lunedì 12 marzo 2018

l’espresso 11.3.18
Reportage
Nei secoli Fidel
Il fratello Raúl, 87 anni, sta per ritirarsi. Al suo posto, un uomo di apparato. Ma nelle strade si parla poco o niente del governo
di Wlodek Goldkorn dall’Avana (Cuba)


L a tomba di Fidel Castro, al cimitero di Sant’Ifigenia di Santiago di Cuba, consiste di una grande pietra ovale color grigio, una panchina di marmo davanti, con qualche fiore posato e una scritta a lettere dorate su una piastra nera: Fidel. I turisti si mettono in posa, scattano le foto, poi attendono il cambio di guardia; un’attrazione pari alla cerimonia davanti a Buckingham Palace a Londra. Ogni mezz’ora suona una campana e un gruppetto di soldati e soldatesse, divisa verde che per la rigidità dell’uniforme richiama il design sovietico, marcia al passo dell’oca. Dietro la tomba di Castro, due grandi monumenti, l’uno ai martiri del 26 luglio, i morti nell’assalto alla caserma Moncada, 65 anni fa; l’altro ai “caduti per compiere il dovere internazionalista”, i soldati uccisi nelle guerre africane, negli anni Ottanta. A pochi passi dalla pietra che commemora il comandante in capo della Rivoluzione, scomparso novantenne nel 2016, ecco il massiccio mausoleo di José Martí. Il monumento ha la forma circolare, vi si sale con una ampia scala, e sporgendosi da una balaustra in pietra, sotto, al pianterreno, si può vedere l’urna con le ceneri avvolta nella bandiera nazionale. Per chi non lo sapesse, Martí è considerato il padre dell’indipendenza cubana: poeta - suoi i versi di “Guantanamera”- filosofo influenzato dall’utopia di Ralph Waldo Emerson, prigioniero degli spagnoli, ebbe le gambe piagate dalle catene e morì in battaglia, appena sbarcato in patria, nel 1895. Quanto sopra non è una guida turistica per chi volesse visitare Santiago (ne vale la pena comunque), ma un tentativo di suggerire quanto nella narrazione del regime l’identificazione tra Fidel e Martí sia fondamentale. E quanto nella costruzione del consenso al regime contino la storia e la memoria, più che l’avvenire. Intanto c’è ancora, vivo, il ricordo della schiavitù. Il gentilissimo poliziotto che sorveglia il balcone al monumento di Martí invita il visitatore a vedere un altro memoriale: «C’è la scultura di Marianna a sancire la liberazione dalla schiavitù». Scopre l’avambraccio e con il dito dell’altra mano tocca la propria pelle, nera, con lo stesso gesto con cui tanti signori e signore indicano il numero tatuato, qui in Europa, 75 anni fa, sul loro avambraccio. Indipendenza significa a Cuba anche liberazione dalla schiavitù. Il 19 aprile ci sarà un cambio di personale al potere. Raúl, il fratello 87enne che regge le sorti del Paese si ritira. La nuova Assemblea nazionale, eletta l’11 marzo, dovrebbe scegliere il successore. Probabilmente sarà il 57enne Miguel Díaz-Canel, un uomo di apparto di lungo corso. Ma, a girare per le strade, a parlare con la gente, le vicende del governo, presente e futuro, sembrano interessare poco. Colpisce anche la mancanza di richiami al futuro radioso, così comune invece una volta negli ex Paesi del socialismo reale. All’ingresso di ogni città c’è una gigantografia con la figura di Fidel, oppure del Che, qualche volta di Raúl. Ma niente ritratti di Marx e di Lenin. Niente bandiere rosse, né falci e martelli. E anche, niente, o quasi, edicole con i giornali. Le librerie non sono poche, ma molto povere. Alla Fiera internazionale del libro, all’Avana, poche settimane fa, il volume che andava per la maggiore era dedicato ai funerali di Fidel. Ecco, la narrazione del regime è tutta rivolta al passato e per molti versi assomiglia alla creazione di una nuova religione, civile, ma poco laica. Poco laica perché le immagini di Ernesto Guevara si confondono come quelle di Cristo sanguinante (in alcune chiese si vedono le figure di Gesù con il petto squarciato e il cuore sanguinante, appunto); mentre la figura di Madonna si sovrappone al racconto della madre, dolorante per il martirio del figlio cui era legatissima, di José Martí. “Granma”, l’organo del Partito comunista, non è onnipresente, come lo erano la “Pravda” nelle contrade dell’Urss o la “Neues Deutschland” nella Ddr. Lo si può comprare da venditori ambulanti per pochi spiccioli. Otto pagine scarne. Leggerlo significa fare un viaggio nel tempo. Certo, c’è