lunedì 5 marzo 2018

La Stampa 5.3.18
Quelle melodie rossiniane sulle quali Leopardi amava “lagrimare”
Nel 2018 ricorre il 150° anniversario di Gioachino Rossini. Il poeta amò la sua musica e prese le distanze dagli intenditori che in alcuni scritti definì «intendenti»
di Rita Italiano


Il 2018, si sa, è anno rossiniano. Anniversario di quelli che contano nell’ufficialità: 150 anni dalla morte del compositore. Per onorarlo, torniamo al febbraio del 1823. Al Teatro Argentina di Roma si rappresenta «La donna del lago», opera appunto del maestro Gioachino Rossini. In un palco siede, attentissimo e in qualche momento commosso, uno spettatore d’eccezione: Giacomo Leopardi.
Nonostante le discutibili consuetudini organizzative dei teatri romani che avevano reso «intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore, e qui non s’usa d’uscire dal palco proprio», Leopardi fu assai dilettato da ciò che vide e soprattutto da ciò che ascoltò. Una serata interamente dedicata alla musica rossiniana. Testimonianza di questa esperienza è in una lettera al fratello Carlo che era stato coinvolto ed emozionato a sua volta da uno spettacolo rossiniano.
Il 5 febbraio 1823 Giacomo gli scriveva: «Mi congratulo con te dell’impressioni e delle lagrime che t’ha cagionato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina “La donna del lago”, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso».
Rapide annotazioni che sono quasi preludio a un denso passo, un raffinatissimo micro-saggio dello «Zibaldone» nel quale, tra il 20 e il 21 agosto dello stesso anno, Leopardi prendeva le mosse proprio da Rossini. Con precisione e chiarezza ne analizzava la musica che, affermava, risulta «universalmente grata» perché le sue melodie sono «totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo». L’intelligenza compositiva di Rossini risiede infatti nel nutrire la propria ispirazione di quelle sequenze di toni «che il popolo generalmente conosce». Si prestano perciò ad abitudini di ascolto che «non hanno regola determinata» e possono variare a seconda dell’epoca, del luogo e delle preferenze del singolo.
Il gusto musicale, del resto, si affina nell’ascolto. Senza appellarsi a principi indefettibili, e magari contravvenendo al loro dettato. Al riguardo, Leopardi riferiva la sua esperienza personale. A partire dal suo «primo udir musiche». Allora «io trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di toni, che ora mi paiono armoniche, e nell’udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia». Descriveva così il suo rapporto spontaneo e felice con la musica, rispondente alla disposizione di spirito nella quale si pongono coloro che «non hanno altra regola e canone che l’orecchio».
Leopardi considerava, prendendone le distanze, il comportamento degli intenditori di musica (che lui chiamava «intendenti»). Essi si rifanno tutti a un metro di giudizio comune che vuole «un’arte uniforme, distinta in regole, universalmente abbracciata e riconosciuta, co’ suoi principii fissi e invariabili e universali».
In breve, gli intendenti «giudicano e giudicando sentono». All’opposto, i non intendenti «sentono e sentendo giudicano». Per cui accade che quelle che «per il popolo sono squisitissime, carissime, bellissime, spiccatissime e dilettosissime melodie», per gli intenditori «non siano neppur melodie». Anzi, essi finiscono per respingere e non comprendere «melodie distintissime, evidentissime, notabilissime e giocondissime».
L’atteggiamento degli intendenti, tutto rivolto al rispetto delle convenzioni stabilite, chiuso al presente e alle potenzialità di nuovi modi di composizione, era una sorta di stigma che non risparmiava il Maestro pesarese. Era evidente «nel giudizio degl’intendenti circa il comporre di Rossini», almeno un errore di valutazione.
Nei suoi confronti essi ostentavano distacco, trincerandosi nel loro conservatorismo difensore a oltranza degli schemi. Più in generale, la loro critica colpiva «il modo della moderna composizione» che dichiaravano non in grado di «reggere in grammatica» e, in aggiunta, «scorrettissima e irregolare». In sostanza, roba popolare da non prendere in considerazione.
Un parere dal quale Leopardi dissentiva convintamente: il «ravvicinamento al popolare è non solo buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica; in questo ravvicinamento, dico, vediamo quanto l’effetto della musica abbia guadagnato e in estensione, cioè nella universalità, e in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche talor maggior commovimento degli animi».
I profani sono ascoltatori più inclini ad accogliere il nuovo, «ignorando o trascurando più o manco i canoni dell’arte». C’è quindi da augurarsi che possa sempre più affermarsi un modo emancipato e franco di comporre, così da avere una creazione artistica vicina a ciò che è noto e caro al grosso pubblico. L’arte della musica, del resto, ebbe come atto di nascita lo scopo di «proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari».
E questa è la sua sfida vincente. Sfida persa, invece, ogni qualvolta la pratica compositiva si chiude in se stessa e riducendosi in un ripiegamento sempre più angusto a mero esercizio cerebrale, trascura «il suo primo e proprio fine, cioè di dilettare e muovere l’universale degli uditori ed il popolo». Se dimentica di questo, la musica diviene materia d’esclusiva applicazione delle regole, riuscendo a «dilettare, o meravigliare, o costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima classe di persone, cioè quella degl’intendenti». Un circolo elitario.
Questa invece la prova regina del valore dell’arte del compositore Gioachino Rossini secondo Giacomo Leopardi: il talento vero dei compositori si riconosce «quando le loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori ne siano colpiti e meravigliati come di melodia nuova» e liberamente «sentano al primo tratto ch’ella è melodia».