lunedì 12 marzo 2018

La Stampa 12.3.18
Molestie nel seminario dei “Legionari di Cristo”, chiesto rinvio a giudizio dell’ex rettore
A Gozzano la denuncia di tre ex studenti della struttura chiusa dal 2016
di Marco Benvenuti


Novara Atti sessuali e abusi, senza tralasciare violenze psicologiche per evitare che i ragazzini potessero raccontare qualcosa ai genitori quando tornavano qualche giorno a casa.
Uno scandalo pedofilia nel mondo della chiesa tocca la provincia di Novara. La Procura di Milano, infatti, ha chiesto il rinvio a giudizio di padre Vladimir Resendiz Gutierrez, già responsabile del seminario minore dei Legionari di Cristo di Gozzano, struttura della congregazione di diritto pontificio chiusa ormai da un paio di anni a causa della forte diminuzione delle vocazioni, che ne rendeva troppo onerosa la gestione. Nella ex sede di via Gentile si sono formati per decenni decine di sacerdoti provenienti da tutto il mondo.
Oggi vive in Messico 
Gutierrez arriverà però al processo in contumacia. Dopo un incarico in Venezuela, ora, secondo le informazioni degli investigatori, dovrebbe trovarsi in Messico. Nei suoi confronti si parla di violenze commesse ai danni di tre giovanissimi studenti del seminario novarese, oggi ventenni, abusati quando erano in tenera età, circa otto anni fa. Uno è spagnolo, gli altri due italiani. Potrebbero esserci anche altri vittime che non hanno parlato, forse per timore.
La storia di pedofilia è venuta alla luce grazie alla denuncia per estorsione presentata dai familiari di uno di questi giovani, residenti nel Milanese. Conoscenti dell’ex rettore dei Legionari di Cristo gli avevano offerto 15 mila euro per comprare il suo silenzio, con la clausola che, nel caso avesse parlato degli abusi, avrebbe dovuto restituire molti più soldi. Al ricatto è stato detto di no e nelle indagini per estorsione la vittima ha poi raccontato quanto succedeva anni addietro fra le mura di Gozzano. Un’incredibile storia di abusi e orrore. Parrebbe che il sacerdote chiudesse gli studenti nel suo studio e li sottoponesse per ore a qualsiasi tipo di tortura e pratica sessuale.
Gli abusi 
Si legge nell’imputazione che Vladimir Resendiz Gutierrez «con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di responsabile del seminario minore dei Legionari di Cristo, agendo con violenza, minaccia, abuso di autorità spirituale e comunque abusando delle condizioni di inferiorità psico-fisica del minore, all’epoca dodicenne a lui affidato per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza e custodia, costringeva e comunque induceva il minore a compiere su di sé e a subire atti sessuali». 
Nelle imputazioni emergono anche violenze psicologiche, come per esempio «impedire che il minore potesse rientrare a casa, in occasione delle visite dei genitori». L’udienza preliminare sarà in tribunale a Novara per competenza territoriale.

Corriere 12.3.18
Riportò Platone in mezzo a noi: addio al filosofo Mario Vegetti
1937-2018 Lo studioso aveva esaltato l’importanza del pensiero scientifico della Grecia antica
di Antonio Carioti


Raffinato studioso e commentatore di Platone, conosceva come pochi altri anche il versante scientifico della cultura classica. E aveva un carattere piuttosto schivo, non cercava la popolarità e non amava i riflettori. Tuttavia Mario Vegetti, scomparso ieri nella sua casa milanese all’età di 81 anni, era ben consapevole della necessità di far conoscere la civiltà antica al grande pubblico. Diversi suoi libri hanno infatti un carattere didascalico — non a caso sono articolati in lezioni — o d’introduzione alle opere dei grandi filosofi. Concepiva l’università come un luogo aperto al confronto con il territorio, gli dispiaceva che, dopo alcuni tentativi, le istituzioni accademiche avessero rinunciato a essere «protagoniste attive del tessuto cittadino».
Nato a Milano il 4 gennaio 1937, Vegetti era stato alunno del prestigioso collegio Ghislieri di Pavia e si era laureato nell’ateneo di quella città con una tesi su Tucidide, nel 1959. Sempre a Pavia era stato professore ordinario di Storia della filosofia antica per trent’anni, dal 1975 al 2005. Poi aveva lasciato, un po’ deluso per lo scarso dinamismo dell’ambiente accademico, che addebitava non solo ai colleghi, ma anche ai giovani: «Un tempo gli studenti — ricordava — ponevano domande di senso. Oggi non più».
Convinzione profondamente radicata di Vegetti era appunto che lo studio del mondo classico fosse fondamentale per aprire le menti. I grandi pensatori greci, sottolineava, avevano sviluppato le proprie riflessioni in un ambiente privo di sacre scritture o di autorità che pretendessero di possedere e imporre dottrine prefissate, quindi avevano potuto avanzare le ipotesi più varie, a volta geniali, a volte strampalate, in completa libertà. Avevano così animato un immenso laboratorio intellettuale non solo in campo filosofico, ma anche scientifico. La medicina, per esempio, aveva compiuto passi enormi attraverso la pratica quotidiana proprio perché non vincolata da regole previste nei libri sacerdotali, come avveniva al contrario nell’Egitto dei faraoni.
A questo rapporto sinergico tra sperimentazione diretta (condotta affondando la lama nella carne di animali e cadaveri) e accumulo del sapere teorico Vegetti aveva dedicato il suo saggio significativamente intitolato Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), prodotto di un’approfondita ricerca sul pensiero scientifico ellenico condotta secondo l’indirizzo di uno dei suoi maestri, il filosofo marxista eretico Ludovico Geymonat, e proseguita poi in diverse altre opere. In seguito Vegetti aveva pubblicato il lavoro altrettanto importante L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e si era progressivamente caratterizzato come uno dei più acuti e validi studiosi di Platone a livello internazionale. Aveva curato una monumentale edizione commentata della Repubblica, opera più nota del filosofo greco, in sette volumi usciti tra il 1998 e il 2007 presso l’editore Bibliopolis. Ma aveva realizzato anche saggi rivolti a un pubblico di non specialisti come Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003), Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone (Laterza, 2007), Un paradigma in cielo (Carocci, 2009).
Su Platone, Vegetti si era confrontato con un altro accademico italiano di notevole prestigio, Giovanni Reale, scomparso nel 2014. Quest’ultimo riteneva che la «dottrina non scritta» del grande filosofo greco, di carattere metafisico, fosse l’autentico contenuto del suo insegnamento, mentre i Dialoghi ne sarebbero stati soltanto l’introduzione. Una lettura che non convinceva affatto Vegetti, secondo il quale andava viceversa riconosciuto il «pieno valore filosofico» dei testi platonici. In particolare il suo interesse era attirato dal problema della politica così come era stato affrontato dall’autore della Repubblica .
Da una parte Vegetti, affascinato dalle infinite sfaccettature dell’eredità di Platone, poneva l’accento sulla sua ineludibile polivalenza e sottolineava che quell’insegnamento trasmesso in forma dialogica, attraverso il confronto fra punti di vista differenti, «non può venire ridotto a un sistema univoco di significati». Dall’altra, apprezzava l’afflato ideale che percorre quelle medesime pagine, nelle quali la politica viene «pensata in grande», assegnandole «una capacità di orientamento della vita sociale nella sua complessità economica, militare, etica».
Uomo di sinistra, impegnato socialmente al fianco della moglie Silvia Vegetti Finzi (psicologa di primo piano e firma del «Corriere della Sera»), era consapevole di quanto spinoso sia il nodo della legittimità del potere, su cui si era soffermato con grande finezza di argomentazioni nel libro Chi comanda nella città (Carocci, 2017). Ma riteneva comunque che la politica avesse bisogno di uno slancio utopistico, dovesse nutrirsi di valori, per non diventare miope e conservatrice. E proprio per questo diffidava di Aristotele e della sua tendenza a «naturalizzare» le istituzioni umane storicamente determinate, che a suo avviso finiva per risolversi in una pericolosa giustificazione integrale dell’esistente. Ma certo non sottovalutava il pensatore di Stagira, al quale aveva dedicato il volume Incontro con Aristotele , firmato con Francesco Ademollo (Einaudi, 2016).
Va comunque aggiunto che Vegetti dissentiva da coloro che, ponendo al centro l’opera dei maestri più illustri, svalutano il successivo periodo ellenistico e la ancor più tarda fase imperiale, con la Grecia ormai sottomessa al dominio di Roma. Considerava l’ellenismo «fondamentale per l’etica, per la logica, in fondo anche per la fisica». E guardava con estremo interesse alla dialettica tra il pensiero classico e le nuove religioni di salvezza, in primo luogo il cristianesimo. Nella vasta Storia della filosofia antica da lui diretta con Franco Trabattoni (Carocci, 2016) Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. Per presentare quell’opera Vegetti aveva partecipato per «la Lettura» del «Corriere» (numero 228 del 10 aprile 2016) a un incontro con alcuni studenti, nel corso del quale aveva riaffermato la sua fiducia nella funzione civile della filosofia. Lo allarmava un dibattito pubblico ridotto a frastuono e a ingannevoli espedienti di marketing. Considerava più che mai urgente «mettere ordine nel modo di pensare».

Corriere 12.3.18
La sinistra europea preme per l’asse con M5S


Anche in Europa il puzzle per il prossimo governo italiano tiene banco. E diventa cruciale, oggetto di iniziative politiche: oggi sarà lanciato un appello trasversale per spingere un accordo tra dem e pentastellati. Un invito che potrebbe «pesare» sulla corsa di Luigi Di Maio verso Palazzo Chigi e, soprattutto, sarebbe finalizzato al desiderio di evitare una convergenza tra Lega e Movimento per la guida dell’Italia. All’iniziativa starebbe lavorando, secondo l’ Adnkronos , il vicepresidente dei Verdi, il francese Pascal Durand. Tuttavia in prima linea ci sarebbe anche Barbara Spinelli, nel gruppo Gue (Sinistra unitaria europea). L’appello dovrebbe raccogliere adesioni trasversali, dal Pse (anche se limitato a singoli europarlamentari) all’Alde (che bocciò l’ingresso nel loro gruppo dei pentastellati un anno fa). Un passo che, nelle intenzioni, — in caso di un alto numero di firme raccolte — dovrebbe incoraggiare i democratici a una riflessione in chiave governativa. Le sintonie tra i gruppi europei e i Cinque Stelle sono in crescita, come testimonia il voto che ha visto eleggere il grillino Fabio Massimo Castaldo alla vicepresidenza del Parlamento europeo. A novembre Castaldo ha superato l’altra candidata, la liberale tedesca Gesine Meissner, raccogliendo 325 voti su 563 votanti.

Il Fatto 12.3.18
La degenerazione della democrazia secondo Polibio
di Orazio Licandro


Tante e diverse sono state le analisi del voto per il Parlamento, e tra queste una meritevole di attenzione è stata quella di Gustavo Zagrebelsky. Il costituzionalista, rifiutando l’ombra del populismo, ha definito l’esito elettorale una rivolta contro l’oligarchia politica che ha così decretata la fine di un ciclo della democrazia. Il tema dei cicli delle forme di governo è assai antico e Zagrebelsky conosce bene la materia. Il più noto teorico fu Polibio, raffinato osservatore presso il circolo degli Scipioni, nel II secolo a.C. Nella visione di Polibio, la vita di uno Stato è segnata da un susseguirsi di forme di governo e dalle loro degenerazioni secondo un impianto meccanicistico. La monarchia tende a degenerare in tirannide, a questa segue un’aristocrazia a sua volta destinata a trasformarsi in oligarchia, solitamente abbattuta da sommovimenti popolari che instaurano una democrazia inevitabilmente condannata a divenire un’oclocrazia (Storie 6.4). Anche Cicerone, nelle convulsioni dell’ultimo secolo repubblicano, ha affrontato la materia nel De re publica, trattato di diritto costituzionale e di scienza della politica, senza risparmiare aspre critiche ai demagoghi che arringano con violenza verbale il popolo e lo manovrano a piacimento contro gli avversari politici. Probabilmente sia Polibio sia Cicerone avrebbero oggi scritto dei diversi populismi italiani di Renzi, di Grillo e di Salvini. Perché però oggi Zagrebelsky è così lontano dal suo Il crucifige e la democrazia, auspicio di una democrazia critica quale “regime inquieto, circospetto, diffidente nei suoi stessi riguardi sempre pronto a riconoscere i propri errori, a rimettersi in causa e a ricominciare da capo”?

Corriere 12.3.18
Sorpasso a destra nella Ue
In Europa i partiti identitari e sovranisti sono la seconda forza davanti ai socialisti
di Federico Fubini


