La Stampa 4.3.18
Mimmo Cándito, un inviato
davvero speciale
Morto
a 77 anni. Ha raccontato perLa Stampai conflitti che hanno segnato il
nostro tempo, dal Libano alla Somalia, dalle Falkland al Golfo, senza
scivolare nel cinismo
di Cesare Martinetti
Di
inviati ce ne sono tanti, di veramente speciali ce ne sono sempre stati
pochi. E invece basta pronunciare queste due semplici parole, Mimmo e
Cándito, che il riflesso viene istintivo e si riempie di vita: «inviato
speciale». Dove? In tutte le guerre, in ogni parte del mondo.
Nell’emozione e - scusate - nella commozione, andiamo a memoria: non c’è
stato conflitto significativo negli ultimi quarant’anni che Mimmo non
abbia respirato, osservato, misurato a passi e bracciate e infine
raccontato per i lettori della Stampa. Dal Libano alla Somalia, dalle
Falkland al Golfo, dall’Irlanda all’Afghanistan, al deserto iracheno,
alla Libia del dopo Gheddafi.
E anche il suo personale e
drammatico conflitto è diventato un racconto, quello contro il cancro,
che alla fine l’ha sconfitto. Ma che guerra, quante battaglie in questi
tredici anni, combattute con la ragione e la volontà. E l’illusione di
aver vinto, ma anche questa appartiene alla ragione, o all’elaborazione
di una difesa necessaria per vivere. Così aveva scritto lui stesso, tre
anni fa, nel libro dedicato alla malattia: «Guerra o tumore sono la
stessa cosa, devi averne paura ma anche devi saperci lottare per salvare
la pelle. E quello che conta, soprattutto, è la testa, la volontà, la
capacità di ricominciare senza darsi sconfitti e nuotare fino a 55
vasche o anche più».
Quelle «vasche» erano diventate titolo del
suo racconto (pubblicato da Rizzoli nel 2015) e paradigma della volontà
di vivere, dopo l’intervento chirurgico, durante la chemio e tutto
l’alterno corredo di terapie e stati d’animo che si accompagnano e si
susseguono in queste battaglie.
Ma in che cosa era «speciale» il
lavoro da inviato di Mimmo? In quella che è - o dovrebbe essere - la
normalità della professione di giornalista, che nella sua essenza si
riduce a essere un testimone di avvenimenti per conto del lettore. Si
può esserlo nell’angolo più sperduto della Terra o nella periferia della
propria città. Quello che conta è il modo in cui si guardano i fatti e
si ascoltano i protagonisti di quei fatti. Conta avvicinarsi il più
possibile a essi, immergervisi, andarci senza pregiudizi, che non vuol
dire senza giudizio, e cioè ben informati di che cosa si sta raccontando
e del perché. L’obiettività, nel giornalismo, è un mito astratto;
l’onestà del racconto è invece un dovere di cui chiedere conto.
Ryszard
Kapuscinski, un altro grande «speciale» tra gli inviati, polacco e
giramondo, ha costruito la sua memoria professionale sul detto che «il
cinico non è adatto a questo mestiere». Ed è una definizione che si
calca perfettamente nella biografia di Mimmo Cándito. Nessun sentimento
gli era più estraneo del cinismo. Anche l’osservazione della morte e la
sua elaborazione appartenevano alla sua quota di professionalità. Vivere
e condividere le circostanze più atroci, come una strage di bambini per
effetto di armi chimiche in un quartiere di Damasco, o lo «spettacolo»
della lapidazione di un’adultera allo stadio di Kabul.
Per far
bene tutto questo ci vuole un candore del tutto speciale, come può
essere quello di uno che aveva avuto in sorte di chiamarsi Cándito e
sembrava un hidalgo fuori del tempo, con un fisico e una pelle, persino,
che appariva la corazza più appropriata per uno che doveva attraversare
il pianeta, scarponcini o sandali ai piedi, non importa, giacca a vento
o una «candida» e mimetica djellaba
h indosso.
Nulla
sembrava sproporzionato in Mimmo, perché tutto era già fuori di misura:
la sua statura, la mole di giornali e di ritagli che accumulava prima di
partire per un reportage, l’ambizione della meta, l’ostinazione nel
cercare e ricercare un testimone, nel verificare una fonte, la
generosità con i colleghi, l’incapacità di cedere a facili compromessi
per strappare un titolo in prima pagina.
Anche quel vezzo
hemingwayano nella scrittura apparteneva a un’etica giornalistica che
rovescia il luogo comune redazionale: non è la verità a rovinare una
bella storia, semmai il contrario. L’esercizio retorico diventa
stucchevole quando ripetuto, superficiale, gratuito: letteratura senza
letteratura. Nei reportage di Mimmo ogni immagine invece si giustificava
sul fondo del lavoro di ricerca che l’aveva germinata, plasticamente
aderente alle notizie, rifletteva come uno specchio lo stato d’animo con
cui lui guardava a quei fatti.
Reporter di guerra, è stato il suo
lavoro e cioè la sua vita, era la sua anima, negli ultimi anni
trasmessa ai ragazzi dell’università di Torino, alla guida della sezione
italiana di «Reporters sans frontières» e anche nella passione (non
hobby) della lettura che lo aveva portato a dirigere il mensile di libri
e letteratura L’Indice.
Ma la seconda guerra del Golfo aveva
cambiato il suo sguardo. La prevalenza di informazione raccolta su
Internet, per lui che nel ’91 aveva respirato il fumo avvelenato dalle
bombe sui pozzi di petrolio nel deserto tra Kuwait e Iraq, rappresentava
un’amara eresia.
Gli inviati ci sono ancora ed esisteranno
sempre, ma per essere «speciali» ci vuole il coraggio e l’umanità di
Mimmo Cándito. È stato un privilegio per noi lavorare con lui. E per i
lettori della Stampa leggere i suoi articoli.