giovedì 29 marzo 2018

la Stampa 29.3.18
La materia oscura è ovunque?
di Paolo Magliocco


Una gran parte della materia di cui è fatto l’universo è invisibile: quella che gli scienziati hanno definito materia oscura.
In teoria questa materia oscura dovrebbe essere ovunque, anche in mezzo a noi, come quella che vediamo e di cui è fatto il mondo che ci circonda. In realtà gli astrofisici non sanno in che modo sia distribuita nel cosmo. E adesso è stato scoperto che potrebbero esserci zone in cui la materia oscura proprio non c’è.
Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature dice che in una galassia lontana 65 milioni di anni luce da noi non c’è. O, se c’è, è pochissima. Gli scienziati hanno calcolato la massa delle stelle visibili di questo angolo dell’universo e si sono accorti che tale massa è sufficiente per spiegare il movimento della galassia stessa e in particolare la sua velocità di rotazione, senza bisogno che ci sia altra materia invisibile.
La presenza della materia oscura, infatti, viene calcolata confrontando il modo in cui si muove una galassia e la quantità di massa necessaria per spiegare questo movimento:se la massa che si vede non è sufficiente per giustificare il modo in cui una galassia si comporta vuol dire che una parte della massa che la compone c’è ma non si vede. I primi calcoli di questo genere vennero fatti negli Anni Trenta del Novecento, ma pochi ci credevano.
Dagli anni Settanta, invece, l’idea che ci sia della materia invisibile con gli strumenti ordinari e che non emette luce o radiazione elettromagnetica è condivisa dalla comunità scientifica. Oggi si ritiene che la materia oscura sia oltre cinque volte, in termini di massa, la materia ordinaria.
In oltre quarant’anni di ricerche nessuno è mai stato ancora in grado di verificare in modo sperimentale la presenza di materia oscura, che nessuno sa di che cosa sia fatta.
I ricercatori sono convinti che questa forma invisibile di massa dell’universo ci sia anche nella nostra gaalssia, la Via Lattea. Il calcolo delle quantità presenti nelle diverse zone è molto difficile, però l’ipotesi è che anche nella zona in cui si trovano il Sistema solare e la Terra la materia oscura ci sia.
In effetti, un esperimento per riuscire finalmente a rilevarla è in corso proprio in Italia nei laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso.

Repubblica 29.3.18
Colloquio con Francesco
Il Papa: “È un onore essere chiamato rivoluzionario”
L’energia è lo strumento della creazione. L’energia ha fatto esplodere l’universo
Ciascuna specie dura migliaia di anni ma poi scompare. Dio regola questa alternanza di specie
Il pensiero contemporaneo nasce secondo un punto di vista ateo da Montagne il primo illuminista
Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici che non si pentono
Con l’amore verso il prossimo la Chiesa si estende a una santità civile oltre che cristiana
Il vecchio continente  deve rafforzarsi seguendo il santo di Assisi
di Eugenio Scalfari


La nascita, la caduta e la salvezza. L’Europa, l’Africa e il Sudamerica La modernità e le sue contraddizioni. La religione e i suoi rapporti con i laici. La politica e la morale Nella settimana santa Bergoglio dialoga a tutto campo con il fondatore di “Repubblica”

La creazione, la caduta e la salvezza. L'Europa, l'Africa e il Sudamerica. La modernità e le sue contraddizioni. La religione e i suoi rapporti con i laici. La politica e la morale. Nella settimana santa Bergoglio dialoga a tutto campo con il fondatore di "Repubblica"

Questa è la settimana di passione secondo la storia cristiana, che tocca il suo culmine con l'ultima cena, il tradimento di Giuda, l'arresto di Gesù, il colloquio con Pilato e poi la crocifissione, la morte e il suono a distesa delle campane in tutte le chiese del mondo dove si festeggia il "resurrexit". Così si conclude la storia di tre anni di predicazione del figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, che in tre anni ha fondato una religione che in qualche modo continua quella ebraica della Bibbia, ma con nuovi principi che in quei tre anni hanno gettato il seme di una rivoluzione religiosa, ma anche sociale e politica nel bene e nel male, nel peccato e nel perdono, nei delitti e nella misericordia.
Martedì pomeriggio ho incontrato papa Francesco su suo invito al pianoterra del palazzo di Santa Marta in Vaticano, dove il Papa vive e riceve gli amici. Ho il privilegio di essergli amico. Ci siamo incontrati cinque volte: in una di queste ero con tutta la mia famiglia. Le altre quattro abbiamo parlato di tutto. Un non credente e il Papa, Vescovo di Roma sul seggio di Pietro e ispirato soprattutto dalle lettere di Paolo, che trasformò il cristianesimo in una religione destinata ad essere la più seguita, insieme a quella musulmana, con la quale Francesco ha cercato e cerca ancora la fratellanza in nome di un Dio Unico al quale tutte le religioni debbono ispirarsi.
Ci telefoniamo spesso, il Papa ed io, per scambiarci notizie l'uno dell'altro, ma qualche volta ci ritroviamo di nuovo insieme e parliamo a lungo. Di religione e di politica. . Questa, dicevo, è la settimana chiamata della “passione”.
Gesù e i suoi dodici apostoli arrivano a Gerusalemme accolti da una folla festante, la stessa che, dopo l’interrogatorio con Pilato, sarà chiamata a dire chi merita d’essere liberato tra Cristo e Barabba, che è già nelle galere romane di Gerusalemme.
Gesù non è ancora stato arrestato e decide di avviarsi verso il giardino chiamato Getsemani seguito dagli apostoli, li ferma e dice loro di aspettarlo. S’inoltra in quel giardino dove a un certo punto è completamente solo, si rivolge al Padre e dice: «Se vuoi e puoi, non farmi bere questo calice amaro, ma se non vuoi lo berrò fino in fondo».
Non ottiene alcuna risposta e comprende che il Padre non lo salverà. Nel frattempo, guidati da Giuda, arrivano le guardie e i legionari inviati dai sommi sacerdoti che prendono Gesù e lo portano in tribunale. Di lì, dopo avere ascoltato anche il parere dei massimi sacerdoti di Gerusalemme, la sentenza della crocifissione è definitiva e si svolge come sappiamo sulla collina del Golgota. Tutto questo, chiedo a papa Francesco, deriva dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dal loro esilio sulla terra dove da allora viviamo?
Quindi la creazione non è quella splendidamente dipinta da Michelangelo sul soffitto della Sistina, ma avviene quando Dio vede che Adamo ed Eva avevano ceduto alle lusinghe di un diavolo serpente, e hanno infranto l’unico divieto che gli era stato posto. La vera creazione dunque è nella loro cacciata dal Paradiso terrestre, è quella la creazione?
Francesco ascolta questa mia domanda e poi mi risponde in modo completamente diverso da quello che di solito viene raccontato. «La creazione – mi dice – non si compie in questo modo descritto. Il Creatore, cioè il Dio nell’alto dei cieli, ha creato l’universo intero e soprattutto l’energia che è lo strumento con il quale il nostro Signore ha creato la terra, le montagne, il mare, le stelle, le galassie e le nature viventi e perfino le particelle e gli atomi e le diverse specie che la natura divina ha messo in vita. Ciascuna specie dura migliaia o forse miliardi di anni, ma poi scompare.
L’energia ha fatto esplodere l’universo che di tanto in tanto si modifica. Nuove specie sostituiscono quelle che sono scomparse ed è il Dio creatore che regola questa alternanza».
Santità, nel nostro precedente incontro lei mi disse che la nostra specie ad un certo punto scomparirà e Dio sempre dal suo seme creativo creerà altre specie. Lei non mi ha mai parlato di anime che sono morte nel peccato e vanno all’inferno per scontarlo in eterno. Lei mi ha parlato invece di anime buone e ammesse alla contemplazione di Dio. Ma le anime cattive? Dove vengono punite?
«Non vengono punite, quelle che si pentono ottengono il perdono di Dio e vanno tra le fila delle anime che lo contemplano, ma quelle che non si pentono e non possono quindi essere perdonate scompaiono. Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici».
Santità, lei, Papa o Vescovo di Roma come preferisce chiamarsi, si occupa anche di politica?
«Lei intende di politica religiosa?».
Santità, la politica è politica, si occupa del genere umano. Per un Papa ha sempre un carattere religioso, ma non soltanto. Del resto lei mi ha sempre detto che in una Chiesa che cerca d’incontrarsi con la modernità – e lei si è assunto questo compito – come il Concilio Vaticano II ha prescritto, la politica è al tempo stesso religiosa e laica. Lei da quando segue con attenzione i suoi doveri riconosce la modernità come un traguardo da raggiungere. Da dove parte questo chiarimento?
«Storicamente direi che la modernità parte da un punto di vista ateo e culturale da Michel de Montaigne. Una lettura quasi necessaria. L’inizio dell’Illuminismo è Montaigne. Poi continua fino a Kant attraverso una serie di passaggi che naturalmente non si fermano a lui. Ma il confine della modernità che io considero non spetta a me indagarlo, comunque è bene conoscerlo. Il rappresentante della cristianità deve fare attenzione ad altri problemi. Per esempio all’educazione dei giovani. In certi casi cercano di lavorare e fanno bene, ma lavorare non è sufficiente, il lavoro va incoraggiato, ma insieme ad esso c’è un altro sentimento altrettanto necessario e forse ancora più importante: il sentimento di amore verso il prossimo, la propria famiglia, la propria città. Insisto soprattutto sull’amore verso il prossimo. La Chiesa si estende ad una santità civile e cristiana nel senso più ampio. La religione per me è di grande importanza, ma sono consapevole che il senso religioso lo si può avere in casa anche senza praticarlo. Oppure si pratica una religione ma soltanto nei suoi rituali e non con il cuore e con l’anima. Se devo dire dove oggi è più forte la religiosità indicherei le masse di popoli del Sudamerica, delle pianure dell’America del Nord, l’Oceania e la fascia dell’Africa da est a ovest. L’Africa è un continente agitato e tormentato, va molto aiutato. È da lì che sono partite le masse di schiavi con il loro carico di sofferenza».
E l’Europa, Santità?
«L’Europa deve rafforzarsi, politicamente e moralmente. Ci sono anche qui molti poveri e molti immigrati. Abbiamo detto di voler conoscere la modernità pure nelle sue cadute. L’Europa è un continente che per secoli ha combattuto guerre, rivoluzioni, rivalità e odio, perfino nella Chiesa.
Ma è stata anche una terra dove la religiosità raggiunse il suo massimo e proprio per questo io ho assunto il nome di Francesco: quello è uno dei grandi esempi della Chiesa che va compreso e imitato».
Lei, Santità, si ricorderà che io spesso, quando scrivo di lei, la chiamo rivoluzionario.
«Sì, lo so ed è una parola che mi onora nel senso in cui la dice. Lei, per quanto so, compie gli anni tra pochi giorni. Le faccio molti auguri e vediamoci di nuovo presto».
Mi ha accompagnato fino al portone, ci siamo abbracciati davanti a due guardie svizzere irrigidite sull’attenti e poi lui ha aspettato che la macchina partisse lanciandomi un bacio con le dita al quale nello stesso modo ho risposto. Tornando a casa mi sono inconsapevolmente venute in mente le frasi di Salvini, Berlusconi, Renzi e Di Maio e mi ha preso un senso di profonda tristezza. Sabato dovrò occuparmi di loro, ma la sciolta delle campane mi farà pensare all’uomo Gesù di Nazareth.
Un uomo e non più che un uomo.
Qualcuno che a lui pensa e gli somiglia c’è nella società dei nostri tempi.
La politica purtroppo è ridotta al caso.
Rimpiango i tempi di Platone.
Se noi fossimo come lui; ma purtroppo non c’è speranza.

