il manifesto 5.3.18
Internazionale
Ilan Pappe: «Parlare di Palestina è decolonizzazione»
Palestina.
Intervista allo storico israeliano Ilan Pappe, ospite della rassegna
Femminile Palestinese: «L’accademia riproduce il discorso sionista»
di Chiara Cruciati
SALERNO
«Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione. È
una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal
colonialismo di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome
della libertà accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un
popolo».
Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali
ricerche storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo
palestinese, ha di fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti
dell’Università di Salerno, richiamati da un evento importante. Insieme
all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori Gennaro Avallone
e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria
Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e
libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro
connesse, dalla privatizzazione dell’accademia al rapporto con lo spazio
urbano fino ai legami di potere e visione neocoloniale tra atenei ed
élite economiche neoliberiste.
«Il discorso sionista è fondato su
basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione – spiega Ilan
Pappe – Per questo il mondo accademico israeliano si è mobilitato: si
dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i materiali con cui la
narrazione sionista è stata costruita non è solo un esercizio
intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un
popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina
all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour,
passando per il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla
dichiarazione di Trump su Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente
percepiscono la Palestina come un affare interno. E questa falsa
rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale visione i
palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e non
come nativi».
«Il secondo materiale è la natura del progetto
coloniale sionista: un colonialismo di insediamento del tutto simile a
quello perpetrato in Nord America, Australia e Sudafrica. La presenza di
popoli indigeni che non corrispondevano alla popolazione desiderata dai
coloni europei si è tradotta in genocidio nei primi due casi, in
apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in Palestina. L’idea che gli
indigeni siano gli invasori sta alla base di questo tipo di colonialismo
ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della Palestina in
questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute di
questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero
di palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di
disumanizzazione che il neoliberismo applica ai lavoratori».
Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico israeliano a margine dell’incontro di Salerno.
Il
6 dicembre il presidente Usa Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale
di Israele. Un atto meramente simbolico, che non modifica lo status
della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è
simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel messaggio inviato
alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel caso di
Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto
dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano
mai trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto
internazionale non è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità
internazionale ha sempre sperato che quella legge avesse un significato.
La dichiarazione di Trump ha un effetto concreto: se il diritto
internazionale non ha valore a Gerusalemme, allora non ha valore nemmeno
nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento:
costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi
ha sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due
Stati, nel processo di pace che tutti questi strumenti non saranno
d’aiuto nella lotta contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque
pensare a un approccio diverso, simile a quello che venne adottato
contro il Sudafrica dell’apartheid.
Israele è assunto come modello
securitario, sia nel sistema di controllo che nella logica della
separazione tra un «noi» e un «loro», che nella fortezza-Europa si
traduce nella chiusura ai rifugiati.
La cosiddetta guerra al
terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A Francia, Belgio, Stati uniti
e così via, Israele ha dato consigli e sostegno sul modo di gestione
della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare il sistema
legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato il
guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante
perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di
liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è
fondamentale per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione
uguale terrorismo. È nostro compito smentire questa falsa equazione.
Da
cosa deriva l’impunità di cui gode Israele per le violazioni contro il
popolo palestinese? È l’effetto dell’auto-assoluzione del colonialismo
europeo, che ha preso parte alla nascita di Israele, o il sionismo è
ormai sfuggito al controllo occidentale?
In Europa l’impunità di
Israele ha a che fare con l’Olocausto e con la questione ebraica che non
è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo europeo non è mai
stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee Israele è uscito
dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A questo
vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo
che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è
diverso: qui l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche,
cristiano-sioniste e ovviamente di quello dell’industria militare. Penso
che l’eredità coloniale sia solo una delle cause di questa immunità.
Quello che sarà interessante vedere è se le future generazioni
occidentali si porteranno ancora dietro il senso di colpa europeo per
l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso modo.
Quanto
si è modificata nel tempo la società israeliana? Oggi siamo di fronte
ad un popolo sempre più spostato a destra, come la leadership.
Era
inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La
possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche
democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando
oggi. È un inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare
la carta della democrazia. Passerà del tempo prima che la società
israeliana cambi o si trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu
sarà cacciato a causa degli scandali corruzione che affronta oggi, la
natura del regime non cambierà.