Secondo le proprie idee, la si può chiamare in una miriade di modi diversi. «Destra nazionalista», oppure «sovranista», «radicale», «estrema» e «neo-fascista», «nazionalista», «sciovinista» e «anti-immigrati», «euroscettica» e «anti-europea» o «xenofoba», «popolare» o «populista». La stessa quantità di definizioni possibili dimostra quanto la politica europea sia oggi in uno stato di soqquadro simile a quello dei mercati finanziari pochi anni fa.
Ognuno sceglierà il termine che la propria cultura gli detta, ma un esame dei sondaggi e delle ultime elezioni dovrebbe mettere tutti d’accordo almeno su un punto: questa destra — nuova o vecchissima che essa sia — ha fatto il sorpasso. In un’Unione Europea nata dalle macerie del fascismo, le è incredibilmente riuscito di entrare nell’élite delle forze che condizionano il linguaggio e le scelte degli altri. Oggi la destra radicale è il secondo campo politico di forza in Europa, dietro solo al Partito popolare, avendo superato la (ex) grande famiglia socialdemocratica che per 70 anni nel dopoguerra era stata determinante per il contratto sociale, le istituzioni e gli equilibri politici del continente.
L a galassia nazionalista il sorpasso lo ha portato a termine in queste settimane con le elezioni in Italia, con l’evoluzione dei sondaggi in Germania e anche con la Brexit. Se si tenessero oggi le elezioni europee — anziché tra 15 mesi — la nebulosa di partiti che si richiamano ai valori della patria, a leadership personali forti, a politiche intransigenti contro l’immigrazione e i rifugiati, a volte con parole d’ordine di tipo etnico, prenderebbero poco più del 17% dei consensi. Le formazioni della famiglia socialista e democratica nella Ue (S&D, ex Pse) si fermerebbero sotto al 16%. Se le europee si tenessero oggi le destre sovraniste incasserebbero circa 30 milioni di voti anche se si astengono metà degli elettori. Lo scarto percentuale dei sovranisti sui progressisti sarebbe poi di quasi quattro punti in Europa senza il contributo di Spagna e Portogallo dove i sovranisti sono quasi assenti e i socialisti ancora forti.
Per fare il raffronto il Corriere ha messo a confronto i sondaggi e gli ultimi risultati elettorali, se recenti come in Italia o in Olanda. Questi valori sono stati pesati in proporzione all’importanza di ogni Paese in una Ue da 446 milioni di abitanti (senza la Gran Bretagna, che non parteciperà alle europee). Va detto che i due gruppi, progressisti e sovranisti, per certi aspetti sono disomogenei: i partiti di centrosinistra aderiscono alla stessa famiglia europea dei Socialisti e democratici, mentre la destra radicale ha varie differenze al proprio interno. Solo alcuni partiti, come Jobbik in Ungheria e Alba Dorata in Grecia, sono apertamente razzisti. Inoltre la destra sovranista all’Europarlamento non entra tutta nello stesso gruppo e dunque difficilmente costituirà la seconda delegazione più grande. L’ungherese Fidesz del premier Viktor Orbán per esempio fa parte del Ppe di Angela Merkel anche se è xenofoba e si trova al cuore di un sistema definito «democrazia illiberale» dal suo stesso premier. Invece altri partiti di destra radicale, dal Front National francese (da ieri Rassemblement National) alla tedesca Alternative für Deutschland, a Strasburgo siedono nel gruppo Europa delle Nazioni e delle Libertà (di cui è vicepresidente Matteo Salvini della Lega). Il fatto che quest’area di opinione abbia superato i progressisti avrà comunque conseguenze: in Polonia, Ungheria e Austria la destra-destra governa già, mentre in Germania, Olanda o Italia induce buona parte del sistema politico a inseguirla sui propri temi e conquista un’influenza che va oltre i voti.
Era forse inevitabile, visti alcuni sviluppi recenti. C’è stato il crollo dei socialisti in Francia, poi il declino del Pd in Italia e l’affermazione della Lega. In Germania intanto AfD è salita ancora nei sondaggi e ora tallona una declinante Spd. Conta poi anche che la Ue non voglia o non riesca a far rispettare i principi dello Stato liberale di diritto in Ungheria e Polonia. E con l’uscita del Labour Party britannico dalla Ue, il gruppo di S&D perderà quella che nel 2019 sarebbe stata la sua componente maggiore.
La politica europea sta cambiando volto. Quali sembianze assumerà, per adesso, è chiaro com’era lo sbocco della crisi finanziaria subito dopo il crollo di Lehman Brothers.

Il Fatto 12.3.18
Renzi lascia e perde pezzi. Ma il Pd è ancora cosa sua
Oggi il fiorentino si dimette ma fa dettare la linea a Orfini: “Mai con i 5Stelle”. Vuole Delrio segretario e niente primarie
di Carlo Di Foggia


A voler fare una sintesi brutale, la situazione è questa: il Pd ha un bisogno disperato di evitare fratture precoci al suo interno; non conviene alle minoranze e neanche a Matteo Renzi, a cui serve tempo per far nascere quella “cosa al di fuori del Pd” di cui si parla al Nazareno. Nessuna conta interna, quindi, non ancora. L’ormai uscente segretario diserterà oggi la prima direzione post disastro elettorale. Il renziano presidente Matteo Orfini leggerà la lettera con cui il fiorentino si dimette. La guerra è così sui tempi di una reggenza indispensabile, terreno perfetto per le correnti Pd, strane creature che danno il loro meglio quando si sfalda una dirigenza. Con una novità non da poco: chi ha perso controlla gran parte di un gruppo parlamentare balcanizzato.
Il partito si affida al vicesegretario Maurizio Martina, che oggi leggerà la relazione sulla disfatta di cui pure è stato artefice in tandem con Renzi. Lo statuto gli consegna il ruolo di reggente temporaneo. La direzione, 200 anime in ebollizione, convocherà per aprile l’assemblea nazionale. Il diktat renziano – gentilmente recapitato ieri da Orfini a In Mezz’ora (Rai3) – è che sia l’assise dei mille, che Renzi domina, a eleggere il nuovo segretario di transizione.
Niente primarie, dunque, sul modello di Guglielmo Epifani che traghettò il partito per un anno nel post Bersani. La guerra è, come detto, sui tempi, e a cascata sul nome. In molti, da Andrea Orlando a Michele Emiliano, vogliono che la direzione, e poi l’assemblea dettino anche i tempi per l’apertura della fase congressuale, magari in autunno o nel 2019 (altrimenti si può arrivare fino al 2021).
A Matteo Renzi, che perde pezzi tra dirigenti e fedeli, ma che controlla metà della direzione e il 60% dei parlamentari, serve tempo. I renziani, Orfini in testa, vogliono una transizione guidata da Graziano Delrio. Il ministro dei Trasporti per ora prende tempo, ben sapendo di non avere l’appoggio di Emiliano e soprattutto di Dario Franceschini, monumento equestre al tatticismo da corrente e azionista di peso nel partito, che spinge per Martina, considerato un traditore dai renziani ma che ha il nulla osta della minoranza. Poi ci sono quelli che – come Nicola Zingaretti – si candideranno solo alle primarie. Nel breve sembra invece probabile che il reggente Martina dia vita a una nuova segreteria “collettiva”, aperta a tutte le anime del partito in subbuglio. Per impedirlo i renziani sarebbero allo scontro in direzione e non sarebbe una grande idea visto che le minoranze (Orlando, Emiliano, Cuperlo) e le forze dei cosiddetti “governativi” (Franceschini, Gentiloni, Minniti) sommano a quasi metà del “parlamentino” dem.
La guerra per bande sui nomi ha poi il suo prologo nelle scelte, per così dire, di campo, visto che l’assemblea si terrà dopo l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, la nomina dei capigruppo e il primo round di consultazioni al Quirinale. Al momento c’è solo Emiliano a proporre un appoggio esterno ai 5Stelle. Una mossa in questa direzione sarebbe l’elezione di un esponente Pd alla presidenza della Camera con l’appoggio del M5s. Lo scenario peggiore per Renzi, al punto che ieri Orfini è stato costretto a chiudere subito all’ipotesi avanzata in mattinata da Emiliano: “Non ci sono le condizioni.
È legittimo e ragionevole che Lega e M5S si dividano le presidenze. Se il Pd desse l’appoggio a un governo 5Stelle sarebbe la sua fine”, ha spiegato il presidente del Pd. Poi l’affondo: “Non si dimette solo Renzi, ci consideriamo tutti dimissionari”. Eppure nel partito sono in pochi a crede all’uscita di scena del fiorentino. Secondo Emiliano “Renzi studia la rivincita. Ha fatto una legge elettorale dove vince chi arriva terzo in un sistema tripolare. Ha vinto in realtà e può determinare il governo”. È, forse, l’unica certezza nell’ultima pochade del Partito democratico: le minoranze possono sopravvivere a cinque anni di opposizione, il fiorentino e il sistema di potere che ha messo in piedi no.

Corriere 12.3.18
Oggi la direzione Intervista al leader dem
«Lascio, deciderà l’assemblea. Mai con gli estremisti»
«Tocca ad altri, opposizione»
Renzi: ho visto la piaggeria e la viltà, arriverà la rivincita, resto nel Pd
intervista di Aldo Cazzullo


«Il mio ciclo alla guida del Pd si è chiuso. Lascio, sul mio successore deciderà l’assemblea. No a governi istituzionali, nessuna collaborazione possibile con i 5 Stelle o con le destre». Così Matteo Renzi al Corriere della Sera a poche ore dalla direzione del partito. «Occorre ripartire da zero, dall’opposizione. Tocca ad altri. Ho visto piaggeria e viltà, arriverà la rivincita. Non faccio nuovi partiti, resto nel Pd». Renzi non salirà al Quirinale.  
Renzi, e ora? Si ricandiderà alle primarie?
«Il mio ciclo alla guida del Pd si è chiuso. Sono stati 4 anni difficili ma belli. Abbiamo fatto uscire l’Italia dalla crisi. Quando finirà la campagna di odio tanti riconosceranno i risultati. Ma la sconfitta impone di voltare pagina. Tocca ad altri. Io darò una mano: noi non siamo quelli che non scendono dal carro, semplicemente perché il carro lo hanno sempre spinto. Continuerò a farlo con il sorriso: non ho rimpianti, non ho rancori».
Cos’è accaduto nel Paese? Lei nel 2014 prese 11 milioni e 200 mila voti; ora poco più di sei milioni. Come se lo spiega?
«Di più: siamo passati da 13 milioni di voti del referendum ai 6 milioni di domenica scorsa. Abbiamo dimezzato i voti assoluti rispetto a quindici mesi fa. Allora eravamo chiari nella proposta e nelle idee. Stavolta — e mi prendo la responsabilità — la linea era confusa, né carne né pesce: così prudenti e moderati da sembrare timidi e rinunciatari. Dopo un dibattito interno logorante, alcuni nostri candidati non hanno neanche proposto il voto sul simbolo del Pd, ma solo sulla loro persona».
Qualcuno si è tirato indietro?
«Lei conosce qualcuno che entra in un negozio se persino il commesso dice che la merce in vendita non è granché? Poi ci sono ragioni più profonde. Internazionali: ha letto cosa dice Bannon, il primo ideologo di Trump, sull’Italia capitale del populismo? E nazionali, a cominciare dal disastro nel Sud. Ci attende una lunga traversata nel deserto. Ma ripartire da zero, dall’opposizione, può essere una grande occasione. La politica è fatta di veloci cambi. La sconfitta è una battuta d’arresto netta, ma non è la fine di tutto. Cinque anni fa Pd e 5 Stelle finirono 25 pari. Alle Europee è finita 40-20 per noi. Adesso 32-18 per loro. La ruota gira, la rivincita verrà prima del previsto».
Pensa davvero che se si fosse votato quando l’ha fatto la Francia, a maggio, o la Germania, a settembre, sarebbe cambiato qualcosa?
«Sì, perché sarebbe cambiata l’agenda politica. L’agenda sarebbe stata l’Europa, non altro. Come è stato per Macron o per Merkel. E prima ancora come è stato in Olanda per Rutte. Sull’Europa non avrebbero vinto le forze sovraniste. Ma poiché avevo visto per tempo questo rischio e l’ho illustrato più volte invano, mi sento io il responsabile delle mancate elezioni anticipate. Nessuna polemica con nessuno».
Siamo sicuri che le sue dimissioni siano vere? Come si eleggerà il nuovo segretario, con primarie o in assemblea? Chi sarà? Martina, Delrio? Zingaretti, Calenda?
«Le mie dimissioni non sono un fake. Ho seguito le indicazioni dello Statuto e dunque sul nuovo segretario deciderà l’assemblea. Rispetteremo la volontà di quel con-sesso. Sui nomi non mi esprimo; anche perché sono tutte persone con cui ho lavorato per anni. Io non parlo male di loro; li rispetto, li difendo. E se qualcuno ha cambiato idea su di me, è libero di farlo. Vedo in giro qualche fenomeno spiegare che abbiamo sbagliato tutto; però non riescono a dirci perché, nelle regioni che governano loro, il Pd è andato peggio della media».
Le consultazioni chi le farà? Lei salirà al Quirinale?
«No. Nelle ultime consultazioni il Pd ha sempre mandato al Quirinale i due capigruppo, il presidente e il reggente. Non vedo motivi per cambiare delegazione».
È vero che è rimasto solo al partito e che sono tutti contro di lei e il Giglio magico? Si sente isolato? Vede casi di ingratitudine?
«Chi dice questo vive in una realtà parallela. Mai come in queste ore il Pd riceve email e richieste di iscrizione. Nel popolo Pd la stragrande maggioranza sta sulla nostra linea: nessuno vuole fare l’accordo con gli estremisti. Altro che Giglio magico isolato. Qualche dirigente medita il trasformismo? Forse. Del resto la viltà di oggi fa il paio con la piaggeria di ieri. E se per caso in futuro dovessimo tornare, sarebbe accompagnata dall’opportunismo di domani. I mediocri fanno sempre così: hanno scarsa fantasia, i mediocri. Ma il nodo non è il dibattito interno. Capisco sia importante il nome del nuovo segretario; ma è più importante il nome del nuovo premier. Tutti parlano di noi, nessuno parla della crisi istituzionale in cui ci troviamo».
Parliamone. Sarà difficile sbloccarla se il Pd si chiama fuori.
«E che c’entra il Pd, scusi? Ci sono due vincitori ma non c’è maggioranza. Qualcuno ammetterà che con il No al referendum è difficile dare un governo stabile al Paese? Scommetto che tra qualche mese il tema della riforma costituzionale tornerà centrale. Forse qualche settimana».
Molte personalità della sinistra vi sollecitano un dialo go con i 5 Stelle. Perché rifiutare? E se Di Maio indicasse per Palazzo Chigi una personalità a voi non ostile?
«Non esiste governo guidato dai 5 Stelle che possa ottenere il via libera del Pd. Non è un problema di odio che i grillini hanno seminato. E non è solo un problema di matematica, visto che i numeri non ci sono o sarebbero risicatissimi. I grillini sono un’esperienza politica radicalmente diversa da noi. Lo sono sui valori, sulla democrazia interna, sui vaccini, sull’Europa, sul concetto di lavoro e assistenzialismo, di giustizia e giustizialismo. Abbiamo detto che non avremmo mai fatto il governo con gli estremisti, e per noi sono estremisti sia i 5 Stelle che la Lega. L’unico modo che hanno per fare un governo è mettersi insieme, se vogliono».
Crede davvero che Di Maio e Salvini potrebbero allearsi?
«Hanno il diritto e forse il dovere di provarci. I sovranisti hanno lo stesso programma su vaccini, Europa, immigrazione, burocrazia, tasse. Facciano il loro governo, se ci riescono. Altrimenti dichiarino il loro fallimento. Noi non faremo da stampella a nessuno e staremo dove ci hanno messo i cittadini: all’opposizione».
Una possibilità sarebbe far nascere con l’astensione un governo di centrodestra guidato da una figura meno estremista di Salvini. O no?
«No».
Il richiamo di Mattarella e Draghi al senso di responsabilità potrebbero portarvi a fare un governo di unità nazionale?
«Noi purtroppo siamo il quarto gruppo parlamentare, non più il primo: gli appelli alla responsabilità sono sempre utili, ma si rivolgono soprattutto ai gruppi più grandi. La palla oggi è in mano alle destre e ai 5 Stelle. Vediamo se e come sapranno giocarla».
Le elezioni anticipate sono un’opzione?
«Secondo me nessuno dei due schieramenti vincenti vuole tornare a votare. Prenderebbero la metà dei parlamentari che hanno adesso. Leghisti e grillini sono i più convinti che questa legislatura debba durare 5 anni. Umanamente comprensibile, sia chiaro».
Gli scissionisti ora potrebbero rientrare nel Pd?
«Lei si rende conto che per mesi abbiamo parlato solo degli scissionisti, e loro hanno preso meno consensi che Vendola 5 anni fa o Bertinotti 10 anni fa? Hanno avuto più articoli sui giornali che voti nei seggi. E ne parliamo ancora?».
Rimpiange di essere andato a Palazzo Chigi senza passare dalle elezioni? E di non essersi ritirato dalla politica dopo il referendum?
«Non ho rimpianti. Penso che abbiamo fatto bene a fare l’operazione-Palazzo Chigi nel 2014; altrimenti lo tsunami populista sarebbe arrivato con le Europee anziché con le politiche. Oggi il Paese può reggere anche mesi di discussioni tra Di Maio e Salvini, perché l’economia sta molto meglio. Ha visto quelli che in queste ore fanno la fila per avere il reddito di cittadinanza ai Caf? Ci sono anche quelli che si chiedono quanto tempo impiegherà Salvini a cancellare la Fornero o fermare quella che lui ha demagogicamente chiamato l’invasione o fare la tassa unica al 15%. Sono cittadini che chiedono ai leader di rispettare le promesse delle elezioni. Bene. Erano proposte irrealizzabili, ma adesso saranno loro a doverci mettere la faccia».
E lei ora cosa farà?
«Il senatore. Sono tra i pochi nel Pd ad aver vinto nel proprio collegio. Chi mi conosce davvero non ha di me un’immagine sporcata dalle polemiche. La mia gente sa chi sono; intendo onorare il loro affetto».
Il senatore di Scandicci, Signa, Lastra a Signa e Impruneta? Non ci crede nessuno.
«Fare il senatore della mia terra sarà un grande onore. E io a 43 anni se mi guardo indietro devo solo dire grazie. Perché abbiamo fatto tante cose. Abbiamo anche sbagliato, certo. Ma meglio vivere che vivacchiare, meglio sbagliare talvolta che rimandare sempre. Quanto al futuro, chi ha corso una maratona sa che è importante avere la gamba giusta e il fiato; ma che soprattutto serve la testa. Ci attende una maratona: prendiamola con il passo giusto. Abbiamo gambe, fiato e testa. Ho guidato per 5 anni la mia città, per mille giorni il mio Paese. Ho portato il mio partito a essere il più votato in Europa e grazie a questo risultato abbiamo vinto la battaglia della flessibilità a Bruxelles. Adesso si apre una pagina nuova».
Potrebbe fondare un suo partito?
«Di partiti in Italia ce ne sono anche troppi. Io sto nel Pd in mezzo alla mia gente. Me ne vado dalla segreteria, non dal partito».