Repubblica 30.1.18
Gesù e Maria? Perfetti per vendere
di Marino Niola


Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori. Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione. Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea.
I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio. E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire. E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non. La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale. E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento
dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali.
Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione. Mobilitando liturgia e ideologia. L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante
di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo
la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza. Perché le libertà all’inizio si scrivono
sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.

Corriere 29.3.18
Il ruolo dei dem
La crisi d’identità a sinistra
di Ernesto Galli della Loggia


È proprio la campagna elettorale del Pd per le elezioni del 4 marzo che aiuta a capire quanto c’è da capire circa le ragioni della crisi di consenso e d’identità che ha colpito quella che nonostante tutto resta l’unica formazione esistente della Sinistra italiana.
Il Pd ha fatto una campagna elettorale tutta orientata contro i due partiti che esso aveva eletto a suoi rivali per antonomasia (del tutto ricambiato naturalmente): la Lega e i Cinque Stelle. Sono stati infatti i loro principali punti programmatici — dal reddito di cittadinanza all’espulsione in massa degli immigrati clandestini, all’antieuropeismo — che hanno costituito il continuo bersaglio polemico dei Democratici. Si può dire che il volto con cui il Pd si è presentato all’elettorato sia stato quello di una sorta di katéchon , di unica forza capace di trattenere il Paese dal precipitare nelle tenebre del populismo (anche se un identico ruolo era significativamente rivendicato pure da Berlusconi). Il Pd, in altre parole, ha costruito tutta la propria campagna e quindi la propria immagine in funzione antagonistica a dei nemici politici.
È, beninteso, quanto fanno tutti i partiti, specie in una campagna elettorale. Solo che nella campagna elettorale del Pd tale attacco ai nemici politici non si è accompagnato pressoché a niente altro che non fosse il freddo elenco dei propri meriti come forza di governo.
Quali aspetti della vita pubblica e della società italiana, ad esempio, il Pd intendeva contrastare? Per quale aspetto o settore di entrambe proponeva qualche cambiamento significativo? Quali problemi nuovi additava, e quali soluzioni? Difficile saperlo.
N on dubito che forse per ognuna di queste domande da qualche parte del tale o tal altro documento o pubblicazione del partito sarà stato scritto più o meno qualcosa. Il punto è che non è certo con questo qualcosa che i Democratici si sono rivolti all’elettorato. La loro campagna è consistita unicamente nella continua sottolineatura delle presunte sciocchezze, approssimazioni o vere e proprie menzogne contenute nelle proposte degli altri (tra l’altro con l’effetto suicida che per settimane tutto il Paese ha parlato solo di queste).
Il risultato inevitabile è stato che l’immagine del Pd venutane fuori è stata quella di un partito di fatto identificato con l’esistente e con la sua difesa: fino al punto di considerare tale difesa il proprio compito principale. Insomma l’immagine tipica di un partito dell’establishment, assai più di un partito conservatore che di un partito di sinistra. Tanto più in una situazione sociale come la nostra attuale dove, lo dicono le statistiche dell’Istat, sono almeno dieci i milioni di italiani che vivono nella povertà o in condizioni di disagio assai prossime alla povertà, dove per giudizio unanime interi settori dei servizi essenziali funzionano male o malissimo, dove in intere regioni le condizioni della sanità sono una vergogna, quelle della disoccupazione insostenibili e così via proseguendo in un elenco fin troppo noto.
Ora, se è vero che un probl ema d’identificazione con l’esistente e con l’establishment è un problema più o meno comune a tutti partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale dopo decenni e decenni di governo, è anche vero che in Italia, però, tale problema è particolarmente accentuato. Per due ragioni. Innanzi tutto perché fin dagli anni 60 del secolo scorso la stragrande maggioranza del mondo dei media, dell’arte, del cinema, del giornalismo, dell’editoria, della letteratura, cioè dell’apparato culturale del Paese con tutta la vasta rete di relazioni che ad esso fa capo, si riconosce nella Sinistra. Cioè è già da moltissimo tempo, fin da quando essa era politicamente all’opposizione, che la Sinistra è parte decisiva dell’establishment italiano, ne reca i tratti distintivi. Un aspetto, questo, destinato a diventare ancora più forte dopo il 1993-94 in forza della seconda delle due ragioni di cui sopra. Vale a dire a causa della scomparsa dal panorama politico italiano di un partito di centro, moderato, quale era stato la Democrazia cristiana: la quale bene o male aveva rappresentato per mezzo secolo un fattore importante di coagulo e di rappresentanza di parti decisive della classe dirigente della Penisola. Una funzione, viceversa, che non ha di certo incarnato Berlusconi, mai riuscito a liberarsi di un suo tratto di provvisorietà e di imprevedibilità di sapore avventuristico, e di una crescente impresentabilità stilistica personale, che lo hanno sempre reso fondamentalmente lontano dall’establishment italiano. Al quale, dunque, non è rimasto allora che rivolgersi al Pd, il quale con il suo antico lignaggio nella tradizione italo-comunista appariva garanzia di serietà, solidità, competenza, nonché, ciò che non guastava, sempre più ministeriale. Da tempo tutti i poteri che contano non si sono mai schierati — di fatto e almeno pubblicamente (nella realtà e dietro le quinte magari è diverso, ma qui si sta parlando per l’appunto dell’immagine) — in maniera contraria al Pd quanto piuttosto a suo favore: una tendenza da Renzi rovinosamente assecondata.
Non è facile dire quale possa essere oggi il compito di un partito di sinistra — e perciò necessariamente socialdemocratico —, ma mi pare indubbio che un tale compito non possa che iniziare da qui. Dal contrastare qualunque visione omogeneizzatrice della società esistente per affermare, viceversa, l’immagine assai più veritiera di una società — com’è appunto la nostra — profondamente segmentata, con faglie d’ineguaglianza profonde, attraversata da visibili contraddizioni. Il che comporta poi nell’azione, e poi ancora in una campagna elettorale, non solo e non tanto scendere in campo contro dei nemici politici, ma innanzi tutto indicare geografie sociali da modificare, meccanismi nuovi da adottare, attori sociali da contrastare e altri da favorire. Non basta: mentre chi non vuole cambiare è naturale che non si senta indotto a spingere lo sguardo troppo lontano dal presente, è chi vuole una realtà diversa, invece, che non dovrebbe poter fare a meno di disegnare un futuro, il che vuol dire sempre, anche, riallacciarsi a un passato. Se il Pd si sia mosso su tali binari lo lascio giudicare a chi legge. Per quel che mi riguarda pongo solo una domanda: ma se un partito che si dice di sinistra non fa o non cerca di fare quanto sopra, che esiste a fare?