una pagina internazionale dedicata alle gesta del presidente Nicolás Maduro, campione venezuelano dell’antimperialismo, e c’è qualche doveroso artico lo in difesa di Lula, ex presidente brasiliano, accusato di corruzione. Ma poi ci sono tanti testi, in cui si raccontano storie degli anni Cinquanta: l’epopea della Sierra Maestra, la sparuta pattuglia di guerriglieri sopravvissuti all’assalto alla caserma di Moncada, appunto, che lotta contro le truppe del regime di Fulgencio Batista; ricordi di combattenti a fianco di Fidel; biografie, romanzate e scritte benissimo, di dirigenti politici e militari, morti chi nel proprio letto, chi per mano dei sicari della dittatura abbattuta nel 1959. Colpisce anche la struttura narrativa dei racconti: allude ai Vangeli; un uomo (talvolta una donna) che a un certo punto della vita scopre l’esigenza della giustizia, incontra Fidel; segue catarsi e rinascita. È come se il tempo si fosse fermato per ordine supremo delle autorità. E non per nostalgia, ma perché gli eroi vanno raccontati da giovani. E pazienza se la loro giovinezza risale a mezzo secolo fa. E, del resto, l’altro giornale si chiama “Juventud Rebelde”, gioventù ribelle, malinconico richiamo ai tempi mitici, in un Paese in cui i giovani sognano l’America e la ribellione non è ben vista. Tracce della ribellione, malconce, si trovano nei musei della Rivoluzione, nei memoriali agli eroi. L’ex caserma Moncada, assaltata a Santiago il 26 luglio 1953 dai giovani ribelli comandati da Fidel, è oggi una scuola. Nel cortile, bambini in divisa che riprende i colori della bandiera nazionale: e, va detto, a Cuba non si vedono bambini che chiedono l’elemosina, non ci sono le favelas e le bidonville dell’America Latina, non ci si imbatte in una misera degradante, la povertà (mancano molte merci) è decorosa e dignitosa. In un’ala della scuola c’è appunto il museo che ricorda l’inizio della Rivoluzione. All’ingresso le foto: Fidel con Breznev, Fidel con Honecker, Fidel con Arafat. A tutti quanti il comandante in capo mostra un fucile, perché qui il Vangelo guevarista e castrista, la nuova religione, questo dice: il potere nasce dalla canna del fucile. I capi sono militari, non solo politici e sicuramente non teorici del marxismo-leninismo. E per rafforzare questo concetto, in altri luoghi simili, per esempio all’Avana, a due passi dal Malecón, il lungo mare con i suoi edifici coloniali mangiati dalla salsedine, al Museo della Rivoluzione, tra le foto degli eroi, gli zaini dei capi in Sierra Maestra, ovunque ci sono gli scarponi militari: di Fidel, del “Che” e del comandante Camilo Cienfuegos, figlio di anarchici spagnoli, morto in un incidente aereo poco prima che Fidel si dichiarasse marxista-leninista. E poi: le camicie insanguinate, la barella del Che in Bolivia. Non sono icone perché l’icona presuppone e implica astrazione, sono invece reliquie, segni appunto di una fede che prolunga il passato per farlo vivere nell’eterno presente. E forse l’operazione ha un certo successo: le foto, simili ai santini, del “Che” ci sono in ogni negozio, in ogni bottega di barbiere. Capita in una spiaggia frequentata dai cubani di sentire il vicino di ombrellone raccontare aneddoti sul “Che”. E anche l’impressione è quella di una nuova Trinità: Fidel, alla sua destra il “Che”, alla sinistra Camilo. Poi esiste una realtà. La crisi economica morde. Trump non aiuta - per usare un eufemismo - e il turismo statunitense langue. Chi non è in grado di aprire una “casa particular” (stanze private in affitto agli stranieri), o non ha parenti all’estero che mandano i soldi, vive male. Gli intellettuali sono disperati. Ma non si respira un’aria di paura. Capita di incontrare uomini che con uno straniero raccontano liberamente di aver combattuto in Angola e di essere arrabbiati «perché tanti miei compagni sono morti lì per nulla». E il discorso comune è grosso modo: «Abbiamo molto - sanità e scuole - ma vogliamo di più». Poche speranze, però, e tanta postmodernità. A Trinidad, il giorno del compleanno di José Martí, silano gli alunni delle scuole locali. Le ragazze sono truccatissime, portano hot pants e stivaletti, e si muovono, mezze nude, dimenando le anche. Quando arrivano sotto il palco delle autorità, si ode la voce che recita a mo’ di preghiera: «Morire come Che Guevara»