Repubblica 12.3.18
L’evidenza di una vittoria mutilata
Se il M5S vuole davvero dialogare scelga la via della politica con un congresso (o come lo si vuol chiamare) alla luce del sole
di Ezio Mauro


Ha ragione Eugenio Scalfari quando dice che una soluzione di governo per il dopo-voto non c’è, e ha ragione Michele Serra quando dice che un residuo di orgoglio impedisce al Pd di accettare il dialogo proposto dai grillini, dopo che cinque anni fa il movimento sbeffeggiò la proposta di Bersani, irridendo in streaming l’apertura della sinistra.
Ma in realtà c’è qualcosa di più del risultato elettorale e anche dell’orgoglio. Perché, come si diceva una volta - e mi scuso per il lessico inattuale - la questione è politica, totalmente politica.
Non c’è alcun dubbio che il M5S abbia vinto, insieme con Salvini se riesce a completare l’opa estremistica sull’intera destra che fu berlusconiana.
Se è chiara la vittoria, è simmetricamente nitida la sconfitta: il Pd ha perso nettamente, anche perché governava il Paese ed è stato spodestato dopo che le minoranze grilline e leghiste avevano condotto una campagna molto forte proprio contro la sinistra riformista e i suoi leader, accusandoli di ogni infamia.
La prima conseguenza è che così come i vincitori rivendicano per sé il diritto di governare, gli sconfitti hanno il dovere di andare all’opposizione.
continua a pagina 25 ?
? segue dalla prima pagina È un dovere nei confronti del Paese, che così ha scelto, decidendo col voto chi premiare e chi punire; ma è un dovere anche nei confronti di se stessi, per provare a capire le cause del tracollo elettorale, correggere gli errori, ritrovare un’anima e produrre una leadership conseguente.
Per fare questo occorre prima di tutto ricentrare la propria identità, che può solo essere quella di una sinistra di governo consapevole della sua storia e finalmente moderna, occidentale, europea, che sappia farsi carico dei cittadini perduti, mettendo al centro (insieme con i diritti e la sicurezza) il lavoro come strumento di crescita, di sviluppo, di ricchezza ma anche e soprattutto di emancipazione, inclusione, dignità recuperata. È l’unico modo per trasmettere un segno di riconoscimento a quanti hanno votato a sinistra nel disastro, confermandoli nei valori, e a quanti se ne sono andati verso l’astensione o verso Grillo, recuperandoli nel cambiamento: inseguendo gli elettori propri, non i partiti altrui.
C’è il problema che i vincitori non hanno i voti per governare. Si potrebbe rispondere come fecero Grillo e Di Maio cinque anni fa: affari vostri. Ma le ripicche non producono politica e non danno risultati, come hanno imparato gli scissionisti del Pd. Guardiamo dunque politicamente quel che accade. La Lega chiede al Pd i voti che le mancano, per governare in nome di un’identità di destra estrema, xenofoba, lepenista, antieuropea: una contraddizione in termini, talmente incompatibile con qualsiasi sinistra di ieri, oggi e domani da non permettere neppure l’apertura di un confronto.
Per i grillini c’è una questione in più. Dalla loro comparsa hanno sempre messo in campo una pratica della diffidenza basata su una teoria della differenza che li ha portati a predicare l’autosufficienza e a proclamare una radicale estraneità rispetto al sistema politico e agli altri partiti costituzionali. Una differenza quasi antropologica, addirittura ideologica, che si rifiutava di distinguere tra destra e sinistra, metteva tutti nel sacco del sistema marcio da distruggere e usava come unico strumento di comunicazione politica il grido rivolto da Grillo agli altri partiti rappresentati in parlamento: «Arrendetevi».
Oggi sono i grillini vittoriosi ad arrendersi all’evidenza di una vittoria mutilata, perché i voti non bastano per governare. Ma questa insufficienza è frutto di un’incapacità-impossibilità a coalizionare che è stata teorizzata fin dalla nascita del movimento e praticata fino a ieri. È esattamente figlia di una politica che è diventata una cultura perché sta nella natura genetica del movimento: non confrontarsi per non contaminarsi, non collegarsi per non compromettersi, non confondersi per distinguersi.
Siamo al nodo del problema. Il M5S oggi, rigirandosi in mano una vittoria netta ma senza governo, tocca il suo limite, auto- imposto per scelta e per distinzione: una specie di “ impotentia coeundi” politica, una inattitudine naturale che diventa inabilità istituzionale a produrre maggioranze nel libero confronto dei parlamenti. Dove si è deciso che a differenza dei comizi in piazza non c’è una sola Verità con la maiuscola, ma le diverse verità si contrastano e si combinano nella costruzione delle alleanze alla ricerca di maggioranze, sotto gli occhi di tutti, nella scena pubblica delle Camere.
Voglio dire che il bozzolo impermeabile dell’autosufficienza funziona all’opposizione quando si gioca da soli a guardie e ladri, decidendo i ruoli. Ma quando si arriva sulla soglia del governo si scopre che le guardie non bastano a se stesse, devono chiedere aiuto, e di colpo i presunti ladri di ieri diventano oggi arruolabili.
Tutto questo senza altra spiegazione che la vittoria: che da sola conta molto, cambia tutto, ma non può spiegare qualsiasi cosa. Perché naturalmente un partito, e persino un movimento, ha diritto di mutare linea nei diversi passaggi di fase. Ma deve spiegarlo, perché altrimenti si cambia soltanto colore per opportunismo, come fanno i partiti- camaleonte.
Se i grillini vogliono davvero dialogare, devono dire perché scelgono la sinistra, cosa significa questa scelta, che riflessi ha sulla loro natura e sulla loro politica, perché ci sono arrivati e per fare che cosa. Devono convenire che in democrazia non esiste la verità in un solo partito. Devono rompere il fascio in cui hanno chiuso tutti gli altri partiti in attesa del rogo purificatore. Devono scegliere, imparando l’arte libera e democratica della distinzione.
Si chiama politica, si chiama trasparenza. La democrazia ha inventato anche gli strumenti per fare questa pubblica assunzione di responsabilità e dare intelleggibilità e dignità ad una svolta politica e culturale, se tale è: primo fra tutti un congresso ( o come lo si vuol chiamare) che si svolga alla luce del sole, dove il verbo del fondatore si confronti con le diverse anime del partito, e il capo politico indichi la linea in pubblico, non nei meandri informatici e proprietari della Casaleggio e associati.
Prima che il carro dei vincitori parta, i nuovi cantori dicono già che i grillini stanno cambiando pelle. Perché non sia una semplice muta stagionale, discutano in pubblico della loro natura, che sta sotto la pelle. La politica seguirà.

Corriere 12.3.18
Ci sarà un motivo per la sconfitta, no?
di Pierluigi Battista


E adesso, passata una settimana di depressione luttuosa, si può ricominciare a pensare, persino a studiare. Dopo aver vituperato il popolo rozzo e ingrato. Dopo averlo coperto di improperi. Dopo aver sottolineato la propria indiscussa superiorità morale e antropologica sul popolo bruto e beota che si è permesso di ripudiarti con una certa corale sbrigatività. Dopo aver deplorato la mancanza di eleganza dei nuovi sanculotti che non ti stanno più a sentire. Dopo aver tuittato furiosamente contro il popolo tuittatore . Dopo aver mugugnato sui social sulla strapotenza dei social in un’epoca in cui il popolaccio si è messo alla tastiera e non vota più le avanguardie del pensiero. Dopo aver inveito contro la pancia del Paese, perché la pancia sono sempre gli altri e tu sei il cervello misconosciuto dalla volgarità dei più. Dopo aver indicato nei bassi istinti, nelle spregevoli pulsioni, nell’irrazionale e puerile rabbia la forza di chi ti è alieno mentre tu incarnavi per decreto il voto razionale, saggio, pensoso sugli interessi generali di un Paese panciuto che ha pure la sfrontatezza di voltarti le spalle, dopo tutto questo ora magari sarebbe il caso di capire cosa accade nel mondo, attrezzarsi di pazienza, magari addirittura, dopo aver studiato finalmente cose utili, mettere il naso fuori dai nostri appartamenti.
Ora, dopo il rituale e snervante piagnisteo sulla nequizia dei tempi, come gli aristocratici monarchici incartapecoriti che in «Anni difficili» di Dino Risi imprecavano contro il popolaccio che aveva appena votato per la Repubblica (il paragone è con gli aristocratici, non con la Repubblica scelta), è arrivato il momento di capire il perché e, come si fa nelle democrazie, attrezzarsi per andar meglio la prossima volta. Ora, dopo aver rimproverato, bacchettato, deplorato, redarguito, addirittura gli intellettuali potrebbero sfogliare qualche libro che magari è capace di andare più in profondità delle cose dette nelle conferenze stampa. Dopo aver metabolizzato la sconfitta, si può anche immaginare di rialzarsi un giorno di questi, a meno di non voler continuare nell’imprecazione malmostosa e patetica contro quello che accade e che accadendo tende a escluderti. Come quelli che insultano chi, amato, si ostina a non amarti. E ci sarà pure un perché, no ?

Corriere 12.3.18
Perché io dico che È meglio Tornare subito alle urne
di Ernesto Galli della Loggia


Più che in ogni altra occasione le righe che seguono esprimono un’opinione del tutto personale. Che è la seguente: nella situazione politica creata dai risultati elettorali del 4 marzo la cosa migliore da farsi è quella di andare in tempi brevi di nuovo alle urne. Lo consigliano a mio avviso i numeri, il loro significato, la situazione generale del Paese. E direi anche qualcos’altro: il buon senso.
Certo, le combinazioni possibili sono molte giocando con i numeri sul pallottoliere. Da un governo Pd-Forza Italia con l’astensione della Lega e dei 5 Stelle o di uno solo dei due, a un governo 5 Stelle- Lega, a una coalizione tra i 5 Stelle e il Pd astenuto o alleato: e di sicuro ne ho dimenticato almeno un altro paio o di più. Ma mi chiedo: è forse qualcosa del genere che l’elettorato ha chiesto con il suo voto? Un governo Franceschini–Di Maio? Un ministero Renzi-Brunetta o Salvini-Di Battista? Sarebbe bene, credo, non tirare troppo la corda: anche con la proporzionale, anche con le liste degli eletti prefabbricate dai partiti e i candidati paracadutati, considerare gli elettori come un semplice parco buoi non è consigliabile. C’è un limite a tutto. Se si supera il quale diviene concreto il rischio che nasca nell’opinione pubblica un movimento dirompente di rifiuto e di disprezzo per le istituzioni dagli esiti imprevedibili. Il presidente Mattarella ha ragione: va tenuto presente innanzi tutto l’interesse generale del Paese, ma tale interesse non è forse rappresentato innanzi tutto dalla democrazia, dalla sovranità popolare, dalla convinzione da parte dei cittadini del suo indiscutibile primato al di là delle più improbabili intese e combinazioni?
Si dice: «Va bene, si formi allora un governo che faccia poche cose, una nuova legge elettorale, e poi al voto». Ma vorrei sapere: quali cose di preciso? Nessuno, mi pare, ne ha la minima idea né alcuno si azzarda a dire perché mai su quelle «poche cose» dovrebbe trovarsi miracolosamente un qualche accordo tra forze così diverse. E quanto a una mitica «nuova legge elettorale», mi chiedo non solo perché mai 5 Stelle e Lega, che con quella in vigore hanno ottenuto risultati così favorevoli, dovrebbero essere indotti a cambiarla; ma soprattutto come è pensabile che forze politicamente eterogenee, anche molto eterogenee, si trovino poi d’accordo su una nuova legge elettorale, cioè su una tra le cose più intrinsecamente politiche che esistano .
Piaccia o non piaccia, il significato del voto, la direzione che esso indica, sono chiarissimi: un rinnovamento radicale del quadro e del personale politico. Il problema è che dal numero dei voti risulta incerto il segno politico da dare a questo rinnovamento — se un segno di riequilibrio a dominante egualitaria di tono meridional-statalista (Movimento 5 Stelle), ovvero di svolta securitaria di tono nazional-antieuropeo (coalizione di centrodestra egemonizzata dalla Lega) — dal momento che come è arcinoto i numeri premiano queste due formazioni ma a nessuna delle due danno la forza necessaria per governare. Che cosa c’è allora di più ovvio, mi chiedo, di più ragionevole, di più democraticamente coerente, del mandarle di nuovo di fronte al corpo elettorale perché tra le due ipotesi questo si pronunci in via definitiva?
Mi sembra già di sentire l’obiezione: e se dalla nuova consultazione da qui a tre mesi una tale pronuncia definitiva non venisse? Ebbene: allora sì che sarebbe inevitabile dare il via a un tortuoso e spossante itinerario volto alla ricerca di qualche soluzione di ripiego, di una maggioranza purchessia. Ma farlo oggi — a parte le debolissime probabilità di successo di un simile tentativo — sarebbe assai probabilmente inteso — e proprio da quella parte dell’opinione pubblica che ha vinto le elezioni — solo come un modo da parte dei poteri tradizionali di salvare il proprio ruolo, di sopravvivere al naufragio dei propri referen-ti.
Quando parlo di poteri tradizionali non mi riferisco alle dirigenze di partito quanto soprattutto a quelle rancide élite burocratiche, professionali e intellettuali, a quei soliti nomi — annidati nei piani alti e altissimi delle istituzioni, abituati da decenni a gestire di fatto una rilevantissima parte dell’attività di governo attraverso le «consulenze», i gabinetti ministeriali, le Agenzie, le reti di relazioni, la Rai, i vertici delle aziende pubbliche, le istituzioni culturali, gli enti di ogni tipo — contro i quali il voto di domenica è stata un’indubbia clamorosa ancorché sgangherata espressione.
Naturalmente non mi nascondo che per un grottesco paradosso tipico della proporzionale il partito da cui oggi soprattutto dipende che cosa fare è il partito che ha perso rovinosamente le elezioni, cioè proprio il Partito democratico. A proposito del quale si parla molto — a ragione — della necessità che nelle sua fila (e dove altro se no?) inizi un processo di ripensamento/ricostruzione della sinistra. Bene: ma è davvero pensabile che ciò potrebbe avvenire se per avventura esso s’impegnasse in qualche forma di collaborazione (sia pure «dall’esterno») con i 5 Stelle, come qualcuno vorrebbe? È realistico credere che nel Pd qualcuno avrebbe mai la testa ai problemi, alla storia e ai destini della sinistra, che ci potrebbe mai essere l’esame o la discussione approfondita intorno a qualcosa, nel mentre che però ogni giorno al suo interno nascerebbero inevitabilmente dubbi e polemiche sui modi e i risultati della collaborazione di cui sopra, nel mentre che però ogni giorno ci si dividerebbe tra «governisti» e «antigovernisti», ci si accapiglierebbe sul che cosa fare l’indomani?
Nelle situazioni d’incertezza e di crisi è necessario decidere. Oggi l’Italia ha davanti a sé due strade: o quella di aspettare, vedere, mediare, tentare un «governo di scopo», poi un altro «del presidente», e poi ancora chissà che altro; oppure andare a votare fra tre mesi. Solo votando si può sperare, almeno sperare, di decidere qualcosa .

