui ino a scomparire, ino a diventare un atout anziché
un deficit. Permette a chiunque di citare Calvino e la sua presunta
leggerezza a sproposito, per esempio. Senza il rompiscatole che ti
spiega che tra Valeria Marini e Valeria Moriconi, che pure hanno calcato
i palcoscenici del nostro Paese, c’è una diferenza abissale, nonostante
l’assonanza onomastica, la nostra memoria collettiva è più povera. E se
due o tre persone, dopo la lettura paziente di questo appassionato
sproloquio, vorranno digitare su Google il nome Valeria Moriconi, vorrà
dire che la mia giornata da intellettuale avrà avuto un senso.
L’intellettuale potrebbe persino azzardarsi a spiegare che in campo
editoriale i successi sono quelli che sono; che chi esamina le
situazioni in corso come se fossero le uniche determinanti per il futuro
non ha letto abbastanza; il dibattito sulla “dittatura degli editor”
che questa rivista ha recentemente ospitato, per esempio, mi pare un
dibattito importante, ma, in qualche modo, pseudointellettuale. Perché
chiude in una formula data, direi un po’ limitata, un discorso assai più
articolato e, lasciatemelo dire, eminentemente politico con tutta la
complessità che ne consegue. Ma se la polemica si limita a “gli editor
costruiscono i successi editoriali” non mi interessa, lo dico senza
mezzi termini. Vorrei ricordare che non troppo tempo fa i bestseller in
questo Paese erano Guido da Verona e Carolina Invernizio, vi dicono
niente “Sciogli la treccia”, “Maria Maddalena” o “Il bacio di una
morta”? Cercateli su Google. Non posso credere che persone colte e
intelligenti confondano il mercato editoriale con la letteratura: sono
sempre stati insieme, hanno sempre convissuto. Hanno da sempre svolto
compiti diversi. Elsa Morante e Nantas Salvalaggio, coesistevano a pochi
centimetri negli scaffali delle librerie, come John Grisham e Joseph
Roth. Persino gli U2 e i Jalisse sono stati coevi nella storia della
musica recente. Dunque? Quale sarebbe la materia del contendere? Non ci
sono mai stati i tempi in cui si pubblicavano solo i migliori, ma quella
sensazione ci è rimasta proprio perché, nel tempo, sono rimasti solo i
migliori. Tutti gli altri, anche i più famosi del momento, anche i
vincitori del vincibile, anche i campioni di incasso e i campioni di
presenzialismo, sono deinitivamente scomparsi. Malaparte vive,
Pitigrilli è morto. E Pitigrilli contava come Fabio Volo. Discutere come
se ci si confrontasse contro un nulla di fatto, come se fossimo
all’anno zero, fa un torto a tutti. A chi parla e a chi ascolta. Dire
che il più grande scrittore italiano, o francese, o australiano
eccetera, coincide col più venduto, è una sciocchezza sesquipedale, che
“i più grandi scrittori” in questione contestano per primi. Ma afermare
che a causa del loro successo, pilotato, la scrittura muore è
altrettanto sciocco. Non sono gli editor frustrati o i Fabio Volo che
rovinano la letteratura, anzi spesso la sostengono, perché per ogni Volo
che si stravende, per ogni Franchini che si inventa un titolo geniale,
si può “rischiare” di pubblicare un Michele Mari o una Laura Pariani.
Per ogni Kerbaker che può fare affermazioni di una supericialità
sconcertante, che umiliano lui per primo e tutti gli ospiti, molti dei
quali ior di intellettuali, del suo “frizzante e leggero” Tempo di Libri
2018, c’è una Chiara Valerio che può svettare per compostezza, dignità e
competenza. Per fortuna l’intellettuale sa bene che la gara che sta
facendo non si può vincere oggi. Oggi ha già perso. L’intellettuale
dovrà tenere conto del fatto che tutto quello che si saprà dei suoi
tempi dipenderà dal suo grado di resistenza. Dovrà esserci quando gli
altri non ci saranno più ed esercitare il suo presente alla luce di
questa importantissima responsabilità