Il Fatto 29.3.18
Votiamo Ivano Marescotti for President
di Andrea Scanzi


Ho il nome giusto come presidente del Consiglio: Ivano Marescotti. Non so se l’avete visto ultimamente in tivù: ha una grinta e un piglio che, se solo Prodi o Bersani ne avessero avuta un decimo quando contava, a quest’ora sarebbero Che Guevara e il Subcomandante Marcos. È da un po’ che Marescotti staziona in tivù, soprattutto al mattino. Non fa l’opinionista o il politologo: fa l’incazzato. E gli riesce benissimo. Grande attore, comunista storico, candidato con la lista Tsipras nel 2014.
Marescotti bighellona in tivù con l’unico intento di prendere per il culo tutti quelli che hanno sfasciato la sinistra. Avendo lui vinto (ha votato M5S “per rovesciare il tavolo”) e i serial killer della sinistra perso (cioè il Pd renziano), Marescotti è quindi deliberatamente sadico. Un approccio encomiabile, perché chi in queste ore coltiva la perversione malsana di provare pietà per Renzi non ha capito nulla: in primo luogo perché Renzi non è finito (anche se è sulla strada giusta, e almeno per questo va ringraziato), in secondo perché la pietà la merita chi dopo aver creato disastri chiede quantomeno scusa. E non mi pare il caso. Ecco allora che la figura di Marescotti assume le sembianze del Giustiziere illuminato e inflessibile. Se fosse un film, e Marescotti ne ha fatti tanti di notevoli, sarebbe un western in cui lui arriva in un paese vessato da una banda di criminali e vendica la povera gente con la sua Colt. Un po’ alla Clint Eastwood e più ancora alla Lee Van Cleef. Solo che la Colt di Marescotti è una capacità dialettica vivida, che scudiscia facilmente i cortigiani renziani, unita a una voce grave e indelebile. Ivano passa di studio in studio con l’aria del sicario buono che deve cancellare tutti i nomi dei cattivi nella lista: “Migliore? Fatto. Romano? Cancellato. Marcucci? Mi manca”. E via così. Nei suoi gesti non v’è timore, nei suoi occhi non v’è paura.
In un film di Benigni, Marescotti interpretava un funzionario che si divertiva a stanare i finti invalidi per poi infierire su di essi: ora fa lo stesso, solo che i furbetti sono le Rotta & Ascani. In uno dei tanti tentativi frustrati di dire qualcosa di sensato, Andrea Romano gli ha detto due giorni fa a L’aria che tira: “Lei vorrebbe che ci cospargessimo di benzina e che poi bruciassimo vivi”.
Una frase senza senso, perfetta dunque per il soggetto che l’ha pronunciata e per tutti coloro che in questi anni tremendi hanno contribuito a sgonfiare Renzi (che peraltro è bravissimo a far tutto da solo). Marescotti, con l’aria di chi ti indica il patibolo e ci gode pure, ha sorriso come a dire: “In effetti non sarebbe una brutta idea”.
Due giorni prima si era messo in tasca Genny Migliore, facendone letteralmente scempio. Dove Ivano passa, non cresce più nulla. Egli non è più uomo: egli è assurto a sentenza, a condanna. Egli è lo Sterminatore della malapolitica.
Se Di Maio va con Salvini, lui lo insegue col forcone. Se Cuperlo non si dà una svegliata, lui va sotto casa sua e lo sveglia tipo Sergente Hartman in Full Metal Jacket. Se Marescotti incontrasse Orfini gli direbbe “suca” con le braccia unite ad altezza pelvica, se trovasse Nardella gli direbbe che ce l’ha piccolo, se trovasse la Boschi non le direbbe nulla perché ci ha già pensato la realtà a dirglielo. Ivano è dentro il set di Una 44 Magnum per l’Ispettore Mareskotty e colpisce che è una bellezza.
Non placate la sua furia iconoclasta. Offritegli nuove vittime. E dite a Mattarella di dare a lui il mandato esplorativo: con Marescotti presidente del Consiglio, spezzeremmo le reni a chiunque. Agili.

Corriere 29.3.18
Lo sherpa di Macron
«Sì ai grillini, no alla Lega»
di Federico Fubini


«Se diranno no alla Lega i grillini avranno un posto nell’alleanza politica europea». Lo dice al Corriere Shahin Vallée, uomo di Macron.
Shahin Vallée non vede perché no: se chiarisce le proprie posizioni, il Movimento 5 Stelle potrebbe trovare un posto nell’alleanza politica europea che Emmanuel Macron sta studiando in vista delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo nel 2019. Vallée è un ex consigliere di Macron, che in questa fase segue da vicino l’iniziativa europea del presidente in preparazione del voto fra poco più di un anno. E vede solo un grande ostacolo sulla strada dell’integrazione dei pentastellati in un’alleanza delle forze politiche nuove d’Europa: sembra difficile poter essere alleati di Macron a Bruxelles e di una Lega a trazione lepenista in Italia.
È vero che da Parigi si sta cercando di creare un movimento europeo sul modello di ciò che è stata La Republique en Marche in Francia nel 2016?
«Non c’è ancora una strategia chiara. C’è però una direzione che mi pare molto semplice e anche molto ambiziosa: creare un nuovo gruppo nel Parlamento europeo per sfidare il duopolio del partito popolare e del partito socialista e democratico europeo, che è all’origine di molta dell’inerzia dell’ultimo decennio».
Ma esattamente cosa vuole fare Macron?
«Vuole costruire un’ampia alleanza pro-europea aperta a tutti, in modo da sfidare sia l’ondata dei partiti nazionalisti che l’inerzia di quelli tradizionali. Non sarà facile, perché deve trovare il modo di unire forze europeiste che a livello nazionale possono essere avversarie».
Il Movimento 5 Stelle può far parte di questa iniziativa, secondo lei?
«Dipende in gran parte da come M5S vede l’Europa, un aspetto che non è chiaro. E bisogna vedere se i pentastellati saranno in grado di convergere con En Marche e altre forze in Europa sulla base di una piattaforma coerente. Fondamentalmente, ci sono due tipi di forze politiche insurrezioniste in Europa oggi: quelle che di base sono nazionaliste e anti-europee e quelle che sono critiche sull’Europa ma vogliono riformarla. Per esempio, Syriza in Grecia o Diem (il movimento fondato da Yanis Varoufakis, ndr) stanno sfidando l’Europa che c’è ma vogliono trasformarla, non distruggerla. Queste sono componenti che con Macron e En Marche possono trovare un compromesso per unire le forze».