Repubblica 12.2.18
L’analisi di Demos
Nord e Sud sempre più lontani c’era una volta la zona “rossa”
Il voto disegna due Italie differenti. Sotto assedio il Centro, un tempo monopolio della sinistra Ma i popoli di Di Maio e Salvini, diversi per età, lavoro e paure, sono incompatibili
La mappa politica è cambiata a fondo dopo che la Lega ha conquistato 57 collegi e i pentastellati 143
di Ilvo Diamanti


Il risultato delle elezioni politiche del 4 marzo ha sorpreso gli osservatori e gli stessi protagonisti politici.
Ma, in effetti, non può essere ritenuto così sorprendente.
Anzitutto perché la “sorpresa”, cioè, i “cambiamenti” sono divenuti una “costante”, negli ultimi 5 anni. In particolare, dalle elezioni del 2013. Quando alcune “novità” osservate in questa occasione si erano già manifestate. In particolare, l’affermazione del M5S e il risultato del Pd. Al di sotto delle attese. Diverso il discorso per il centrodestra. Perché la differenza (peraltro significativa) - rispetto alle previsioni - riguarda il peso dei partiti che ne fanno parte. La Lega, infatti, è andata molto oltre le stime attribuite. E, diversamente dalle stime dei sondaggi e, ancor più, dalle precedenti elezioni, ha scavalcato nettamente Forza Italia.
Comunque, allora avevamo parlato di tre “minoranze in-comunicanti”.
Tuttavia, la mappa politica dell’Italia disegnata dal voto del 4 marzo appare molto diversa dal passato. E da quanto si era immaginato. In base ai sondaggi e alle analisi degli ultimi mesi.
Un’Italia Gialloblù, ho scritto all’indomani del risultato, facendo riferimento ai colori dei due soggetti politici. Ma forse sarebbe più corretto, comunque, parlare di un Paese Gialloverde, visto il peso assunto dalla Lega.
Primo partito in 57 collegi uninominali, che colorano l’intero Nord. Dal Piemonte al Nord-Est, passando per la Lombardia. Il M5s, invece, prevale in 143 collegi, che colorano l’Italia di giallo. Dal Centro all’intero Sud. Isole comprese. Il colore del M5s, peraltro, si insinua anche fra le pieghe delle “altre Italie”. Nel Centro-Nord, dove un tempo si stendeva la Zona Rossa. Ormai neppure più Rosa, come spiegano in queste pagine Bordignon e Ceccarini. Piuttosto: E-rosa. Ciò contribuisce a correggere l’immagine di un’Italia “in-colore”. Senza più colori precisi a caratterizzare le zone geo-politiche del Paese. Vista la distribuzione “nazionale” del voto al M5S, nel 2013. Ma anche del Pd di Renzi, il PdR, alle elezioni Europee del 2014. Infatti, anche questa volta, il M5s ha ottenuto un risultato rilevante in tutta Italia.
Ma in modo meno omogeneo rispetto al passato recente. Nei collegi del Nord appare sostanzialmente stabile e nel Nord-Est perfino in lievissima flessione. Mentre nel Mezzogiorno, si dilata e, talora, dilaga. Dovunque. In particolare, in Campania, nelle Puglie. Ma si impone anche in ampie zone della Sicilia e in Sardegna. Soprattutto nel Nuorese.
La Lega, invece, ha rafforzato la propria base nel Nord-Est, come si è detto. Inoltre, ha allargato la propria presenza in altre aree del Paese. Soprattutto alla confluenza tra Liguria e Toscana. In particolare, è penetrata nei collegi del Centro-Nord, un tempo, anzi: fino a poco tempo fa, saldamente “rossi”. Il territorio della Sinistra, così, appare quasi assediato. E penetrato, all’interno. Da soggetti politici “populisti”.
Si disegna e si rafforza l’immagine di una “popolocrazia” (titolo di un testo che ho appena pubblicato con Marc Lazar, per Laterza – mi si perdoni l’autocitazione). Una democrazia che assume i colori, i linguaggi, le logiche dettati dal populismo e dai suoi attori.
D’altronde, la base elettorale dei due partiti presenta orientamenti comuni e, per molti versi, speculari. Un basso grado di fiducia verso lo Stato e la Ue.
Inoltre, un maggior grado di sfiducia verso il futuro. Il Gialloverde, in altri termini, colora il distacco dai governi e dalle istituzioni, nazionali ed europee. Ma anche l’inquietudine e il dis-orientamento. Espressi da ampie componenti sociali, che si sentono periferiche, rispetto ai centri del potere politico ed economico. Ma anche rispetto alla distribuzione del reddito, ai sistemi di protezione e alle garanzie sociali.
Tuttavia, altri aspetti differenziano e dividono questi due “popoli”. Il “popolo pentastellato” dell’Italia Gialla è sparso lungo lo spazio politico, da Destra a Sinistra. Ma appare fortemente addensato al Centro.
Fra gli italiani (politicamente) “medi”, che coltivano sfiducia e insoddisfazione. Ciò avviene soprattutto nel Mezzogiorno.
Dove le condizioni economiche e di vita sono sicuramente più precarie. Peraltro, nell’Italia Gialla, il peso dei disoccupati è largamente superiore alla media.
Come la presenza dei giovani (18-29 anni) e dei giovani-adulti (30-44 anni). Generazioni costrette a misurarsi con un futuro incerto e un presente certamente difficile.
Gli elettori della Lega, invece, sono chiaramente schierati a Destra. Rispetto alla media della popolazione, mostrano un’incidenza più elevata fra gli operai e i ceti medi del settore privato. Manifestano, inoltre, una forte insofferenza verso gli immigrati e gli stranieri.
Si tratta, evidentemente, di due “popoli”. Difficilmente “componibili”. Perfino “compatibili”. Perché riassumono generazioni, categorie professionali, paure: diverse.
Sottolineate e condizionate dalla geografia. Il Sud e il Nord. Non più tre, ma due Italie, al tempo stesso, distinte e distanti. Altrettanto decise, però, a manifestare e a esprimere le loro posizioni. Le loro op-posizioni e i loro interessi. Prive, peraltro, di mediazione, visto il declino dell’Italia di Mezzo. Non è chiaro, per questo, come sia possibile tenerle insieme. Non tanto per formare un governo, una maggioranza. Ma per “tenere insieme” l’Italia.

La Stampa 12.3.18
Di Maio cerca sponde vaticane per fare un esecutivo moderato
I grillini convinti che Oltretevere non vogliano un’alleanza organica tra M5S e Lega, e giudicano come una conferma l’editoriale di Avvenire


Roma Luigi Di Maio preferisce Alcide De Gasperi a Steve Bannon. E si affretta a precisarlo dopo l’intervista a La Stampa in cui il demiurgo nazional-populista di Donald Trump si augura un governo Salvini-Di Maio, anche se preferisce il leghista alle politiche assistenzialiste del secondo. Ma Di Maio deve anche correre ad accreditarsi come il referente principale del messaggio del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, che sabato ha chiesto al futuro governo di occuparsi della povera gente e di attuare quello che «nella dottrina sociale della Chiesa chiamiamo bene comune». Di mattina Di Maio è già sui social con una risposta che svela anche la ricerca di alleati forti extrapolitici per arrivare al governo. Cita esplicitamente De Gasperi («Politica vuol dire realizzare») e, senza menzionarne il nome, Bassetti, quando accoglie il suo richiamo alla dottrina sociale della Chiesa e al «bene comune che è ciò che noi abbiamo chiamato “interesse dei cittadini”». Reddito di cittadinanza, eliminazione della povertà e un welfare familiare per far ripartire le nascite. Un ricettario che guarda indubbiamente Oltretevere, dove il grillino sta cercando sponde importanti, e dove sa che, a differenza di Bannon, non è così gradita la prospettiva di un governo Lega-M5S. I canali di confronto tra i grillini e gli ambasciatori del Vaticano negli ultimi giorni sono stati molto attivi. I rapporti, raccontano, sono ottimi, rifioriti dopo il colloquio a Washington, lo scorso novembre, tra Di Maio e il segretario di Stato Pietro Parolin. Quel viaggio è uno snodo cruciale nella storia del M5S. Da quel momento il capo politico si fa vedere di più in Vaticano e quasi scompare dall’agenda mediatica dei 5 Stelle la lotta all’immigrazione irregolare. L’argomento è essenziale per capire il dialogo tra le gerarchie ecclesiastiche e il grillino. All’indomani del voto, il 6 marzo, l’unica voce dal Vaticano è quella del numero due di Papa Francesco, il cardinale Parolin: «La Santa Sede sa che deve lavorare nelle condizioni che si presentano. Noi non possiamo avere quelle che vorremmo, quindi, anche in questa situazione, continueremo la nostra opera di educazione, che richiede molto tempo» per passare ad un atteggiamento più positivo nei confronti dei migranti, perché migrazione non sia «sinonimo di pericolo o di emergenza». Il giorno dopo il voto suona come un commento alle ingarbugliate elezioni italiane, dove c’è una coalizione vincente guidata da un leader, Salvini, che ha vinto proprio investendo sul pericolo dei migranti. E dove c’è un movimento, arrivato primo, incerto tra le tentazioni populiste e la Chiesa che guarda all’accoglienza e non ai respingimenti. Le condizioni di cui parla Parolin sono queste e su queste bisogna lavorare di persuasione per evitare che il governo italiano sbarri la porta europea del Mediterraneo. Cinque giorni dopo, ieri, è papa Francesco a ribadire il concetto durante la visita alla Comunità di Sant’Egidio, a mettere in guardia dal contagio xenofobo. E siccome nelle sfere del cattolicesimo militante italiano nulla si muove a caso, non è una coincidenza che sia il giornale dei vescovi italiani, Avvenire, con un editoriale del direttore Marco Tarquinio a evocare un «governo di tregua», ma «non con una Grande Intesa a forte connotazione politica che solo uno spettacolare colpo di scena, tipo un accordo Di Maio – Salvini, potrebbe propiziare». Una formula che dà ragione alle convinzioni del M5S sui timori vaticani di un’alleanza con la Lega.
Un dialogo, quello tra M5s e Vaticano, che potrebbe aiutare Di Maio anche a stemperare le pregiudiziali Pd o almeno di una sua parte. Oggi l’attenzione dei cinquestelle sarà massima sulla piega che prenderà la prima Direzione post-Renzi. 

