La Stampa 30.3.18
E Carlo Alberto “liberò” gli ebrei
170 anni fa il decreto che estendeva i diritti civili ai non cattolici
di Elena Loewenthal
Quest’anno
 la Pasqua avrà un sapore particolare per gli ebrei del Piemonte. Nei 
giorni intermedi della settimana di festa, se nella piccola sinagoga 
torinese dove un tempo c’era il forno per le azzime capiterà di 
rivolgere uno sguardo all’armadio santo - che contiene i rotoli della 
Torah - dipinto di nero in segno di lutto accorato per la morte di re 
Carlo Alberto, lo si farà con pizzico di malinconia tutta particolare e 
una gratitudine indimenticabile.
Perché proprio cento e 
settant’anni fa - il 29 marzo 1848 - il sovrano piemontese firmò sul 
campo di battaglia di Voghera un decreto col quale concedeva tutti i 
diritti civili agli ebrei e agli altri «acattolici», aprendo quel 
processo di emancipazione che fu fondamentale non soltanto per i figli 
d’Israele - e fra gli altri anche per i Valdesi del Piemonte - ma prima 
ancora per la civiltà. Fino a quello storico momento e per quasi duemila
 anni, infatti, gli ebrei avevano vissuto rinchiusi dentro 
un’emarginazione fisica e teologica: erano i «perfidi giudei», cioè gli 
infedeli per eccellenza, erano l’unico «diverso» dentro una società 
europea perfettamente uniforme. Ma in quanto testimoni viventi della 
passione di Gesù e del messaggio cristiano andavano preservati come una 
sorta di reperto archeologico a vista. In questo equilibrio fra colpa e 
sopravvivenza a uso teologico gli ebrei erano stati sempre sottoposti a 
una ricca serie di divieti e privazioni e trattati non da cittadini ma 
da stranieri spregevoli, anche se come nel caso del nostro Paese 
potevano vantare una continuità e delle radici millenarie.
Con la 
firma di Carlo Alberto, che da quel giorno in poi fu per gli ebrei 
piemontesi un vero e proprio idolo - con tutto il rispetto per il 
rigoroso monoteismo biblico - gli ebrei divennero «come gli altri» pur 
nella loro diversità. E se oggi la parità di diritti civili è 
giustamente un dogma della democrazia, bisogna pensare che a quel tempo 
rappresentò un passo sorprendente.
E Carlo Alberto diede prova di 
una straordinaria lungimiranza, degna di un grande sovrano, pur senza 
derogare al rinomato (mai abbastanza rinomato, a dire il vero) 
understatement piemontese: «Sulla proposta del nostro Ministro 
Segretario di Stato per gli affari dell’Interno, abbiamo ordinato ed 
ordiniamo: Gli Israeliti regnicoli godranno, dalla data del presente, di
 tutti i diritti civili e della facoltà di conseguire i gradi 
accademici. Nulla è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle
 scuole da essi dirette. Deroghiamo alle leggi contrarie al presente». 
In questo scarno frasario del Regio Decreto del 29 marzo del 1848 sta 
racchiusa quella rivoluzione epocale che ha reso gli ebrei dei veri 
italiani. Anche se esattamente novant’anni dopo di allora il regime 
fascista emanava quelle infami leggi razziali cui i figli d’Israele 
guardarono innanzitutto con sgomenta incredulità.
La storia è 
molto spesso capace di stupire, nel male come allora. Nel bene di 
coincidenze che paiono costruite a tavolino, con mano sapiente e cuore 
partecipe. Proprio come la doppia ricorrenza di questi giorni, in cui i 
figli d’Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano 
nell’avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è
 il Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, 
dalla schiavitù d’Egitto all’autodeterminazione nel deserto, al di là 
del Mar Rosso. Non un mero transito bensì una vera e propria 
trasfigurazione, perché quando arriva dopo tanto tempo e tanta fatica e 
non meno sofferenza, la libertà ti cambia.
 
