lunedì 12 marzo 2018

l’espresso 11.3.18
Ritrovare Moro
Il leader dc fu rapito e ucciso 40 anni fa, in una fase cruciale per il Paese. Come quella di oggi
di Marco Damilano


Moro tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali, vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci. Scorro per ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro, dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta, con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti, via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno 1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve ancora compiere quarant’anni. L’immagine pubblica esisteva già anche in una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica, sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica, la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa cupezza e depressione. Quando il grigio era il colore dominante si intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica che l’Italia non aveva
mai avuto. Fino ai due ultimi scatti, quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Rafaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi, invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo progetto, il suo metodo. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975. Dopo Moro è finito il suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile, insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse, la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi. Nessuno può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio, un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla ine del colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un braccio di Scalfari. Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani, il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta ino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta ino in fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato in qui la democrazia italiana...». Nel quarantesimo anniversario del rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sida di cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini. Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato. Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la politica era vissuto e ifnine morto e che nella politica, tuttavia, non aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità». Negli ultimi giorni della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a quadretti e una penna come sola arma a disposizione per farsi sentire, con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità. Ciò che manca oggi a una politica che si percepisce come onnipotente, forte di consensi e successi, che si auto-celebra per i milioni di voti raccolti, ma che non possiede un atomo di verità sul Paese e su se stessa. E dunque è destinata a essere perdente, sempre.