Repubblica 12.3.18
Salvini-Di Maio il governo impossibile
di Stefano Folli


Diceva Ennio Flaiano che in Italia non si possono fare le rivoluzioni perché “ci conosciamo tutti”. È una verità che Steve Bannon, l’ideologo della destra americana, mostra di non conoscere quando accredita, in una conversazione con il direttore della Stampa, la sua idea di un fronte comune Salvini-M5S in chiave anti-sistema e contro l’Unione europea.
Bannon è un visionario e probabilmente un invasato che coglie e anticipa certi fermenti profondi della società, ma il suo fallimento alla Casa Bianca ne ha rivelato tutti i limiti. Nel concreto l’alleanza di governo fra i due movimenti cosiddetti “populisti”, uno di destra e l’altro di sinistra, non è all’ordine del giorno. Può essere forse una suggestione per un futuro indefinibile, ma oggi non sembra proprio un’ipotesi praticabile. È vero peraltro che non tutti la pensano così.
Ieri il presidente del Pd Orfini l’ha auspicata, fra gli altri, con l’argomento che nella passata legislatura leghisti e Cinque Stelle hanno votato insieme innumerevoli volte: dunque qualcosa li unisce. Ma è una tesi debole. I partiti, quando sono all’opposizione, mescolano inevitabilmente i loro voti. In un tempo lontano, ad esempio, Pci e Msi votavano spesso contro il governo e tuttavia non hanno mai pensato di proporsi come alternativa. Si capisce però che la tentazione di spingere Salvini e Di Maio uno nelle braccia dell’altro è molto forte dalle parti del Pd. Risolverebbe molti problemi a un partito già lacerato, stretto nella morsa del nuovo bipolarismo Lega-5S e timoroso di dover pagare con altre fratture, forse persino con una scissione destabilizzante, qualsiasi decisione che non sia il restarsene all’opposizione. Del resto, non è credibile che il Pd possa appoggiare un governo Di Maio, da un lato, o addirittura un governo Salvini, dall’altro, nelle condizioni politiche in cui oggi versa. Sconfitto il 4 marzo, debole, con un segretario dimissionario e la necessità di riflettere su se stesso, il partito del centrosinistra non può fare scelte drammatiche. Ha bisogno di tempo. E non è detto che di tempo ce ne sia molto. Qualcuno teme che il “no” alle profferte dei Cinque Stelle possa spingere il M5S verso la Lega. Ma, come si è detto, la prospettiva non è realistica.
Un conto è che Salvini e Di Maio si dividano le presidenze delle due Camere (il Senato a Calderoli, la Camera si vedrà). Altro conto è che stringano patti politici fra loro. La Lega rappresenta il Nord e le esigenze di una società produttiva che teme per la sua sicurezza e per l’eccesso di fiscalità. I Cinque Stelle sono portatori al Sud di un’istanza semi-socialista (il reddito di cittadinanza) che coincide con un’estrema richiesta di aiuto economico ai poteri pubblici in una stagione in cui le risorse sono quasi esaurite. Se incrociamo i programmi di entrambi, le due metà del paese non stanno insieme.
Peraltro anche le priorità sembrano differenti. Salvini ha soprattutto voglia di consolidare la sua egemonia sull’intero centrodestra, assorbendo quel che resta del berlusconismo; in seconda battuta egli guarda al Sud con il piano appena dissimulato di approfittare presto o tardi della delusione che potrebbe investire l’elettorato dei Cinque Stelle. Il che spiega l’obiettivo simmetrico di Di Maio: ottenere in fretta qualche successo d’immagine così da tranquillizzare il suo popolo. Per questo gli serve il governo.
Con un punto chiaro: se per la Lega espandersi a Sud è difficile, ancor di più è per il M5S mettere radici al Nord.
Intanto la rivoluzione può attendere, direbbe Flaiano. In fondo tutti conoscono tutti.

Repubblica 12.3.18
Intervista a Axel Honneth
“Le élite di sinistra hanno perso i legami con le loro radici”
di Benedetta Tobagi


«È una situazione deprimente», Axel Honneth, giunto in Italia in coincidenza con il terremoto elettorale, abbassa gli occhi chiari, pensoso, «è la situazione più difficile per l’Europa da 20-30 anni». «Per questo sono venuta da un filosofo a chiedere cosa si può fare», replico, e ridiamo per sdrammatizzare. Filosofo sociale, già assistente di J?rgen Habermas, Honneth è la figura di punta della terza generazione della storica Scuola di Francoforte. Teorico della “libertà sociale” e delle forme sociali e politiche del riconoscimento, si trova a Milano proprio per parlare di come “accettare il diverso” (questo titolo della masterclass tenuta alla Fondazione Feltrinelli), nel ciclo di incontri su diritti e cittadinanza “A road to Europe 2030”. «In effetti», riprende «secondo Kant il filosofo ha il compito morale di essere ottimista, sul piano teoretico, anche contro i tuoi sentimenti personali, per ispirare gli altri a fare le cose giuste, in questo caso proseguire il cammino per l’integrazione europea. Ma confesso che per me non è mai stato così difficile».
Perché?
«Lungo l’arco della mia esistenza l’integrazione europea è sempre stata un orizzonte di progresso, lento ma continuo. Ora appare in discussione. I movimenti populisti di destra hanno conquistato larga parte dei lavoratori bianchi, delle fasce non privilegiate. Penso abbia a che fare con il fallimento delle forze socialdemocratiche, che non hanno saputo esprimere le paure e le speranze di questi gruppi. Al governo in molti Paesi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, non hanno dato risposta alle loro preoccupazioni principali: l’impatto della globalizzazione e la perdita di benessere e privilegi conquistati in precedenza».
E la sinistra è crollata in tutta Europa. Ha scritto un saggio, “L’idea del socialismo. Un sogno necessario”. Da dove ripartire per rilanciarlo?
«Mentre sono cresciute le forme neoliberali di capitalismo, insoddisfazione, ansietà e critiche non sono più espresse, come in passato, in un vocabolario di sinistra, ma sono articolate in un lessico di destra – com’era accaduto nella Repubblica di Weimar – che non implica una visione di progresso, ma esprime la speranza in termini di regresso, come riconquista di qualcosa di perduto, una comunità nazionale chiusa con un forte stato sovrano, capace di salvaguardare ciò che abbiamo guadagnato e il nostro onore, la nostra reputazione».
Nella raccolta di saggi “La libertà negli altri”, pubblicata dal Mulino nel 2017, insiste sull’importanza per i soggetti di poter godere di “stima sociale”, per una buona società. Quanto pesa il fatto che la cultura non sia più un valore nemmeno per le classi dirigenti e il lavoro intellettuale sia sottopagato?
«Anche in Germania (so che in Italia la situazione è ancora peggiore) cresce una classe di accademici disoccupati e non retribuiti. Per trovare un qualunque impiego, anche temporaneo, deve cercare nicchie, sapersi adattare. Ciò alimenta l’opportunismo, posizioni ideologicamente deboli. La mia insoddisfazione però riguarda soprattutto i colleghi professori ben pagati, con posizioni sicure, gente che viene dai vari movimenti della sinistra e ha perso i legami con le sue radici. Hanno sviluppato i loro pregiudizi, a volte sono diventati islamofobi. Non sono l’esempio migliore per il resto della società».
In questi saggi di filosofia sociale, quando parla di riconoscimento e autostima fa molti riferimenti a teorie psicoanalitiche (Winnicott, Freud): molte patologie sociali si connettono a profonde fragilità individuali. Ma cosa si può fare a livello pubblico? Non tutti possono permettersi una terapia…
«Ciascuno di noi ha bisogno di un luogo protetto, dove poter parlare di sé e dei propri problemi sentendosi completamente al sicuro. Quando c’è questo, quando i legami d’amicizia sono profondi e il contesto famigliare sano, non c’è gran bisogno di analisi e terapie.
Legami solidi possono fare molto.
Talvolta sono relativamente ottimista, l’amicizia gioca ancora un ruolo importante nella società, è un legame in buona salute. Al tempo stesso, i rapporti personali sono in sofferenza a causa della mercantilizzazione della società e dell’importanza crescente delle connesse “libertà negative”, l’idea “sono solo e devo farcela”, e questo indebolisce le relazioni e fa mancare i contesti protetti».
I movimenti euroscettici trionfano perché la maggior parte delle persone non sente di appartenere a una comunità europea, non la percepisce come un dato positivo e strutturante.
Cosa si può fare?
«Innanzitutto, servono politiche economiche europee che si prendano cura del malessere di chi patisce le crescenti disuguaglianze: investimenti pubblici e redistribuzione della ricchezza. La spinta deve venire da Francia e Germania. Si è concesso troppo al mercato, a danno delle persone. Poi, anni fa, si parlava molto di come costruire una sfera pubblica europea, attraverso televisione e giornali, ma, a parte il canale Arté, non s’è fatto nulla. I programmi di scambio come l’Erasmus hanno avuto un enorme successo nel creare cittadini che si sentono davvero europei, ma hanno coinvolto solo le élite accademiche.
Oggi anche i poveri possono viaggiare, ma non sono “scambi”.
Bisogna mettere a punto programmi che coinvolgano anche altre categorie e professioni e le fasce meno colte. Infine, la cosa più importante, la scuola pubblica è stata sottostimata e impoverita, ma è lo strumento cardine per l’integrazione europea. Pensate all’importanza di studiare storia in chiave europea. E bisogna proseguire con decisione nell’insegnamento dell’inglese come seconda lingua comune, poter comunicare è un presupposto essenziale. Magari il figlio di un elettore della Lega, se impara bene l’inglese a scuola e partecipa a degli scambi, farà scelte diverse».

Il Fatto 12.3.18
Il Gran Maestro Bisi come Galileo, Mieli “apre” il tempio massonico
Il Goi si raduna a Rimini nel segno del cannocchiale dello scienziato copernicano, processato a San Macuto nel 1633
di Fabrizio d’Esposito


Al tempio, al tempio. Per i massoni del Grande Oriente d’Italia, la maggiore obbedienza del Paese, si avvicina il megaraduno della Gran Loggia 2018, una sorta di “congresso” nazionale che si celebra ogni anno a Rimini. Attesi almeno 3mila “fratelli” guidati dal gran maestro Stefano Bisi, giornalista senese.
Il Goi e Bisi sono reduci da un anno di scontri duri e violenti con l’Antimafia di Rosy Bindi (la massoneria infiltrata dalle mafie, in primis dalla ’ndrangheta), seguiti poi dalle polemiche sui massoni in lista alle Politiche, soprattutto grillini. Non a caso, il simbolo della Gran Loggia che si svolgerà dal 6 all’8 aprile al Palacongressi di Rimini è il cannocchiale di Galileo Galilei, processato e torturato nel 1633 dalla Santa Inquisizione cattolica per le sue idee copernicane.
Scrive il Goi: “Nello stesso palazzo di San Macuto che vide Galilei alla sbarra, oggi sede di alcune commissioni parlamentari, tra cui quella Antimafia, si è consumato il 18 gennaio 2017 un altro ‘processo’, celebrato da un’altra Inquisizione: quello alla Massoneria. A giudizio, davanti a un plotone di una quarantina di parlamentari, il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia”. A impugnare il cannocchiale di Galilei ci saranno anche alcuni ospiti illustri profani, cioè non massoni, tra cui Daniele Capezzone, Vito Mancuso e Paolo Mieli.
E sarà proprio Mieli, nel tardo pomeriggio di sabato 7 aprile, ad “aprire” pubblicamente il tempio di Rimini, dopo la chiusura dei “lavori rituali” riservati solo ai “fratelli”. Giornalista, storico e saggista – Mieli è stato allievo di Renzi De Felice e Rosario Romeo – l’inventore del terzismo della Seconda Repubblica rifletterà con Umberto Cecchi e David Monti sul tema “Liberi dal pregiudizio”.
Peraltro Mieli, a Natale sul Corriere della Sera, ha dedicato le sue due classiche pagine storiche alla controversa questione della conduzione massonica del Risorgimento. Da una parte chi sostiene che le logge furono marginali, se non assenti, salvo poi guidare la successiva fase unitaria con ben cinque presidenti del Consiglio fratelli. Dall’altra chi rivendica l’affiliazione di Garibaldi e Cavour nonché il deismo mazziniano.
di Fabrizio d’Esposito | 12 marzo 2018

Il Fatto 12.3.18
Putin IV: il Cremlino è mio e lo gestisco io
Il 18 marzo Zar Vladimir sarà rieletto per la quarta volta presidente. Non ha avversari, chi poteva inquietarlo è stato neutralizzato dalla magistratura
di Leonardo Coen