Corriere 29.3.18
l retroscena
Tutti i dubbi nel Movimento
di Francesco Verderami


Vent’anni fa toccò a Bertinotti decidere se andare a braccetto con Dini. Ora è Di Maio a dover decidere di governare con i voti di Berlusconi.
ROMA «Baciare il rospo». Vent’anni fa toccò al comunista Bertinotti decidere se andare a braccetto con il tecnocrate di Bankitalia Dini. Vent’anni dopo tocca al grillino Di Maio decidere se accomodarsi al governo con i voti di Berlusconi. Il nodo da sciogliere per far partire la legislatura è questo, e toccherà al capo del Movimento assumersi la responsabilità della scelta.
Probabilmente avrà un po’ di tempo in più per pensarci, se davvero Mattarella deciderà di fare due giri di consultazioni. Un’ipotesi alla quale i partiti — impegnati a decrittare i segnali che giungono dal Colle — danno un importante valore politico. Perché questa prospettiva, se fosse confermata, a loro modo di vedere celerebbe l’intenzione di Mattarella di non affidare incarichi esplorativi dopo il primo turno di colloqui. Semmai il capo dello Stato si incaricherebbe di trovare un minimo comun denominatore in quei ragionamenti per seguirne la traccia nel secondo giro.
Così — ecco il punto — tanto Salvini quanto Di Maio non verrebbero subito «bruciati» nel tentativo di formare un governo. D’altronde non è intenzione del capo dello Stato consumare delle potenziali carte a disposizione per risolvere la crisi. A questo servono i «tempi lunghi», per i quali il leader di M5S aveva ringraziato Mattarella. Ma l’extra-time non muta i termini del problema che Di Maio deve risolvere: la questione non è se nell’eventuale patto di governo con il centrodestra Forza Italia debba essere rappresentata «a pieno titolo» nell’esecutivo o debba accettare di nascondersi dietro «sottosegretari d’area». Il nodo è la «fiducia», che legherebbe il Movimento a chi ha sempre combattuto. Si tratta di un rebus più complesso e delicato persino della scelta del presidente del Consiglio.
Di questo discutono Salvini e Di Maio nel loro continuo scambio di sms, è questo il motivo che dall’altro ieri li ha indotti a marcare la reciproca distanza. Il travaglio tra i Cinque Stelle è tale che il suo leader ha fatto sapere di dover scartare, «o non reggo la pressione». Le schermaglie che si sono succedute facevano parte della tattica decisa da entrambi: avevano stabilito di prendersi del tempo. Almeno così aveva inteso il segretario del Carroccio, che non intende aprire al Pd perché — come ha già spiegato a Berlusconi — «lasciare i grillini all’opposizione per noi sarebbe un suicidio». Di Maio deve stare dentro la mission del governo: perciò ha frenato, per recuperare dei margini.
Ma quanto è successo l’altra notte l’ha colpito: il cambio di atteggiamento dei grillini sulla spartizione delle cariche per gli uffici di presidenza di Camera e Senato, era all’apparenza una mossa incomprensibile. Lì per lì, mentre Giorgetti si dannava al telefono per cercare una soluzione e denunciava ad alta voce la rottura del patto «che voi avete proposto», Salvini interpretava quell’attacco di bulimia come un delirio di potere: «Manco i socialisti...». Poi ha maturato il convincimento che si trattasse di una manovra politica: ottenere la maggioranza in quegli uffici, specie tra i questori, significa poter incidere sui vitalizi, sulle indennità dei parlamentari, e intestarsi la vittoria contro la casta.
Sarebbe un blitz a saldo positivo per M5S, che potrebbe dire di aver portato a compimento una parte del programma senza bisogno di sciogliere il nodo politico. Il sospetto che «invece di puntare al governo del Paese stiano puntando al governo delle Camere per tornare al voto», e con lo scalpo, ha preso corpo nella riunione di centrodestra svoltasi al Senato. A Palazzo Madama era ormai impossibile contrastarli, si vedrà se oggi a Montecitorio verranno prese delle contromisure.
E nonostante sia prevalsa l’opinione che i grillini restino dei «doppiogiochisti», Salvini ha fatto buon viso a cattivo gioco: oggi andrà all’incontro chiesto da M5S sul programma insieme a Forza Italia, senza FdI. Berlusconi vuole credere all’accordo per evitare il ritorno immediato alle urne. Ma se Di Maio non lo «bacerà», non ci saranno molte altre strade da esplorare: rischia il senso unico. E magari sospetterà di Salvini.

Corriere 29.3.18
Un conflitto che archivia le ipotesi di dialogo
di Massimo Franco


Quella che si sta giocando sulle vicepresidenze e i questori di Camera e Senato non è una sfida sulla democrazia. Sembra piuttosto un altro scampolo della guerra interna al Pd tra chi vuole il dialogo con i 5 Stelle, e chi lo ritiene impossibile. Ieri, l’ala dell’opposizione dura ai vincitori del 4 marzo si frega probabilmente le mani. Nel «no» di Luigi Di Maio alle richieste dei dem può trovare una ragione valida, o comunque un pretesto per giustificare il muro contro muro. La perentorietà con la quale il M5S respinge le richieste del Pd, che pure nel 2013 accettò di votare Di Maio vicepresidente della Camera, soffoca qualunque ipotesi di intesa.
Dunque, a sei giorni dall’inizio delle consultazioni al Quirinale per formare un governo, chi a sinistra accarezzava una qualche intesa con Di Maio si ritrova spiazzato. E pazienza se probabilmente i renziani hanno lavorato per far fallire qualunque compromesso. E oggi osservano il fossato tra potenziale maggioranza e probabile opposizione con un sorriso soddisfatto, tipo: ve l’avevamo detto. Agli occhi dei dem, Di Maio è più inviso dello stesso Matteo Salvini e della sua Lega. Col Carroccio le distanze sono tali che è inutile discutere. Ma col Movimento bisognava bruciare i ponti, e la vicenda di vicepresidenti e questori in Parlamento li sta lesionando.
È anche una coda della faida che ha accompagnato la scelta dei capigruppo del Pd al Senato e alla Camera: scontro che ha rischiato di destabilizzare il «reggente» Maurizio Martina proprio per mano dell’ex leader, deciso a condizionare qualsiasi scelta diversa dalla politica dei «no». Oggi Martina è nel mirino di Renzi per non avere assecondato le pretese di un leader umiliato dagli elettori; ma ancora convinto di dettare legge attraverso gruppi parlamentari plasmati con candidature a propria immagine: o almeno così pensava.
Pazienza se un’opposizione declinata come autoesclusione rischia di fare il gioco degli avversari: proprio come è successo negli anni in cui il Pd era al governo, regalando ai seguaci di Beppe Grillo spazi polemici e di propaganda; e, alla fine, una messe di voti. E importa poco che a pilotare questa fase siano in fondo gli stessi che l’elettorato ha bocciato prima al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, e poi il 4 marzo. Squadra che perde non si cambia, pare di capire: a parte qualche aggiustamento cosmetico.
Ma fare opposizione con gli stessi che hanno gestito disastrosamente il governo è una garanzia per perdere di nuovo. Di Maio probabilmente sta mostrando tutti i limiti di chi vuole Palazzo Chigi senza fare i conti fino in fondo con i numeri parlamentari; e rischia di assottigliare le probabilità di guidare il prossimo governo. Ma anche un Pd confuso e impermalito, che grida alla discriminazione dopo avere trattato per tre anni il Parlamento come una protesi del governo, rischia di conquistare la medaglia di «grillino ad honorem».

