La Stampa 6.3.18
La debolezza delle forze progressiste
di Giovanni Sabbatucci
Nelle
prime elezioni dell’Italia liberata, quelle del 2 giugno 1946, i due
maggiori partiti della sinistra italiana, Psi e Pci, ottennero insieme
circa il 40% dei voti. Lungo tutto l’arco della Prima Repubblica, le
forze politiche che in vario modo si consideravano «di sinistra» non
scesero mai sotto un livello che si aggirava intorno a quel 40% e spesso
lo superava. Nella Seconda Repubblica, che avrebbe dovuto consacrare la
vocazione governativa e maggioritaria di un centro-sinistra liberato
dagli impedimenti del fattore K, quel livello si andò man mano
abbassando; e alle forze di ispirazione progressista non bastò, per
invertire la tendenza, assorbire nelle file del nuovo Partito
democratico niente meno che il grosso della ex Dc, architrave del
vecchio sistema: nel 2013 il Pd bersaniano non riuscì a toccare il
limite di un terzo dei voti raggiunto da Veltroni nel 2008. Col 25%
circa del 4 marzo, la sinistra sembra ora aver raggiunto una soglia
negativa sotto la quale c’è solo un destino di marginalità.
Il
fenomeno, in realtà, non riguarda solo l’Italia. I socialisti francesi
se la passano peggio dei progressisti italiani. E i socialdemocratici
tedeschi, come si è visto, non sembrano avere un futuro diverso da
quello di stampella della governabilità a guida democristiana, seppur
non è escluso che possano trarre vantaggio dalla prova di responsabilità
appena fornita. Ma in Italia è l’intera sinistra – da quella moderata a
ciò che resta di quella estrema – ad attraversare una crisi che non è
esagerato definire epocale e per la quale è difficile indicare
plausibili vie d’uscita.
I motivi sono diversi e si possono solo
accennare. Non sopravvaluterei il fattore-corruzione. La corruzione
c’era anche prima, e in misura anche maggiore: oggi è lo scontento a
ingigantirne la percezione, non il contrario. All’origine dello
scontento ci sono innanzitutto le trasformazioni socioeconomiche
culminate nella lunga crisi del dopo-2008. Trasformazioni che non solo
hanno accresciuto il tasso di disuguaglianza nei Paesi sviluppati, ma
hanno interrotto un lungo percorso di complessivo e graduale progresso
e, quel che è più grave, gettato ombre sulle prospettive delle
generazioni più giovani. Come era già accaduto negli Anni 30 del secolo
scorso, la crisi economica ha minato la fiducia nelle classi dirigenti
democratiche, giudicate incapaci di mantenere promesse di crescita
incautamente formulate e di proteggere i cittadini dalle vecchie e nuove
precarietà e dalle paure generate dai fenomeni migratori.
Non
stupisce allora che a fare le spese di questa diffusa, e non sempre
razionale, ondata di frustrazione e di rancore siano stati in primo
luogo proprio i partiti socialisti. Quelli che, in una prima fase,
avevano incarnato le speranze di palingenesi e le utopie egualitarie
delle classi subalterne, per poi ripiegare su una funzione di
rappresentanza degli interessi dei lavoratori dentro i regimi
liberal-democratici, diventando così, in quanto polo progressista, un
elemento stabilizzatore di quei sistemi. Questo equilibrio virtuoso era
però reso possibile dalla relativa abbondanza di risorse e
dall’espansione demografica che caratterizzarono, fra il ’45 e il ’73,
l’età dell’oro delle economie di mercato. Il tutto diventava più
difficile nel momento in cui le trasformazioni economiche e i trend
demografici rendevano sempre meno sostenibili le politiche di Welfare.
Mentre
i conservatori possono presentarsi come paladini dell’austerity (e non
sempre lo fanno), i socialisti non possono rilanciare oltre un certo
limite le loro politiche sociali, anche perché su questo terreno saranno
sempre sopravanzati dai movimenti populisti che non si fanno troppi
scrupoli nel promettere l’irrealizzabile e nel raccogliere così il
consenso di arrabbiati e delusi. Tanto la colpa sarà sempre di qualcun
altro. La crisi passerà, anzi sta già passando: ma recuperare quei
consensi non sarà facile né scontato. E l’avere alle spalle una gloriosa
tradizione potrebbe rivelarsi un ostacolo più che una risorsa.