Un un recente grottesco romanzo, Gli ultimi giorni di Vladimir P. (Michael Honig, ed. Frassinelli), si racconta la lenta fine di un Putin vecchio, malandato e demente; siamo nel 2032, Volodja, l’ex presidente, ha ottant’anni, è sempre più incattivito, paranoico, ossessionato dai fantasmi del suo passato; è imbottito di farmaci, soffre di allucinazioni. Spesso parla a poltrone vuote sulle quali solo lui vede seduto l’odiato ministro delle Finanze che è diventato presidente. Vladimir è confinato in una dacia poco lontano da Mosca, a Novo-Ogarevo. Poco è cambiato, dai giorni nostri: il contesto del futuro prossimo è infatti purtroppo familiare: corruzione, dissidenti incarcerati, oligarchi avidi, ministri che rubano, giornalisti ammazzati, cineasti in galera, il popolo che stringe la cinghia. Nello staff che lo cura c’è Stepanin, il cuoco ubriacone. Che un giorno dice: “Vivere in Russia è vivere all’inferno. Se non fosse stato Vladimir a rovinarci, sarebbe stato qualcun altro”. La rassegnazione, quintessenza della tragedia russa.
E quintessenza del voto russo di domenica 18 marzo, quando verrà eletto presidente per la quarta volta il vero e niente affatto demente Vladimiri Putin. Un déja-vu. Ormai, il Cremlino e Putin sono un tutt’uno. Un uomo solo al comando. Senza avversari. E chi poteva inquietarlo, come l’avvocato blogger Aleksej Navalny, è stato neutralizzato dalla magistratura. Così, il candidato Putin si è presentato come “indipendente”, affrancandosi da Russia Unita, il suo partito. Campagna soft, pochissimi comizi, nessun confronto in tv – come in altre occasioni – ma tanta promozione e spazio ai successi oggettivi in politica estera. Per avversari, sette nani politici, a cominciare dalla famosa star televisiva Ksenija Sobcak, figlia di Anatolij, primo sindaco di San Pietroburgo eletto dopo il crollo dell’Urss, soprattutto mentore politico di Putin.
L’improbabile Ksenija si batte “contro tutti”, ma ha criticato Navalny perché “sostenitore di una linea politica che danneggerebbe gli interessi della Russia”, e la destabilizzerebbe. Guarda caso, quel che dice il Cremlino (in cambio, si dice, la bionda Sobcak otterrebbe la direzione di un canale tv). Navalny, dal canto suo, ha rivolto un appello per disertare le urne, ma è un’arma spuntata. Né hanno migliori prospettive il candidato del Partito Comunista Russo, l’agronomo Pavel Grudinin, o il liberal-conservatore Grigory Yavlinskiy che si presenta per la quarta volta con Yabloko: vuole superare lo “stalinismo mascherato” e il “capitalismo selvaggio al confine col feudalesimo”. Predica rispetto della proprietà privata da parte dello Stato, concentrazione limitata dei beni, economia in sintonia con le imprese. L’esatto opposto dell’economia “diretta dall’alto”, cioè dal Cremlino.
Tutto rosa e fiori per Putin? Mica tanto. Nelle grandi città, i giovani, la nuova borghesia e i ceti intellettuali (salvo quelli di regime) non lo voteranno: a Mosca, gli ultimi sondaggi fissano Putin al 57 per cento.
Sono segnali. Che i putinologi pensano siano sintomi di una fragilità del “putinismo”: il complesso intreccio di affari, potere e controllo dei gangli vitali della Russia messa in piedi da Putin e dai suoi si starebbe, insomma, sfilacciando. Per questo, Putin ha rilanciato l’immagine del “presidente forte” per una “Russia forte”. Si accredita come un autocrate muscoloso, in piena forma, l’uomo capace di raddrizzare la Russia con ogni mezzo. Infatti la gestisce come il presidente di una multinazionale che delega le sue funzioni ai dirigenti delle filiali. Nel discorso alla nazione del primo marzo, Putin aveva dinanzi a sé la classe dirigente russa, ma in realtà si rivolgeva alla Casa Bianca quando ha svelato le nuove armi nucleari che “l’America non può intercettare” e che “nessun altro paese al mondo ha o potrà realizzare in breve tempo”.
Toni alla Krusciov. Rilancio dell’orgoglio russo: “Negli ultimi trent’anni abbiamo fatto progressi che ad altri Paesi sarebbero costati secoli”. Il futuro (naturalmente con lui alla guida del Cremlino per altri sei anni, come stabilisce l’opportuna riforma elettorale) riserveranno “fulgide vittorie”, se “saremo coraggiosi nelle aspirazioni, negli obiettivi, nelle azioni”.
Tre giorni dopo, primo vero bagno di folla. In diretta tv dallo stadio. Con 90 mila spettatori: manco fosse la cerimonia inaugurale del prossimo Mondiale di calcio. Schierato in campo il “Putin team”, galassia di personaggi famosi: dal regista Nikita Mikhalkov al direttore artistico del Mariinsky, Valerij Gergiev, cantanti, campioni olimpici, attori, star tv. Consacrazione del Putin “padre della patria”. L’unico. “Solo lui è il nostro presidente”, asserisce Mikhalkov. Un’icona pop, secondo i corrispondenti stranieri, che smorza i toni bellici e si trasforma in guru dei russi: “Vogliamo che il nostro Paese sia prospero e guardi al futuro, ai nostri figli e nipoti. Faremo di tutto per renderli felici”. Parola d’ordine, gridata al microfono: “Siamo una squadra, vero?”. E come una squadra di football, i 90 mila intonano il solenne inno russo prima della finale.
In verità, serpeggia insofferenza verso la piramide verticale del potere in cui spadroneggiano (nella misura del 70 per cento) ex funzionari ed agenti del Kgb e dell’Fsb (l’intelligence post sovietica). A cominciare da Putin: tenente colonnello nel Kgb e direttore dell’Fsb, prima di diventare capo del governo nel 1999 e capo del Cremlino nel marzo del 2000, dopo Boris Eltsin. Una carriera lampo, misteriosa, enigmatica. Di Putin continuiamo a saperne poco. A chi voleva approfondire, è stata tappata la bocca. Anche per sempre. Vlad rispecchia il Paese? Ognuno, soprattutto nella sterminata periferia dell’impero, si identifica in questo uomo grigio e dall’apparenza ordinaria, vedendoci quello che ci volevano vedere. Nei diciotto anni al Cremlino e dintorni ha domato l’economia, imbrigliato gli oligarchi, e messo il guinzaglio ai media. Guerre. Sanzioni. La questione ucraina, il ritorno ad una nuova guerra fredda, la crisi siriana, il cyberterrorismo, l’avvento di Donald Trump hanno spinto Putin ai vertici dell’attenzione e dei timori globali. Il Cremlino è il rubinetto strategico del gas da cui dipende gran parte delle necessità energetiche Ue. Che Putin desidera meno compatta e meno solidale.
Con l’annessione della Crimea, Putin ha ferito l’Europa e i suoi principii. La Nato circonda la Russia? Replica con i viaggi a Kaliningrad, l’enclave tra Polonia e Lituania, per ammonire che Mosca i missili li ha dentro l’Unione Europea… Esercita ed esporta miliardi coi quali compra la lealtà della burocrazia europea. Crea il trend del sovranismo e del populismo, foraggia le “piccole patrie”, i movimenti estremi: la democratura fondata non sull’aritmetica della democrazia ma sull’esercizio della “verticale del potere”. Fervente ammiratore dei kompromat (dossier compromettenti, marchio di fabbrica del Kgb), se ne serve per interferire nei processi democratici di chi gli vuol tenere testa. Ormai Putin è più di Putin. Crede di essere il burattinaio del mondo.
Ma forse, è prigioniero del suo stesso enigmatico ed opaco labirinto.

Repubblica 12.3.18
Le elezioni russe
Daghestan, Putin contro i corrotti per fermare la rabbia dei giovani
Il Cremlino vuole placare il malcontento nella Repubblica del Caucaso dove gli abusi della nomenklatura hanno provocato la crescente minaccia della jihad
di Rosalba Castelletti,


MAKHACHKALA Zhanna Ismailova ha il volto stropicciato da tante notti insonni.
Seduta al tavolo della cucina, tira fuori un foglio dopo l’altro da una cartella blu. Sono i tanti appelli inoltrati alle autorità dalle 86 donne che hanno fondato l’associazione “Cuore di Madre” dopo aver visto i loro figli inghiottiti nel buco nero di menzogne e abusi del Daghestan. Si dice che la Russia cominci da qui perché è la regione più a Sud del Paese.
Invece sembra che qui tutto finisca. Da oltre vent’anni questa Repubblica ospitale, incastonata tra il Mar Caspio e le montagne del Caucaso, è una terra che non ha guerre, ma non conosce pace.
Mosaico di oltre trenta etnie e babele di altrettanti idiomi, con il russo come lingua franca, è la regione più multietnica e musulmana della Federazione. Le città punteggiate dai minareti delle moschee risuonano dei richiami dei muezzin. La tradizione sunnita e le confraternite sufi dominano, ma due guerre separatiste nella vicina Cecenia hanno radicalizzato molti musulmani d’ispirazione salafita. Da qui sono partiti i fratelli Tsarnaev, autori dell’attentato di Boston, e oltre un migliaio di giovani andati a combattere nelle fila dell’Isis in Siria e Iraq. Le autorità rispondono con rastrellamenti indiscriminati e schedature del Dna che però non fanno che alimentare il jihadismo.
Centinaia di giovani sono spariti nel nulla. Come Rashid Ismailov, il figlio di Zhanna.
«Aveva 26 anni, una moglie e un figlio di 15 giorni quando è stato sequestrato sei anni fa. Lo hanno caricato su una Lada Priora nera e da allora non ne abbiamo più avuto notizie.
Sono oltre mille i casi come questo. Le autorità cavalcano la minaccia del terrorismo perché vivono di questo». Il Daghestan è la Repubblica che riceve più sovvenzioni da Mosca: oltre 52 miliardi di rubli nel 2017, il 75% del budget. In cambio, i “clan” locali investono nella “guerra al terrorismo”. Ogni arresto di un vero o presunto jihadista è una voce che aumenta i sussidi.
Soprattutto da quando il Daghestan ha rimpiazzato la Cecenia come “posto più pericoloso d’Europa”.
Corruzione endemica e abusi delle forze dell’ordine, però, vanificano gli scopi. Per tentare di fermare l’emorragia di denaro dal budget, lo scorso autunno, per la prima volta, il Cremlino ha nominato un governatore non daghestano e non musulmano: l’ex generale della polizia ed ex leader di Russia Unita alla Duma, Vladimir Vasiliev, 68 anni, che ha avviato la più vasta purga di tutta la Russia post-sovietica.
Decine di alti funzionari sono stati incriminati, incluso il primo ministro della Repubblica e due suoi vice.
Lanciando un’offensiva anti-corruzione e insediando nuovi manager nei posti chiave, il Cremlino tenta di placare il malcontento espresso dai manifestanti, perlopiù adolescenti, scesi in piazza la scorsa primavera in tutta la Russia per protestare contro le ruberie dell’élite al potere. Una mossa in vista delle presidenziali del 18 marzo dove Vladimir Putin, senza reali rivali, cerca un plebiscito.
Anche il Daghestan è stato teatro d’inedite manifestazioni l’anno scorso: non solo i cortei promossi da Navalnyj e gli oceanici blocchi stradali degli autotrasportatori contro il sistema di pedaggio Platon, ma anche sit-in di attivisti locali.
La capitale Makhachkala è un agglomerato urbano scomposto e sfrangiato.
Enormi scheletri di acciaio e cemento si stagliano sulla superba scenografia dei contrafforti del Caucaso. Sono il risultato di una corsa edilizia selvaggia che sacrifica gli spazi verdi. Quando l’amministrazione locale ha annunciato la costruzione di un museo nel parco Lenin Komsomol, un gruppo di cittadini ha lanciato picchetti, petizioni e cause legali. «Per una volta abbiamo messo da parte differenze confessionali, etniche e politiche e siamo riusciti a salvare l’unico polmone verde della capitale», racconta la giornalista e scrittrice femminista Svetlana Anochina, fronte aggrottata e sigaretta in mano. «Non ho memoria di altri movimenti spontanei in questa città. Alle presidenziali faremo tutti gli osservatori. Vogliamo elezioni oneste».
Desiderio ambizioso. Il Daghestan annovera le irregolarità elettorali più palesi e diffuse. Colpa di funzionari più realisti del re. Le percentuali di affluenza e consensi sono tra le più alte del Paese. Alle presidenziali 2012, l’affluenza fu del 91% e i voti per Putin superarono il 92% contro il 65% nazionale. «Le violazioni del diritto di voto portano al potere gli incompetenti. Le istituzioni pubbliche non adempiono al loro dovere. I sindacati non difendono i lavoratori. Il consiglio per i diritti umani trascura gli abusi», sostiene Marat Ismailov, l’avvocato 27nne che ha portato le petizioni cittadine contro l’abusivismo in tribunale e ora organizza i corsi di formazione degli osservatori. I trucchi servono a poco. Il Daghestan resta fedele al Cremlino.
«Putin qui otterrà il 90% dei voti. Da quando c’è lui al potere, c’è stabilità, rispetto dei valori ed è tornata la pace nel Caucaso», ci dice Ali Ibragimov, direttore del Museo storico architettonico artistico di Derbent, la più antica città della Russia, accogliendoci nel suo studio. Sul tavolo, tè e cioccolatini: impossibile sottrarsi, questa è terra del Sud, terra di ospitalità. Alle sue spalle un grande arazzo della fortezza con un ritratto di Putin in primo piano. «L’ho fatto fare apposta tre anni fa in occasione del giubileo della città. Avrei voluto regalarlo al presidente, ma alle celebrazioni non venne».

La Stampa 12.3.18
Xi come Mao Zedong presidente per sempre
di Carlo Pizzati


«Teniamo alta la bandiera del Socialismo cinese, studiamo a fondo il Pensiero Xi Jinping e realizziamo il Sogno Cinese». Con queste parole il presidente del Parlamento ha sigillato una decisione che cambia i connotati alla politica di Pechino e battezza il presidente Xi Jinping come un nuovo Mao Zedong. Con la stragrande maggioranza del voto di 2957 parlamentari del Congresso Nazionale Cinese è stata approvata l’abolizione del limite di due mandati per la più alta carica dello Stato. Solo tre gli astenuti e appena due i voti contrari.
La normativa che nel 1982 imponeva un limite di due mandati per il leader comunista a guida del Paese serviva a evitare che rispuntasse un altro Mao, dopo gli orrori di un presidente che agguantò il potere nel 1949 e lo lasciò andare solo nel 1976, alla sua morte. Soltanto gli imperatori cinesi, prima di Mao Zedong, avevano regnato a vita in Cina, e sempre con risultati disastrosi per le masse.
Con il voto di ieri, sono passate anche altre due importanti decisioni che riflettono i nuovi aspetti dell’era «imperiale». La prima è l’aggiunta alla Costituzione cinese del Pensiero Xi Jinping. Ciò significa che da oggi in poi criticare qualsiasi cosa dica o faccia il presidente significa attaccare anche la Costituzione e il Partito Comunista , con tutte le gravi conseguenze che ciò implica. È un modo per vanificare in anticipo ogni possibile dissenso. La seconda è l’istituzione di una Commissione di Supervisione per indagare i membri del partito e i servitori dello Stato. Potrebbe essere una spinta verso una governabilità etica, ma si tratta di un’ente di controllo per tener salda la presa sui dettami del Pensiero Xi Jinping.
Queste tre decisioni che fanno guardare alla democraticità della Costituzione con perplessità. Se un’unica persona in così breve tempo la può emendare smaccatamente a proprio favore, quant’è davvero democratica in confronto all’era di Mao? Il paragone con Mao, in realtà, è improprio. Il leader della Lunga Marcia si trovava alla guida di un Paese molto più povero e agricolo della Cina industriale di oggi, che è invece a un punto di forza, potere e ricchezza che non occupava da secoli.
Xi, al governo dal 2012 con la promessa di ringiovanire la Cina e riportarla al centro del mondo, è quindi da ieri molto più potente di Mao, essendo anche a capo del Partito comunista cinese e dell’Esercito. Ora, con la possibilità di farsi rieleggere a vita, sembra avere più i connotati di un monarca de facto.

Corriere 12.3.18
Xi Jinping e la scommessa vinta Sarà il primo «presidente a vita»
La riforma della Costituzione cinese passa con un plebiscito. La contestazione (censurata) sui social
di G. Sant.


PECHINO Nella Grande Sala del Popolo di Piazza Tienanmen hanno cominciato ad applaudirlo in modo contenuto mentre infilava nell’urna rossa la sua scheda. Poi un altro battimani di una ventina di secondi, quando sul tabellone luminoso comparivano i numeri. Con 2.958 sì, 2 no, 3 schede bianche e una nulla il Congresso Nazionale del Popolo cinese ha approvato la riforma della Costituzione: una svolta che concede a Xi Jinping la possibilità di restare presidente della Repubblica senza limiti di tempo. Dopo l’era di Mao Zedong era stata introdotta per volere di Deng Xiaoping nel 1982 la regola dei due mandati quinquennali, proprio per non ricadere nel rischio di un uomo solo al potere, a vita. Quella barriera contro gli eccessi, contro gli spettri della Rivoluzione culturale è stata abbattuta. La Cina fa un salto nel passato. La tv statale annuncia che «1,4 miliardi di cinesi avanzano uniti sulla stessa strada».
Xi Jinping è presidente dal marzo del 2013, allora era stato eletto dal Congresso con un solo voto contrario e tre astensioni: 99,86% di consensi. La quasi unanimità non è cambiata. Dopo questo pronunciamento di un Parlamento che rappresenta la «democrazia con caratteristiche cinesi» resta solo da speculare sulla data che Xi sceglierà, se la salute continuerà ad assisterlo, per passare finalmente le consegne: si immagina il 2035, anno che ha indicato per il completamento della modernizzazione del Paese e per l’elevazione definitiva della Cina al rango di «grande Paese socialista, prospero, forte, culturalmente avanzato, armonioso e bello». Fino ad allora almeno, e avrà 82 anni suonati, il Presidente di Tutto potrebbe restare sulla sua poltrona.
Non sembra adeguato definirlo Nuovo Mao, perché il Grande Timoniere dominava una Cina isolata e arretrata, mentre Xi decide le sorti della seconda economia del mondo globalizzato, della prima potenza commerciale. Che cosa ha ispirato questa mossa che quando è stata annunciata improvvisamente, in tre righe dell’agenzia Xinhua il 25 febbraio come «proposta» al Congresso, ha causato un’inattesa contestazione sui social network cinesi, giochi di parole subito censurati sull’Imperatore Xi Zedong? Nelle due settimane che hanno preceduto il voto la stampa di Pechino si è impegnata a spiegare che non c’è niente di anomalo, di autoritario nella «decisione popolare» di avere un leader forte e non soggetto a limiti di scadenza.
Sostiene Wang Chenguang, professore di diritto dell’Università Tsinghua: «Non è corretto parlare di presidenza a vita, perché sono stati aboliti solo i limiti temporali per la carica di presidente, non quelli del Congresso che dovrà rieleggerlo». Il docente sottolinea come la riforma costituzionale sia intitolata «La guida del Partito comunista è la fisionomia che definisce il socialismo con caratteristiche cinesi». Secondo questa versione, è il Partito che decide e ora ha stabilito che alla Cina servono «stabilità e continuità di azione politica». In questi primi anni Xi ha consolidato il suo potere, ha condotto una campagna anticorruzione durissima, ha soffocato ogni voce di dissenso, preso il controllo dell’economia. Se al centralismo democratico comunista ha voluto aggiungere un accentramento imperiale del potere (a vita o quasi), forse non è convinto che il Partito e il Paese lo seguano davvero compatti. Osserva Fred Teng, esponente dell’intellighenzia cinese all’estero: «Negli Stati Uniti il potere del presidente comincia a sfuggire dopo la rielezione». E in effetti qualche giorno fa Donald Trump si è avventurato in un elogio dei suoi: «Xi diventa presidente a vita, è un grande ed è un grande fatto. Forse dovremmo provare anche noi prima o poi».
Una battuta. Ma l’Occidente ora dovrà valutare bene il suo atteggiamento nei confronti di Xi e della sua nuova era in Cina.