Corriere 29.3.18
«Il Pd rischia l’estinzione. Ora le primarie per il leader»
Richetti in corsa: traversata nel deserto per ricostruire
di Monica Guerzoni


ROMA «Il Pd rischia l’estinzione» e può ritrovare il suo popolo solo ripartendo dall’opposizione, con una «traversata nel deserto» e un segretario incoronato dalle primarie. È la ricetta del senatore Matteo Richetti, pronto a correre per il Nazareno.
Il Pd è fuori dai giochi, o un dialogo con i 5 Stelle sul governo può riaprirsi?
«Sia il M5S che la Lega usano il Pd per mandarsi i messaggi. Io non mi riconosco nelle letture bizzarre di chi, nel mio partito, dice che gli elettori ci hanno mandato all’opposizione. Noi dobbiamo fare opposizione perché il nostro progetto di Paese è alternativo e incompatibile rispetto a quello di Grillo e Salvini. Come si fa a pensare che il Pd possa condividere un solo giorno di governo con chi vuole l’abolizione della Fornero, il reddito di cittadinanza, o il superamento dell’obbligo delle vaccinazioni?».
Il fronte dialogante del Pd si è arreso?
«Con tutto il rispetto trovo aberrante pensare che, se il M5S non trova i voti della Lega, noi dobbiamo metterci i nostri. La sola idea che una forza politica possa indifferentemente allearsi con noi o con Salvini è la fine della politica come progetto».
L’ostacolo è Renzi?
«No, il M5S che la pone nei termini “liberatevi di Renzi e siete potabili” deve capire che c’è una soglia di dignità e decenza sotto la quale non si va. Renzi si è dimesso davvero. L’elezione dei capigruppo dimostra che il Pd oggi decide in maniera molto libera».
Per placare la rissa sui capigruppo, Martina ha dovuto minacciare le dimissioni.
«Io non ho visto Renzi imporre nomi e non lo vedo imporre la linea politica. Nessuno ancora si è alzato per dire facciamo un governo con Di Maio. Io penso ci sia uno spazio vero per una intesa tra lui e Salvini. Ci dicono, perché non salite anche voi su quell’autobus? Perché va in una direzione pericolosa per l’Italia».
E un governo di scopo?
«Con tutta l’ammirazione e il rispetto per il capo dello Stato, non credo che gli atteggiamenti di responsabilità del Pd si possano tradurre nella partecipazione a un governo. Che lo chiamiamo di scopo, a tempo o di larghe intese, sarebbe sempre politico e ci porrebbe un drammatico problema di coerenza».
Renzi ha segnato un punto sul fronte dialogante di Franceschini e Orlando?
«Nessuno si è spinto a ipotizzare la partecipazione del Pd al governo. Sarebbe residuale sul piano dei numeri e non farebbe fare al Pd la cosa più utile. La traversata nel deserto, una vera e propria ricostruzione del partito».
Orfini è contrario a cambiare lo Statuto, e lei?
«Penso che il premier del Pd non debba mai più fare anche il segretario».
E le primarie?
«Trovo surreale che un pezzo forse maggioritario del Pd dica che le primarie non servono più. È lo strumento con cui abbiamo eletto Prodi, Veltroni, Bersani, Renzi e dato un profilo al partito. Far concludere il mandato della segreteria Renzi con una assemblea senza primarie sarebbe un errore clamoroso. Se vuoi ricostruire dopo il risultato peggiore dal dopoguerra, devi rivolgerti al tuo popolo».
Lei si candida?
«Sabato 7 aprile sarò a Roma con un grande appuntamento all’Acquario Romano, per dare voce a chi voce non ha. Il rischio estinzione del Pd esiste, perché altre forze oggi stanno assumendo le istanze della sinistra. Non possiamo stare fermi, dobbiamo rimetterci in cammino subito».
Il reggente Martina ha deluso i renziani?
«Sta facendo un lavoro generoso per portare il Pd all’assemblea, che dovrà individuare un segretario con un mandato definito nel tempo per svolgere il congresso».
E Delrio capogruppo?
«È un punto di forza. Una parte del Pd lo vedrebbe candidato alla segreteria, il che dimostra che si sta puntando su profili fortemente unitivi».

Repubblica 29.3.18
Il futuro del Pd
Una sinistra da rifondare
di Guido Crainz


Il Pd è davvero “a rischio estinzione”, come ha scritto Claudio Tito, perché sono franati gli assi portanti della sua impostazione: proprio per questo i tempi di una reale rifondazione non potranno essere brevi. E in assenza di una vera analisi della società italiana e di un credibile progetto di futuro ogni divergenza sulla “ tattica” può solo aprire nuove lacerazioni.
È difficile negarlo, la crisi della sinistra che oggi è esplosa viene da molto lontano. La sua difficoltà nel “ leggere il mondo” era evidente già nei lontanissimi anni Ottanta, nella crescente incapacità del Partito comunista di comprendere il colossale rimescolamento che scomponeva classi e ceti, travolgeva luoghi e culture del lavoro. E capovolgeva il concetto stesso di modernità, sempre meno coniugata all’avanzare di diritti collettivi e sempre più intrecciata all’affermazione individuale e alla dissoluzione delle regole. Era evidente già allora, anche, la più generale crisi della politica e dei grandi partiti del Novecento: aggravata, da noi, dai processi che esploderanno al tempo di Tangentopoli e contribuiranno al crollo della Prima Repubblica. E scomparve allora anche la sinistra che avevamo conosciuto, sempre più balbettante e afasica di fronte all’illusionismo e ai nuovi miti dell’era berlusconiana.
All’indomani di quel tracollo sembrò comunque delinearsi faticosamente un progetto riformatore capace di raccogliere le grandi culture che si erano contrapposte nei decenni precedenti — quella comunista e quella cattolica — , e quella ricostruzione sembrò poter rinnovare anche le modalità della politica: dal sogno dell’Ulivo a quel “ ripartire dai cittadini” di cui furono simbolo la stagione dei sindaci e le prime, entusiasmanti primarie. Nacque in realtà tardi e con enormi problemi irrisolti il Partito democratico, nel 2007. Cioè nell’anno in cui prendeva avvio oltre Oceano la crisi economica che avrebbe piagato l’intero Occidente; lo stesso anno, va aggiunto, in cui emergeva in modo prepotente da noi l’insofferenza verso la “ casta”, irresponsabilmente regalata ai “ V- day” di Beppe Grillo. Insensibilità di fronte al deteriorarsi della politica, crescente miopia di fronte alle sofferenze e alle lacerazioni della società italiana, incapacità di misurarsi realmente con le angosciose incertezze alimentate dallo scenario internazionale: è davvero difficile stupirsi del tracollo attuale della sinistra, attraversata anche da divisioni senza futuro. Ed è difficile immaginare una ricostruzione “ a breve”, rinchiusa nelle tradizionali e sempre più disseccate sedi del Partito democratico.
Sono “realistiche” oggi solo scelte radicali di apertura che coinvolgano i contenuti e al tempo stesso le modalità della discussione. Può essere credibile cioè solo un “ congresso di rifondazione” del centrosinistra che abbia al centro la realtà e il futuro del Paese e sappia coinvolgere in modo esplicito le energie più diverse, rendendole progressivamente protagoniste nella costruzione di una nuova e più ampia casa dei riformisti ( rispondendo così anche a quell’impulso ad iscriversi al Pd che è stato talora segnalato dopo il 4 marzo). Un congresso di rifondazione in cui, capovolgendo le pratiche recenti, sia centrale il confronto su tesi differenti e non necessariamente opposte. E sia marginale invece la contrapposizione fra leader: vi è una leadership collettiva da ricostruire, sgombrando il campo dalle macerie e dalle tossine che si sono accumulate nel tempo. Non è una “ terza via”, è l’unica possibile: spetta ai dirigenti del Pd metterla all’ordine del giorno con scelte impegnative e inequivocabili.

il manifesto 29.3.18
Migranti, dietro i libici c’è la Marina militare italiana?
L'inchiesta sulla Open Arms
di Carlo Lania


