l’espresso 11.3.18
Visto dalla storia
Un politico, l’Italia
di Umberto Gentiloni
Curioso
e paradossale che un politico possa diventare un punto di riferimento,
un modello, un confidente riservato, un conforto per cercare serenità e
benessere. Sembra l’immagine di un tempo lontano, perduto e
incomprensibile: quello delle culture politiche che uniscono, del
confronto delle idee, delle strategie collettive, dei soggetti
partecipativi capaci di costruire leadership e classi dirigenti.
Un’Italia distante non misurabile sull’arco dei quarant’anni che ci
separano dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro. Quella vicenda è
molto di più di un delitto efferato, di un attacco terrorista al cuore
dello Stato, di una striscia di sangue che ha segnato una fase della
nostra storia. Moro è un simbolo da colpire, la sua biografia si
sovrappone al dopoguerra della Repubblica: dall’Assemblea Costituente
ino alla tragica primavera del 1978. Ma se le Brigate Rosse cercano di
colpire un uomo e una storia, il paese si stringe attorno al prigioniero
cercando di seguire le sorti di una vita come se dal destino
dell’ostaggio dipendessero le condizioni di tante famiglie, lo stesso
cammino di una comunità smarrita. Non si doveva interrompere un
itinerario collettivo, spezzare una trama che aveva permesso a tanti di
sentirsi parte di una storia comune. E dai punti di partenza più diversi
si poteva cercare di migliorare, di avere obiettivi e orizzonti
raggiungibili, di dare un senso a tante azioni quotidiane. Poche ore
dopo la strage di via Fani comincia a muoversi un fiume carsico e
disordinato in cerca di un’interlocuzione possibile con la signora Moro.
Mentre vanno in onda le edizioni speciali dei telegiornali, la famiglia
è sommersa da un fiume di lettere: pensieri, disegni, foto, preghiere,
piccoli grandi gesti di vicinanza e solidarietà. Una corrispondenza
impossibile spontanea e disordinata che spesso non ha neppure un
indirizzo corretto o un destinatario adeguato: famiglia Moro, via Fani,
piazza del Gesù o la via Trionfale di Roma dove la famiglia risiedeva.
Scrivono italiani e italiane di tutte le età: bambini delle scuole o
pensionati, politici più o meno affermati e tanti comuni cittadini che
partecipano a un funerale collettivo, quello della Repubblica e delle
sue basi fondanti. Pacchi di temi arrivano dalla scuole di ogni ordine e
grado: iniziative tenute insieme dal dolore di quelle ore, dalla
speranza di una soluzione positiva, dalla voglia di partecipare, di
essere presenti in un passaggio cruciale della vita democratica. Ma cosa
ha rappresentato quel tornante nella coscienza più profonda della
società italiana? Cosa si è mosso allora in termini di sentimenti,
speranze, aspettative mal riposte? In fondo quei 55 giorni di prigionia
hanno unificato il paese nell’attesa, nella trepidante ricerca di
notizie in un sentire comune che si dissolve mentre la tragedia si
consuma inesorabilmente. Una grande emozione collettiva sulla sorte del
prigioniero che si ripiega su stessa disperdendosi in mille rivoli nei
mesi e negli anni successivi. Un patrimonio diffuso che si manifesta nel
gesto individuale di scrivere qualcosa, lasciare un segno,
un’intenzione, un pensiero da condividere: chi racconta passeggiate e
incontri fortuiti, chi chiede consigli, chi riavvolge il nastro della
propria vita, chi cerca aiuto per un lavoro o per una segnalazione
vantaggiosa. E sul versante pubblico nelle manifestazioni politiche o
sindacali, nelle prese di posizione di istituzioni locali, condomini,
associazioni sportive o ricreative e tanto altro. Un paese ferito che si
riconosce, incredulo e speranzoso.