l’espresso 11.3.18
Ritrovare Moro
Il leader dc fu rapito e ucciso 40 anni fa, in una fase cruciale per il Paese. Come quella di oggi
di Marco Damilano
Moro
tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le
bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la
scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali,
vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci. Scorro per
ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro,
dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari,
Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio
personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che
porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte
quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in
bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli
anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale
del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta,
con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che
contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti,
via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito
e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno
1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve
ancora compiere quarant’anni. L’immagine pubblica esisteva già anche in
una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica,
sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito
di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre
diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica,
la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni
fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo
totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della
vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di
benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa
cupezza e depressione. Quando il grigio era il colore dominante si
intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno
plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a
tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica
che l’Italia non aveva
mai avuto. Fino ai due ultimi scatti,
quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle
Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con
l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico
Ricci, Rafaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano
tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi,
invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo
progetto, il suo metodo. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con
le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica
molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano
chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di
Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della
società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si
sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente
delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975. Dopo Moro è finito il
suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il
segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la
mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del
presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di
più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile,
insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il
potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere
si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse,
la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a
qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi. Nessuno
può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella
mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo
Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di
entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra
fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata
postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un
colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio,
un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare
una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita
la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se
continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non
risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della
disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli,
ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado
Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla ine del
colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un
braccio di Scalfari. Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani,
il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva
invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore
dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra
società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con
alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il
rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare
né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in
questo momento storico, se fosse condotta ino in fondo la logica della
opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se
questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse
messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta ino in
fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra
posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto,
malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese.
È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato in
qui la democrazia italiana...». Nel quarantesimo anniversario del
rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla
passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in
questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più
flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le
innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è
apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sida di
cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica
non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini.
Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a
dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato.
Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella
prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da
ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero
cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma
noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di
oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la
politica era vissuto e ifnine morto e che nella politica, tuttavia, non
aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande
di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere
disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da
una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di
verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in
relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è
chiamato a formulare. Ma la verità è la verità». Negli ultimi giorni
della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a
quadretti e una penna come sola arma a disposizione per farsi sentire,
con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso
che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità. Ciò che manca
oggi a una politica che si percepisce come onnipotente, forte di
consensi e successi, che si auto-celebra per i milioni di voti raccolti,
ma che non possiede un atomo di verità sul Paese e su se stessa. E
dunque è destinata a essere perdente, sempre.