Ma chi coordina gli interventi della Guardia costiera libica? Tripoli non ha una propria area Sar (ricerca e salvataggio) né dispone di un proprio Mrcc, un centro di controllo per i salvataggi in mare dal quale dare indicazioni alle sue motovedette impegnate, anche in acque internazionali, nel fermare i barconi carichi di migranti. A leggere però il decreto con cui il Gip di Catania ha confermato due giorni fa il sequestro della nave della ong spagnola Open Arms (facendo però decadere l’accusa di associazione per delinquere), sembra che un ruolo importante nell’attività dei militari libici lo abbia la Marina militare italiana.
Nel ricostruire l’attività della Open Arms del 15 marzo scorso, quando la nave spagnola riuscì a trarre in salvo 117 migranti strappandoli letteralmente dalle mani della guardia costiera libica, il gip spiega infatti come alle 5,37 del mattino il personale della nave militare «Capri» comunicava alla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma che una motovedetta libica sarebbe partita per soccorrere il gommone di migranti segnalato in difficoltà. La «Capri» fa parte della missione italiana in Libia ed è presente nel porto di Tripoli da dicembre del 2017, quando ha avvicendato la nave «Tremiti». Poco più di un’ora dopo, alle 6,44, sempre la «Capri» conferma a Roma la partenza della motovedetta libica «Gaminez» richiedendo, scrive il gip, «di far allontanare l’unità della Ong (Open Arms, ndr) per evitare criticità durante il soccorso. La nave della ong continua però l’attività di soccorso, provocando la reazione di un addetto italiano della Difesa a Tripoli che, alle 8,56, contatta Mrcc Roma «lamentando – scrive il gip – il comportamento della Open Arms, in quanto lo riteneva contrario al Codice di condotta sottoscritto con il ministero dell’Interno italiano». A che titolo interviene la Marina, visto che ufficialmente il personale della «Capri» dovrebbe occuparsi di fornire assistenza tecnica alle navi libiche a di aiutare nella costruzione di un (futuro) Mrcc? Sempre il gip scrive inoltre che il coordinamento delle navi libiche «è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare italiana».
Se il ruolo della Marina dovesse essere confermato, allora quanto avvenuto potrebbe essere considerato come un caso di respingimento collettivo, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ne è sicuro l’avvocato Alessandro Gamberini, legale della Opens Arms: «Alcune azioni si possono configurare come un respingimento», commenta il legale. «Nel momento in cui i migranti si trovano in acque internazionali non puoi creare le condizioni, come sembra sia avvenuto con il ruolo assunto dalla nave militare Capri, per riportarli in Libia». Preoccupazione è stata espressa anche dal segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi e dagli esponenti di Possibile e Leu Pippo Civati e Andrea Maestri.

il manifesto 29.3.18
Franco Piperno: «La sinistra si offre come ceto politico prêt-à-porter»
Intervista. L' ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi politica
di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti


COSENZA Franco Piperno, ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi politica, orientato anche da quel pizzico di ironia che da sempre lo accompagna.
Professore, il successo dei 5stelle e della Lega ha radici profonde? Siamo di fronte ad un fenomeno che viene da lontano?
Credo proprio di sì. Del resto questo accade pure in altri Paesi europei e negli Usa. C’è una forte crisi della rappresentanza. È un fatto che nel corso della storia si è riproposto diverse volte. Basti pensare a quel che si verificò al tempo della Repubblica di Weimar. Questa volta è un po’ più grave, perché non si tratta di un problema che possa essere risolto modificando la legge elettorale. Siamo in presenza di una sfiducia diffusa. Non è rivolta solo contro i rappresentanti, bensì contro la rappresentanza. Ho l’impressione che la diffidenza nei confronti dei rappresentanti, in quanto tali, riguardi il trasformismo, un fenomeno che l’Italia conosce bene sin dai tempi dell’unità.
È una sfiducia che travolge la sinistra in Europa a tutti i livelli?
Sì. Pensiamo alla parabola di Syriza. Tsipras è una brava persona e quelli intorno a lui non sono certo  corrotti, ma alla fine volendo prendere il potere, è il potere che li ha presi. Ed è inevitabile. Sono stato un po’ di tempo in Spagna con i compagni di Podemos e ho visto che gran parte della giornata passava ad individuare candidati, elezioni in un comune o in un altro. Questa è un’ulteriore prova della crisi della rappresentanza. Un conto è avere un’organizzazione di base, qualsiasi essa sia, e porsi poi il problema di rappresentarla. Completamente diverso è rovesciare il problema, cioè avere la rappresentanza e poi creare il movimento.
Il caso di Liberi e Uguali è forse il più melanconico. Un intero ceto politico con anni di esperienza alle spalle si è candidato a dirigere. Non è che abbiano fatto ricorso ai legami che magari venivano dalla tradizione tanto del Pci come della Dc. No, si sono offerti direttamente come ceto politico. E anche i compagni di Rifondazione e Potere al Popolo o il Partito comunista di Rizzo rischiano di essere assorbiti da codesto meccanismo. È come se ci fosse un mercato in cui compaiono questi rappresentanti. Nulla di più.
Come spiega il successo di Lega e 5stelle nel sud?
Entrambi hanno alla loro origine  elementi interessanti. Penso alla Lega di Gianfranco Miglio e alla sua idea di federalismo spinto. Il limite era che si trattava di un federalismo concepito per regioni, e niente è più disastroso degli Stati regionali. Però c’era allo stesso tempo un’esigenza contro Roma, intesa come lotta alla centralizzazione. Invece, per quanto riguarda i 5Stelle, il reddito di cittadinanza e il tema della democrazia diretta erano interessanti, ma la mia impressione è che entrambi,  Lega e  5Stelle, abbiano già fatto una brutta fine. Matteo Salvini si propone come primo ministro dell’Italia, quindi scordando tutto quello che andava fatto per costruire un’Italia federale che si sarebbe potuta costruire solo attorno alle città. Infatti, mentre le regioni sono un’invenzione, le città costituiscono la vera storia del nostro Paese.
Dal canto loro, i 5 Stelle hanno completamente abbandonato la tematica della democrazia diretta?
Sì, e in un certo senso hanno pure fatto bene, perché ci sono dei casi di democrazia diretta paradossali. Alcuni di loro, per esempio, hanno ottenuto l’elezione dopo essere stati scelti da un centinaio di persone, quando andava bene. Lo stesso Di Maio mi dà un po’ l’impressione che sia stato estratto a sorte. Non dico che non abbia delle capacità, non lo so, non posso giudicarlo. Però appare evidente che è un esempio di democrazia affidata al caso. Questa storia della rete come democrazia diretta non solo è del tutto inconsistente, ma è quanto di più qualunquistico possa esistere.
In appena due anni i grillini in Calabria sono passati dal 4% al 40% senza aver nessun consigliere comunale, regionale, in pratica senza esistere e senza nessun candidato noto. Com’è possibile?
La loro forza proviene dalla dissoluzione dei riferimenti precisi. Fossero di classe o culturali, non c’è più niente. Per ottenere la vittoria nel sud, è come se i 5 Stelle si fossero alleati con alcuni degli aspetti più riprovevoli del meridione. Per esempio, pensare che i problemi del sud debbano essere risolti dallo Stato centrale. Certamente nel risultato che hanno ottenuto c’è una componente di protesta che va considerata, ma accanto ad essa c’è anche dell’astuzia.

il manifesto 29.3.18
Boeri contro i Cinque Stelle: è scontro sui costi del reddito minimo
Stato asociale. Il governo uscente e il presidente dell'Inps a fine mandato polemizzano con il Movimento 5 Stelle sui costi del "reddito di cittadinanza", in realtà un "reddito minimo". Numeri sulle spalle di precari e disoccupati. Il presidente dell’Inps: «Vale 38 miliardi». M5S reagisce: «Basta bugie: l’Istat dice 14,9». Al prossimo esecutivo è stato chiesto di continuare a finanziare l'attuale "reddito di inclusione" (ReI): un reddito minimo modesto che esclude l'80 per cento dei poveri assoluti anche se si cerca di allargare la platea
di Roberto Ciccarelli