Corriere 12.3.18
Il ritratto Il nuovo Timoniere
L’imperatore del popolo che cita Dante e Petrarca
dal nostro corrispondentea Pechino Guido Santevecchi


Nuovo Mao, Imperatore, Autocrate: si accumulano in Occidente i giudizi non proprio positivi sul personaggio. A Pechino rispondono che il ruolo fondamentale di Xi Jinping «è dettato dalla storia e scelto dal popolo».
Nei primi cinque anni del suo potere ora a tempo indeterminato Xi ha accumulato una dozzina di cariche. Cominciando nel novembre del 2012 con quella di segretario generale del Partito comunista e presidente della Commissione centrale militare, perché «il potere passa sempre dalla canna del fucile», come diceva Mao. Altri organismi statali e comitati sono stati istituiti appositamente per lui: è leader del Gruppo guida di approfondimento comprensivo delle riforme e del Gruppo guida centrale per gli Affari economici e finanziari. Queste due posizioni hanno messo nelle mani di Xi la gestione della macchina produttiva della seconda economia del mondo. In tutto, ad oggi, sono state contate 12 attribuzioni da supremo dirigente, compresa quella di leader del Gruppo guida di Internet.
Nel corso del consolidamento della sua figura gli sono stati assegnati i titoli simbolici e da psicologia delle masse di «hexin», che significa più o meno «nucleo centrale e cuore» del Partito e quello di «lingxiu», attribuzione che fu solo di Mao ed evoca una grandezza anche spirituale di comandante. La propaganda ha sollecitato il soprannome affettuoso «Xi Dada», Xi lo zio di 1,4 miliardi di cinesi.
Chi sia davvero quest’uomo che compirà 65 anni il 15 giugno resta un segreto di Stato. Della sua formazione sono emersi solo fotogrammi (ben selezionati) e memorie agiografiche. È figlio di un compagno della prima ora di Mao, quindi è un «principe rosso», un membro della nobiltà comunista destinata a posti di prestigio. Però il padre fu purgato nelle lotte di potere degli Anni 60 e quando aveva 15 anni anche Xi fu spedito come «giovane istruito», con decine di migliaia di coetanei, a zappare in campagna «per essere rieducato dai contadini più poveri», come ordinava la Rivoluzione culturale. Sette anni a spalare letame, alloggiato in una grotta illuminata dalle candele, ci raccontano. Però Xi ne è tornato rafforzato, più determinato a riprendere il posto che gli spettava per nascita.
WikiLeaks ha rivelato un documento classificato del 2009, quando Xi era ancora vicepresidente, dal quale sappiamo che l’ambasciata Usa di Pechino aveva tra le fonti un suo caro amico. E questo amico, professore universitario, raccontò che Xi era «un sopravvissuto della Rivoluzione culturale», uno che aveva deciso di scampare a quegli anni di follia maoista «diventando più rosso del rosso», sempre con l’obiettivo di arrivare al vertice. Rientrato a Pechino riprese gli studi, laureandosi in ingegneria chimica. Poi la scalata alla gerarchia del Partito-Stato, partendo dalla provincia profonda e povera. Si è sposato due volte: il primo matrimonio è fallito, la seconda moglie, Peng Liyuan, cantante lirica dell’Esercito, era molto più famosa di lui quando si unirono nel 1987. Pare che all’inizio lo trovasse un po’ noioso. Gli ha dato una figlia, Xi Mingze, che ha studiato all’estero ed è tenuta lontana dai riflettori.
Pochi altri dettagli privati catturati da WikiLeaks: Xi avrebbe confidato di amare film come Salvate il soldato Ryan «perché ha un senso di giustizia». Nessuno straniero ha mai messo piede nella sua residenza privata, presumibilmente all’interno di Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale diventato cittadella proibita del governo. Nei discorsi pubblici all’estero ama citare i classici della letteratura occidentale, compresi Dante e Petrarca.
I dibattiti congressuali aperti al pubblico hanno appena rivelato un particolare sull’adorazione (anche adulazione) che circonda il Presidente di Tutto. Il deputato Wang Guosheng, che guida la delegazione del Qinghai tibetano dove nacque il Dalai Lama, ha detto che per i contadini del posto Xi è un Bodhisattva, una divinità vivente. I Bodhisattva, secondo i buddhisti del Tibet sono individui che per raggiungere l’illuminazione spirituale operano atti caritatevoli. Il compagno Wang ha aggiunto che nella sua regione vengono distribuiti santini del Bodhisattva.
Un altro episodio: la deputata Zhao Hijie venuta dalla Mongolia Interna, parlando davanti a Xi in una di queste sedute, ha ricordato i grandi successi del suo villaggio, le opere realizzate nei primi cinque anni dell’era Xiista: «Ispirati da Lei abbiamo costruito due ponti, 13 chilometri di strade cementate, abbiamo costituito un gruppo danzante e abbiamo abbracciato la Rivoluzione dei cessi». La Rivoluzione per la modernizzazione delle toilettes è nel piano quinquennale del governo e non è cosa da poco, in un Paese di 1,4 miliardi di persone alle prese con i bisogni quotidiani. Il presidente le ha risposto: «E dove finiscono i vostri rifiuti solidi, avete le fognature o i pozzi neri?».
Il siparietto, trasmesso dal tg, si è concluso con Xi che prometteva una visita al villaggio. Imperatore del popolo, per questo piace tanto ai cinesi.

Repubblica 12.3.18
Intervista a Richard McGregor
“Vuole il potere all’infinito per proteggersi dai nemici”
di F. S.


«Credo che Xi Jinping voglia rimanere al potere all’infinito, finché sarà in salute. Per un semplice motivo: ha molti nemici in Cina e quella è la sua vera protezione». Richard McGregor ha scritto The Party, un viaggio dietro le quinte del Partito comunista.
Mentre Xi saliva al trono questi avversari non si sono visti…
«Opporsi ora è troppo pericoloso.
Una tale concentrazione di potere nelle mani di un uomo solo non si vedeva dai tempi di Mao».
Chi sono i nemici?
«Le famiglie dell’establishment che ha distrutto con la battaglia anti-corruzione. E poi c’è l’ala riformatrice nel Partito, preoccupata per come questo accentramento possa danneggiare l’economia e riportare indietro il Paese. Dalle mie conversazioni la rabbia e lo sconforto sono palpabili».
Cosa potrebbe farle emergere?
«La chiave è l’economia. Buona parte della legittimità di Xi viene dal fatto che la vita dei cinesi sta migliorando in maniera evidente.
Ma se ci dovessero essere dei problemi i suoi avversari avrebbero qualcosa di oggettivo da criticare».
E fuori dal Partito, nella società civile? Molti temono che questa svolta restringa gli spazi di libertà in Cina.
«I cinesi della classe media delle città, da cui potrebbe arrivare una reazione, sono i grandi vincitori dello sviluppo, quindi hanno il massimo da perdere. Xi è molto popolare, il punto è se sia grado di rimanerlo stando in carica altri dieci anni. Ne dubito».
Ha un piano di modernizzazione di lungo periodo. E ora ha anche i mezzi e il tempo per realizzarlo.
«Sono convinto che Xi creda in questo progetto e che concentrare il potere nelle proprie mani sia per lui la strada più logica per realizzarlo. Ma non puoi modernizzare il Paese adottando un sistema politico meno moderno».

Repubblica 12.3.18
L’invidia di Trump per il “ dittatore” di Pechino
Con il suo assordante silenzio di fronte al “salto indietro” della Cina la più grande liberaldemocrazia rinuncia al suo ruolo di leader dell’Occidente
di Federico Rampini


NEW YORK In un comizio elettorale in Pennsylvania, Donald Trump ha proposto la pena di morte per gli spacciatori di droga. Tra gli applausi dei suoi fan, ha spiegato: «L’idea me l’ha data Xi Jinping»a (la Cina è la nazione che applica la pena di morte nel modo più massiccio). Da quando il presidente cinese si è fatto “incoronare a vita”, violentando perfino la Costituzione ereditata dai suoi predecessori comunisti, dalla Casa Bianca non si è levata una sola critica, non una protesta diplomatica. Il silenzio assordante è stato spezzato ancora da Trump, ma in senso elogiativo. A proposito della presidenza senza limiti di mandato, Trump ha detto, tra l’ironico e il semiserio: «Magari un giorno dovremmo farci un pensiero anche noi».
Peraltro già l’anno scorso, quando Xi lusingò la vanità del presidente americano riservandogli un’accoglienza senza precedenti a Pechino (gli fece personalmente da cicerone in una visita guidata della Città Proibita), Trump apparve inebriato e coprì di elogi il padrone di casa definendolo «il re della Cina». Non in senso polemico. Sono tante le cose che Trump invidia del suo omologo, per esempio la museruola alla stampa. Ancora ieri il presidente americano ha mostrato la sua insofferenza verso la libertà d’informazione insultando un giornalista della Nbc («figlio di p…») e l’intera Cnn («falsa come l’inferno»).
Ci stiamo abituando a tutto? Non era mai stato pensabile che un leader cinese venisse incoronato dittatore a vita senza un balbettio di denuncia-protesta da parte della più grande liberaldemocrazia al mondo.
Questa America ha rinunciato a interpretare il ruolo di leader dell’Occidente. Siamo in un mondo a rovescio. La Cina, proprio mentre imbocca una grave deriva autoritaria, con un accentramento di potere che segna un pauroso salto all’indietro, non ha più alcun bilanciamento da parte degli Stati Uniti. La seconda superpotenza mondiale, con un peso economico immenso, sta operando sotto i nostri occhi una metamorfosi mostruosa. Sotto Jiang Zemin e Hu Jintao era un regime autoritario governato da una leadership tecnocratica e collettiva. Ora arretra verso la dittatura personale, come ai tempi di Mao e Deng Xiaoping, quando però il suo peso sulla scena mondiale era molto minore. E sulla sponda opposta del Pacifico, chi governa la più antica e la più grande liberaldemocrazia occidentale osserva tutto ciò con ammirazione, invidia. Gli europei tacciono codardi, nella loro peggior tradizione: da Berlino a Londra, da Parigi a Roma, il silenzio sugli eventi di Pechino è agghiacciante; ci si preoccupa solo di piazzare qualche contratto commerciale o di attirare qualche investitore cinese a casa nostra.
Ma è nell’ordine delle cose. Se perfino l’America rinuncia al suo ruolo storico, chi può illudersi che l’esanime Europa riempia quel vuoto?
Non solo sui diritti umani e la democrazia l’Occidente batte in ritirata. Anche su altri fronti è evidente la subalternità di Trump a Xi. Sulla Corea del Nord il presidente americano elogia il ruolo di mediazione dei cinesi, mentre semmai proprio a Pechino c’è la cabina di regia di un “trappolone”, che punta alla finlandizzazione delle Coree e all’espulsione dell’America da quell’area (vedi l’inquietudine del Giappone). Sui dazi, pur denunciando l’enorme avanzo commerciale cinese, Trump usa toni meno bellicosi che con gli alleati europei. Ai paesi membri della Nato, legati da un patto di difesa che dura da 70 anni, la Casa Bianca dice a muso duro che dopo l’acciaio e l’alluminio potrebbe tassare pure le auto. Con Pechino usa il linguaggio della persuasione morale, esortando Xi ad un’autoriduzione volontaria del patologico avanzo commerciale. È evidente chi gode del rispetto di quest’America e chi invece ne riceve disprezzo.
Avere uno sguardo lucido su quel che accade non significa glorificare il passato. Sotto Clinton Bush e Obama, le prediche americane sui diritti umani non cambiarono il comportamento dei governi di Pechino. Forse contribuirono ad alimentare un nazionalismo revanscista nella popolazione cinese, su cui oggi fa leva Xi. È paradossale però che per la prima volta da anni stia accadendo un fatto sorprendente: serpeggia la protesta contro Xi tra gli studenti cinesi che frequentano i campus universitari qui negli Stati Uniti. È una grossa novità. In passato questa diaspora élitaria si distingueva per il suo nazionalismo a oltranza. Ora perfino loro sembrano dire: troppo è troppo. E noi gli voltiamo la schiena.

Repubblica 12.3.18
Dorsa Derakhshani
“Ho rifiutato il velo e dato scacco all’Iran”
“Erano più interessati all’abbigliamento che ai miei risultati” Parla la diciannovenne campionessa che ha lasciato Teheran e ora spera nella nazionale Usa
di Anna Lombardi


NEW YORK Avevo sette anni: le altre bambine indossavano il velo, anche se a quell’età non è obbligatorio, ma a quel mio primo torneo di scacchi per under8 io andai vestita da principessa, con la tiara in testa. Ero carina, i miei genitori hanno ancora le foto. Ma la cosa straordinaria fu che vinsi: una sorpresa, visto che gli altri avevano i loro allenatori mentre io venivo dal nulla, avevo solo fatto un corso». La campionessa di scacchi iraniana Dorsa Derakhshani, 19 anni ancora ride evocando il suo debutto. Ma si rabbuia subito ricordando che un anno fa, era il febbraio 2017, la Federazione del suo Paese le ha proibito di competere in Iran o indossare i colori iraniani, rea di “aver danneggiato gli interessi nazionali” giocando a capo scoperto al torneo Tradewise di Gibilterra. Così la seconda più brava scacchista dell’Iran, 185esima nel mondo, si è trasferita in America, accettando una borsa di studio dell’Università di Saint Louis. Ad aprile parteciperà al suo primo torneo americano ed entro un anno, spera, indosserà i colori della nazionale: a stelle e strisce.
Da Teheran a St. Louis il viaggio è lungo. Cambiare vita per un velo?
«Ho giocato per la nazionale iraniana dal 2011 al 2015. Quando rappresentavo il mio Paese seguivo le regole, comprese quelle sugli abiti. Il velo non mi infastidiva, ero concentrata sul gioco, non mi sentivo in trappola. Presto mi sono però resa conto che agli uomini della Federazione importava più come vestivo che come giocavo. Nel 2014 agli Asian Championship – che avevo già vinto tre volte – mi fecero una scenata per certi jeans che indossavo. Risposi che non avrei giocato se non mi lasciavano stare.
Mi fu chiaro che tenevano più al velo che alla testa che c’era sotto».
Com’è nata la sua passione per gli scacchi?
«A 4 anni sapevo già leggere e scrivere e suonavo uno strumento locale, il Santur, tanto che mi ero perfino esibita in tv. In Iran non ci sono scuole per bambini prodigio e dunque i miei genitori cercavano di stimolarmi come potevano. Lezione di canto, pittura. Provarono anche gli scacchi: me ne appassionai subito».
Sognava già di diventare una campionessa?
«In realtà il mio primo sogno fu quello di fare la cantante. Ma in Iran le donne non possono esibirsi in pubblico. Così scelsi qualcosa in cui potevo competere anche se ero una ragazza. Certo non avevo le idee chiare: in Iran ancora non c’erano scacchiste da prendere a modello».
Perché decise di lasciare il suo Paese?
«Finito il liceo ero la seconda migliore al mondo sotto i 18 anni.
Capii che per sviluppare il mio talento dovevo focalizzarmi sul gioco da sola: andando all’estero.
Con l’aiuto dei miei genitori andai a Barcellona, in Spagna e giocai per un club locale. Ancora affiliata alla Federazione iraniana per entrare in certe competizioni internazionali»
Fu allora che abbandonò il
velo?
«Volevo essere me stessa. Sapevo di essere una persona onesta che si comportava moralmente bene, non avevo niente da rimproverarmi».
Fino a quel torneo a Gibilterra...
«Avevo una fascia per tener fermi i capelli. Non rompevo nessuna regola. Parliamoci chiaro: anche altre ragazze iraniane giocavano a capo scoperto all’estero e la Federazione lo sapeva. Ci dicevano: non fatevi fotografare. A me però riservarono un trattamento particolare. Espulsa insieme al mio fratellino. Forse avevano capito che ero uno spirito libero. Non sarebbero riusciti a cambiarmi...»
Un cattivo esempio?
«Mia madre mi ha insegnato che per far accadere cose positive bisogna essere brave persone: io mi vedo così. Semmai si sommarono diverse cose: mio fratello Borna, 14 anni, in un torneo fu accoppiato dal computer a un israeliano, Paese che l’Iran non riconosce. Lui non lo sapeva, ma fece scandalo. A Teheran poi c’erano i mondiali di scacchi femminili: che alcune campionesse boicottarono per la questione dell’hijab. Le uniche tre iraniane vennero subito eliminate. La mia espulsione servì a distrarre il pubblico».
Come reagì?
«Fu un atto gratuito che mi sorprese. Non giocavo nemmeno più per loro! Nessuno mi avvertì ufficialmente: stavo viaggiando e quando riaccesi il telefono il mio Instagram era impazzito, all’imporvviso avevo migliaia di followers. Un’amica mi scisse dell’Iran: “Ti hanno arrestata?”» .
Perché ha scelto di andare in America?
«Mi hanno offerto una borsa di studio per realizzare il mio sogno, diventare medico, che poi è la cosa che vedo più vicina al gioco degli scacchi. Prima immaginavo una buona partita come una danza. Ora penso piuttosto a una operazione chirurgica di successo. Dove riesci a mettere le cose insieme in modo che tutto funzioni. E poi a Saint Louis c’è uno dei club di scacchi migliori del mondo. Per me è un onore essere stata ammessa».
In Iran molte donne protestano contro il velo obbligatorio finendo in prigione. Cosa ne pensa?
«Rispetto tutte coloro che fanno quello in cui credono. Io sono molto fiera dei miei capelli e capisco tutte le altre ragazze che lo sono.
Nessuno dovrebbe obbligarle a coprirli».
Donald Trump ha messo in discussione l’accordo con l’Iran sul nucelare: questo cambia la sua visione dell’America?
«Non mi occupo di politica. Ma l’America è il paese delle opportunità. Spero continui a offrirle a chi ha un sogno, come me.
Il mio è arrivare alle Olimpiadi.
Giocare come cittadina americana».

Il Fatto 12.3.18
Il mistero della morte del Guevara di Lucania
Ninco Nanco, ucciso nel 1864
di Giampiero Calapà


“Un colpo inopportuno di fucile ne abbreviava i giorni immergendolo in eterna notte”, stabilisce la circolare periodica del primo semestre del 1864 del corpo dei carabinieri reali, decima legione, Salerno. Questa è la fine della leggenda di un criminale feroce o di un eroe del popolo a Castello Lagopesole, in lucano Lu Quastìdde per le circa 600 anime che ci vivono oggi sotto le insegne del Comune di Avigliano, provincia di Potenza nel Sud che più Sud non si può, oltre quella Eboli dove si fermò Cristo.
Il diavolo o santo risponde al nome di Ninco Nanco, morto a 31 anni, ucciso dal proiettile inopportuno sparato da una delle guardie che stava per arrestarlo o da qualcun altro alle sue spalle, enigma mai chiarito ma che poco interessa perché il morto ammazzato è perdente tra i perdenti, “brigante” sconfitto dalla “civiltà” piemontese in nome dell’Unità d’Italia.
Diavolo o santo, assassino o anarchico
Domani, 13 marzo, ricorre l’anniversario di quella esecuzione sommaria senza processo, immortalata in una fotografia – monito per gli altri zappaterra meridionali armati – che 102 anni prima anticipa per somiglianza impressionante un altro scatto divenuto però di fama mondiale: il cadavere di Che Guevara in Bolivia. La storiografia più o meno ufficiale ha condannato Giuseppe Nicola Somma, detto Ninco Nanco, senza appello: “Apparteneva ad una famiglia dal curriculum criminale di tutto rispetto, in particolare lo zio materno, Giuseppe Nicola Coviello, era stato un bandito tra i più temuti del luogo e finì bruciato vivo dalla polizia borbonica nella capanna ove si era nascosto per sfuggire alla cattura. (…) Gli esempi familiari e la personalità ribelle di Ninco Nanco, offrivano ampie garanzie di un futuro da fuorilegge. Sia l’aspetto che il contegno non erano di meno”, scrive Giordano Bruno Guerri ne Il Sangue del Sud (Mondadori). Una memoria rigettata nell’infamia di una vita da tagliagole, ma quell’immagine eroica del vinto in armi per un ideale è diventata da qualche anno bandiera del Sud che cerca riscatto.
Su bandiere e magliette come l’argentino
Vessillo che si alza immancabile dal 2010 ai concerti di Eugenio Bennato – il cantautore napoletano nel 1979 già autore con Carlo D’Angiò di Brigante se more – al suono delle prime note di Ninco Nanco: “1859, muore il vecchio re Borbone e sul trono va suo figlio, 23 anni, ancora guaglione. È il momento di approfittare di questo vuoto di potere, di quel regno in mezzo al mare difeso solo dalle sirene. E u Banco ’e Napoli è l’ideale per rifarsi delle spese, per coprire il disavanzo della finanza piemontese. E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce pò stare, e Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale”.
La tana di Bennato è uno scantinato-officina di musica e cultura al Vomero, la sede di “Taranta power” nella Napoli eterna capitale di un Sud decadente quanto fervente di vita e bellezza: “La capigliatura, la compostezza, quell’uomo morto assomiglia a Che Guevara e ha un nome, Ninco Nanco, che si presta a una ballata. La musica non si fa per istanza ideologica, non sono uno storico e non celebro i crimini di Ninco Nanco, celebro la bellezza e la passione della ribellione. Una ribellione anarchica, non neoborbonica anche se qualche nostalgico buontempone ha provato ad appropiarsene”.
Col Fidel Castro degli anti-Savoia
Se Ninco Nanco è una sorta di Che Guevara ante litteram, il Fidel Castro di Lucania era Carmine Crocco detto Donatello (catturato nello stesso 1864 dai papalini e morto nel 1905 scontando l’ergastolo a Portoferraio, Isola d’Elba), alla cui banda l’aviglianese si unì per insorgere contro l’offensiva di Torino. “Per sconfiggere il brigantaggio – canta Bennato – e inaugurare l’emigrazione bisogna uccidere il coraggio e Ninco Nanco è meglio che muore. Perché lui è nato zappaterra e ammazzarlo non è reato e dopo un colpo di rivoltella l’hanno pure fotografato”. Sono in tre asserragliati a Lu Quastìdde quando carabinieri e guardie, preti al seguito, intimano la resa.
Quel proiettile in gola
“L’ultimo a uscire fu Ninco Nanco con le armi in resta e girando gli occhi intorno per vedere ove meglio avesse potuto adoperare il suo brutale furore: ed al certo, qualche vittima avrebbe immolata alla sua ferocia, se un caporale della guardia nazionale a nome Nicola Coviello Summa, vedendolo in quel terribile atteggiamento, per impedirgli di menare in atto qualche criminoso eccesso, gli appuntò il fucile alla gola e lo stese cadavere”, si legge nella “risposta del cavaliere Benedetto Corbo di Basso al non cavaliere Giovanni Padula, venditore di cenci di Montemurro” raccolta in Il brigantaggio meridionale di Aldo De Jaco (Editori riuniti). “E lo Zolfo di Sicilia – spiega la canzone – e i cantieri a Castellammare e le fabbriche della seta e Gaeta da bombardare. È l’ideale che fa la guerra, una guerra dichiarata per vedere chi la spunta tra il fucile e la tammurriata, e tammurriata è superstizione, questa storia deve finire e qui si fa l’Italia o si muore e Ninco Nanco deve morire”. Non prima dell’ultima sfida di un brigante che sussurra: “Quant’è bello murire acciso”.

Il Fatto 12.3.18
“Nessun governo ha voluto investire in cultura. Renzi non ha capito il Paese”
Andrea Marcolongo - La scrittrice: “Racconto gli Argonauti: dobbiamo ricominciare a desiderare”
di Francesco Musolino


“Eroe è chi sceglie di non tradirsi, chi non ha timore di fallire”. Con il suo libro d’esordio, La Lingua Geniale, ha venduto quattrocento mila copie in giro per il mondo ricordandoci l’importanza del greco per comprendere il nostro mondo social e frammentato. Una tournée l’ha fatta scoprire all’estero, è stata celebrata da Le Monde, prima in classifica Oltralpe, tanto che la ministra della Cultura era seduta in prima fila al suo incontro alla Sorbona. Adesso torna in libreria con La Misura Eroica che è stato presentato ieri a Tempo Di Libri. Scritto nella sua città adottiva, Sarajevo, racconta il viaggio degli Argonauti, eroi che presero il mare per la prima volta nella storia andando alla ricerca del misterioso vello d’oro, parlando dell’amore di Giasone e Medea, del timore di soffrire. Un libro che segna il suo passaggio alla maturità: “Siamo come navi e dobbiamo prendere il mare, persino a costo di naufragare”. Senza dimenticare la politica: “Renzi non ha compreso la tecnica dello storytelling, il paese gli è sfuggito di mano”.
Dopo un successo internazionale è stato difficile tornare a scrivere?
Non è stato facile accettare il rischio e rifiutare la comodità di non scrivere alcun proseguimento sull’amore per il greco. Volevo solo lavorare a un altro libro che mi rendesse felice, senza tradirmi.
Scrive che abbiamo perso il coraggio di desiderare. Cosa intende?
Abbiamo una naturale tendenza al desiderio. Scegliere di desiderare significa guardare le stelle eppure per realizzare i desideri dobbiamo rimboccarci le maniche. Preferiamo non rischiare mai che i nostri sogni si realizzino.
I Millennials hanno paura?
Gli adulti ne hanno molta di più. A 18 anni è semplice stare su Tinder, il mondo ti sembra immenso. A 30 o 40 anni finiamo per pensare che la nostra vita non possa cambiare.
E in Italia?
La tendenza a tirare a campare non è una cosa solo italiana. Ho l’impressione che non abbiamo i mezzi per vivere una gioia o attraversare un dolore.
Si spieghi meglio.
Avere nostalgia di qualcosa o qualcuno è un privilegio, significa che hai vissuto e amato.
Chi sono gli eroi?
Nell’antica Grecia erano coloro che sceglievano di non tradire la propria natura. La misura eroica è proprio questa, avere il coraggio di andare. E se dovessi cadere, ti rialzerai.
Ma perché ricorrere ad un mito per parlare dell’oggi?
Non sapremo mai cosa fosse il vello d’oro. Negli Argonauti c’è qualcosa di mistico, più che l’Iliade e l’Odissea. Ciò che questi uomini trovano non può essere altro che una cosa, l’amore.
Lei scrisse per Renzi il discorso sulla Generazione Telemaco ed è stata una dei volti della Leopolda nel 2012. Pentita?
Nient’affatto. Mi sembrava l’ultima chiamata per far ripartire il Paese. Purtroppo il segretario del più importante partito di sinistra ha dimostrato di non aver capito l’essenza dello storytelling.
Ovvero?
La differenza sostanziale che corre fra la realtà dei fatti e quella percepita. La disoccupazione cresceva e lui raccontava un Paese diverso. Non ha più compreso ciò che aveva attorno.
La politica ha smesso di essere punto di riferimento?
Oggi lo spaesamento è enorme. Mi sembra evidente che la politica abbia smesso di occuparsi del presente. Oggi trionfa l’ignoranza, si è giocato sulla paura e sulla rabbia senza alcuna voglia di rivendicare la bellezza. All’estero siamo il Belpaese ma scordiamo il valore dell’estetica che poi conduce dritta sino all’etica.
E la cultura che peso ha?
Nei recenti governi nessuno ha compreso che bisognava investire proprio sulla cultura. Ma non sono pessimista. L’Europa è una possibilità, non una zavorra.