Lo scontro sui costi del fantomatico «reddito di cittadinanza» del Movimento 5 stelle – in realtà un reddito minimo condizionato all’inserimento lavorativo e alla riqualificazione professionale – continua. Ieri l’hanno rilanciato il governo uscente, con il presidente del Consiglio Gentiloni e il ministro del lavoro Poletti, e il presidente dell’Inps in scadenza, Tito Boeri che ha precisato di essere «alla fine del mandato» e di applicare «in ogni caso quello che decidono i governi».
L’OCCASIONE è stata fornita dalla presentazione dei dati dell’osservatorio statistico sul reddito di inclusione (Rei), ovvero una misura contro la povertà sotto-finanziata, non universale, selettiva e condizionata all’accettazione di un’offerta di un lavoro, pena la perdita del diritto di beneficiare di massimo 485,41 euro al mese (per una famiglia di 5 o più individui); 382 euro (per quattro); 294 (tre); 294 (due); 187 (uno).
NEL PRIMO TRIMESTRE 2018 l’importo medio mensile del ReI è di 297 euro e varia da un minimo di 225 euro per la Valle d’Aosta ai 328 per la Campania. Le regioni del sud hanno valore medio più alto di quelle del Nord e del Centro. Il ReI avrebbe raggiunto 317 mila persone, 110 mila famiglie, sette su dieci risiedono al Sud. Altre 477 mila hanno avuto il sostegno di inclusione attiva (Sia), una Social Card 2.0 assorbita dal ReI. L’intenzione è quella di raggiungere una platea di 2,5 milioni di persone che dovranno spartirsi 1,7 miliardi nel 2018, 1,845 miliardi a decorrere dal 2019 molto più vasta di quella inizialmente prevista (1,8 milioni di individui, 500 mila famiglie):, parte delle quali destinate a rafforzare i servizi. Toccherà al prossimo governo, quando ci sarà, trovare le risorse per rifinanziare la misura.
PUR CON ALCUNE differenze – il ReI è rivolto alle famiglie, il «reddito» dei Cinque Stelle agli individui – gli strumenti rispondono alla stessa logica. Il ReI, voluto dal Pd, è sottofinanziato, quello di M5S sarebbe pari a 14,9 miliardi all’anno (stima Istat nel 2016). Lo stesso governo targato Pd, anche su impulso dell’ «Alleanza contro le povertà» (composta anche da Acli, Caritas e Cgil), ha riconosciuto che il ReI è sotto-finanziato e avrebbe bisogno di 7 miliardi all’anno per coprire 4 milioni e 742 individui. I Cinque Stelle pensano di ampliarlo ai poveri relativi 8 milioni e 465mila persone. Per questo è più alto. Il reddito dei Cinque Stelle arriva fino a 780 euro, calcolato sul 60% del reddito mediano netto, destinato a decrescere in un ristretto periodo di tempo e a condizione di non rifiutare una offerta di lavoro su tre. Sono gli stessi criteri del ReI, i pilastri delle politiche neo-liberali del lavoro: obbligatorietà, condizionatezza e attivazione finalizzata all’«occupabilità» del precario o del disoccupato. Cambiano solo le modalità di applicazione e gli importi. Una continuità oscurata anche ieri nel teatro della propaganda permanente post-4 marzo.
L’ESECUTIVO targato Pd e l’Inps, di nomina governativa, hanno rilanciato una leggenda creata dagli stessi Cinque Stelle: il loro è un «reddito di cittadinanza», costoso e inapplicabile. «Costerebbe ra i 35 ed i 38 miliardi di euro» ha sostenuto Boeri che ha «rimproverato» chi ha «imbracciato la bandiera del reddito minimo» dopo avere «scoperto nelle ultime settimane una misura che già c’è».
OSSERVAZIONE ingenerosa perché i Cinque Stelle propongono il loro controverso «reddito» dal 2013 (allora lo fece anche la SeL di Vendola che appoggiò una proposta di legge sostenuta dai movimenti e dal Basic Income Network Italia, qui l’intervista al presidente dell’associazione Luca Santini). È accaduto ben prima che il Pd si svegliasse quattro anni dopo con il «Rei». «La mia impressione è che Boeri conosca la materia meglio dei 5 Stelle» ha aggiunto Carlo Calenda, premendo il tasto dell’«incompetenza» dei Cinque Stelle, un argomento che non ha giovato al Pd nella disfatta del renzismo. Gentiloni, impegnato a difendere l’operato del governo uscente, ha chiesto di «non buttare a mare il lavoro fatto per la fiera delle velleità». «Basta bugie», hanno risposto i capigruppo di Camera e Senato M5S, Giulia Grillo e Danilo Toninelli. «Per l’Istat costa 14,9 miliardi di euro più 2 miliardi per riformare i Centri per l’Impiego». Lo scontro sulle cifre prosegue da anni. Nel 2015 l’Inps calcolò 29 miliardi. «Boeri si concentri piuttosto sul clamoroso pasticcio relativo al cumulo pensionistico gratuito per i professionisti. Abbiamo 15 mesi di ritardo e tanta gente che nel frattempo è andata in quiescenza sperando in quella certezza del diritto che le istituzioni non riescono affatto a garantire», la senatrice Nunzia Catalfo che ha seguito l’elaborazione del reddito per i Cinque Stelle.
LA POLEMICA riguarda solo i conti, ma non la questione etico-politica se sia giusto sottomettere i vulnerabili alla tragica scelta tra il ricatto del lavoro qualsiasi in cambio di un sussidio e lo spettro di essere considerati «buoni a nulla» ma disponibili a fare qualsiasi cosa per meritare «i sussidi». Su questo aspetto tutti sembrano d’accordo. Il problema non è nemmeno percepito, ma costituisce il dilemma del «workfare» che si vuole istituire anche in Italia. Basta vedere il film di Ken Loach: «Io, Daniel Blake».

Il Fatto 29.3.18
Anche la Rai nel risiko politico: da aprile il valzer dei vertici
Nuova legge - Il Cda decade il 29 giugno e le procedure per i cambi partono 60 giorni prima. Lo stallo in Parlamento e il potere a Padoan
di Carlo Tecce


Chi l’ha detto che la Rai non innova? Pure stavolta Viale Mazzini è il laboratorio per sperimentare alleanze e accordi parlamentari, indicare maggioranze e opposizioni politiche, quasi in contemporanea con la formazione del prossimo governo. Anzi, in anticipo: le procedure per la nomina del Cda – inclusi amministratore delegato e presidente di garanzia – vanno avviate entro la fine di aprile e richiedono ai partiti spartizioni scientifiche. Perché lo impone la legge di matrice renziana numero 220 del 2015, poco conosciuta, ancora mai applicata e piena di falle (chi non ricorda il pastrocchio sul tetto agli stipendi?).
Il Cda Rai, in carica dal 2015, da Statuto decade quando l’assemblea degli azionisti (99,56 per cento il Tesoro, 0,44 per la Siae) approva il bilancio d’esercizio, dunque non oltre il 29 giugno 2018 e non al compimento del terzo anno solare di mandato di Monica Maggioni, Guelfo Guelfi e colleghi, che scadrebbe il 5 agosto. Perché aprile? Semplice, lo prescrive la legge: due mesi prima dall’assemblea degli azionisti, la stessa Rai, il ministero del Tesoro, la Camera e il Senato aprono le iscrizioni per selezionare il nuovo Cda.
Siccome le leggi si studiano quando servono e non quando si presentano, in Viale Mazzini sono precipitati nel più profondo dei letarghi, il ministro Pier Carlo Padoan prega che tocchi al successore e la vecchia dirigenza prepara rassegnata il trasloco. Così le decisioni irrevocabili sono revocate e la delicata poltrona di guida di Rai Pubblicità, promessa mesi fa al renziano Mauro Gaia, è affidata da dicembre ad interim al leghista antico (cioè di rito maroniano) Antonio Marano.
Come funziona il testo renziano
Il pauperismo di propaganda ha travolto anche il Cda Rai: i componenti passano da 9 a 7, anche se la legge – nei suoi tipici passaggi criptici – non chiarisce se l’amministratore delegato debba far parte del Cda o meno. Anche perché le caratteristiche richieste per i due ruoli sono diverse: esperienza di tre anni in una società del settore in un caso; prestigio, competenza e onorabilità nell’altro. Neppure al Tesoro l’hanno capito. In sintesi, il Cda sarà da 7 barra 8 membri. Novità: i dipendenti di Viale Mazzini eleggono un rappresentante. Quattro spettano al Parlamento, due (o tre con l’ad) al ministero.
Pericolo agguati in Parlamento
Questa riforma fu plasmata durante la sbornia del 40% alle Europee del Pd renziano e nel contesto di un presunto solido bipolarismo, sorretto dalla legge elettorale a doppio turno di nome Italicum. Con l’avvento del tripolarismo è di fatto impossibile distribuire equamente i quattro posti intestati al Parlamento. Camera e Senato, senza quorum, eleggono due consiglieri a testa: chi prende più voti va a Viale Mazzini. Coi numeri attuali, il centrodestra compatto può sbancare. Poiché il presidente deve ricevere l’investitura dai due/terzi dell’ormai inutile commissione di Vigilanza, però, occorre un patto con il M5S o con i Dem. Il precedente di Roberto Fico a Montecitorio ed Elisabetta Alberti Casellati a Palazzo Madama suggerisce un’intesa fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio con Silvio Berlusconi in regia e il Pd rischia di scomparire da Viale Mazzini. Il patto va siglato presto, perché gli aspiranti consiglieri, individuati dai partiti, devono rispondere al bando pubblico di Camera e Senato due mesi prima della nomina e quindi, ripetiamo, fra aprile e maggio. Allora di giorno avremo i capi di partito al Quirinale per le consultazioni con Mattarella e di notte, chissà dove, a interagire per il servizio pubblico tv.
Il ministero prende tempo, ma c’è il limite
Il Tesoro (il governo) gioca un ruolo determinante: spedisce in azienda un consigliere (due?) e l’amministratore delegato. Renzi studiò l’evoluzione dal fragile direttore generale al più potente amministratore delegato per aiutare Antonio Campo Dall’Orto. In politica, le intenzioni si trasformano in fatti sempre troppo tardi. Campo Dall’Orto ha provato l’ebbrezza di comandare soltanto un paio di volte, poi è stato costretto a dimettersi proprio da Renzi e adesso un leghista, un grillino o persino un berlusconiano potranno beneficiare della legge: direttori di testata e di canale cambiati con un colpo di mano, procura per firmare contratti sino a 10 milioni di euro. Il voto del 4 marzo ha delegittimato la coalizione – in parte estinta (vedi Alfano) – riunita nel governo Gentiloni. Padoan ne è consapevole. Non può aspettare all’infinito. Se da qui a giugno non giura un altro esecutivo, sarà lui a decidere i vertici Rai per i prossimi tre anni. Palazzo Chigi può attendere finché non si concludono le trattative fra i partiti, Viale Mazzini no. Forse non avremo un governo, di sicuro avremo una televisione.

Il Fatto 29.3.18
L’Ue contagiata dalla russofobia
di Gian Paolo Caselli


Con l’appoggio dato alla Gran Bretagna da parte dei principali Paesi europei (Italia inclusa) concretizzatosi nella espulsione di più di cento diplomatici della Federazione Russa da parte dei Paesi occidentali, Canada e Australia compresi, e l’espulsione di 16 diplomatici dall’Ucraina, l’Unione europea ha dimostrato la propria debolezza politica e istituzionale. Ancora una volta l’Europa ha rifiutato di avere una posizione autonoma su uno scontro fra la storica posizione russofobica della Gran Bretagna, ormai peraltro in uscita dall’Unione causa Brexit, e la Federazione Russa.
L’affaire del tentato omicidio della spia russo-britannica in pensione Sergej Skripal e di sua figlia a mezzo gas nervino è stata accolta dal Consiglio europeo senza pretendere alcuna prova sostanziale della colpevolezza russa. Il vertice dei capi di Stato e di governo a Bruxelles ha preso per buona la dichiarazione della premier inglese Theresa May, anche se lei parlava soltanto di “molto probabile” responsabilità russa. Ed essendo probabile per il governo inglese, per la regina e tutta la giovane famiglia regnante, che molto probabilmente non andrà ai campionati del mondo di calcio in Russia, il “probabile” si trasforma in “certamente vero” e non rimane alcun dubbio che la Russia sia colpevole.
Sicuramente non saranno fornite altre prove, ma Boris Johnson, il folcloristico ministro degli Esteri inglese, ha già dichiarato che il presidente russo Vladimir Putin appena rieletto per la quarta volta ha direttamente ordinato il duplice tentato omicidio. Per la stampa inglese Putin è una combinazione fra Ivan il Terribile, Josif Stalin, Gengis Khan e pure Adolf Hitler. È già stata dimenticata la stagione della (falsa) smoking gun americana ai tempi della guerra in Iraq, delle fake news di Tony Blair, della “liberazione” anglo-francese-americana della Libia con le valigie di dollari del defunto colonnello Gheddafi a favore della campagna elettorale di Nicolas Sarkozy.
La russofobia inglese ha origini lontane, a partire dall’inizio del Diciannovesimo secolo, quando la Russia sconfisse Napoleone e divenne una potenza europea.
Questa fobia è stata costruita con una sapiente opera di disprezzo del popolo russo, di cui si sottolineano continuamente le caratteristiche più negative. Il grande economista John Maynard Keynes, che pure aveva sposato una ballerina russa, parlava addirittura di “bestialià russa” come di una caratteristica essenziale di quel popolo. Questo giudizio negativo viene meno soltanto se la Russia in forma zarista o sovietica risulta utile, come quando era alleata prima contro il Reich guglielmino poi contro la Germania nazista.
È stupefacente come l’Europa abbia accettato passivamente la sua scomparsa politica, sostituita dalla Nato che, a guida angloamericana, determina la politica estere di tutta l’Unione nei confronti della Federazione Russa.
Mosca non è più l’impero del male di reaganiana memoria, ma un Paese capitalistico con un capitalismo “alla russa” molto fragile e che dipende in modo sostanziale per il suo sviluppo dal prezzo del gas e del petrolio e dai mercati finanziari.
È vero che la Russia capitalistica di Putin è molto più potente della Unione Sovietica di Stalin, Suslov e Breznev, che pure avevano migliaia di carri armati schierati ai confini della Europa dell’Ovest. Ma è paradossale che questo Paese, grande sì territorialmente ma in crisi demografica e con un’economia precaria, sia considerato capace di influenzare e per molti decidere le elezioni che si tengono nei Paesi occidentali, controllare la griglia elettrica statunitense e altre infrastrutture fondamentali e, dulcis in fundo, far eleggere presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Certo che per la nazione che ha inventato la e-economy, che domina la Rete e che ha le agguerritissime Fbi, Cia, Nsa e che tranquillamente ascoltava il telefono della cancelliera Angela Merkel, non riuscire a contrastare questa povera Russia è uno smacco umiliante.

Il Fatto 29.3.18
il manifesto 29.3.18
Xi incontra Kim e gli ricorda chi comanda
Cina e Corea del Nord. Dopo due giorni di mistero, ufficializzato il meeting a Pechino tra i due leader. «Pronti a denuclearizzare e a incontrare Trump»
di Simone Pieranni


Cosa può fare un uomo esperto e navigato che guida la Cina di oggi, e le cui scelte garantiscono la vita del regno del giovane Kim Jong-un, nel momento in cui quest’ultimo sembra prendere appuntamenti storici con chiunque, ma non con lui? Lo convoca a casa sua.
E COSÌ HA FATTO XI JINPING. E il giovane Kim Jong-un è andato, capendo che era giusto recarsi a Pechino, senza stare a fare troppe discussioni. E questo incontro l’ha suggellato con le sue parole finite nei comunicati ufficiali: «È opportuno che il mio primo viaggio sia nella capitale della Cina ed è mia responsabilità continuare a considerare le relazioni tra la Corea del Nord e la Cina importanti al pari della vita». Paragoni impegnativi, ma comprensibili anche perché la vulgata, i «si dice», davano Xi e Kim lontani anche per una mera questione di antipatia. O forse Xi sentiva una mancanza di rispetto che pare colmata.
Prima di addentrarci in questo mondo di diplomazia, di sicure indicazioni e mosse future, è bene raccontare anche il mistero all’interno del quale Cina e Corea del Nord hanno voluto sfumare questo momento storico.
Lunedì in Cina è arrivato un treno dalla Corea del Nord. Un convoglio verde militare, lo stesso usato dal padre di Kim Jong-un, quel Kim Jong-il che dentro a uno di quei vagoni pare ci sia perfino morto. Poi abbiamo saputo di auto nere, dai vetri offuscati, a percorrere rapide quelle strade della capitale cinese che chi è stato in Cina conosce bene: ampie, che sembrano sempre asfaltate di fresco e lavate come ogni sera. Poliziotti ovunque, a segnalare che qualcosa di speciale era in corso, stava avvendendo.
CI SIAMO CHIESTI se tutto questo bailamme fosse per Kim, e ci siamo risposti di sì, perché alcuni riti si conoscono, si percorrono da secoli e vengono elargiti, talvolta. Come l’usanza che vuole rivelare la presenza di un leader nordcoreano a Pechino, solo quando è tornato a Pyongyang. Così è stato in precedenza, così è stato questa volta. C’è un «prima», dunque, fatto di attesa, di mezze parole, come quelle della portavoce di Pechino: «a tempo debito vi diremo», ha raccontato ai giornalisti. Ed è apparso come un segnale evidente: allora Kim è in Cina. Non solo, perché nel «prima» non si poteva non cogliere un dettaglio dirimente: in Russia a breve andrà il ministro degli esteri nord coreano. Per quanto Kim sia a suo modo coraggioso, non era immaginabile un’umiliazione diplomatica per la Cina, mandando anche a Pechino un semplice funzionario. Xi Jinping ha invitato Kim a casa sua. E Kim doveva andare.
POI C’È IL «DOPO». Le immagini raccontano di un appuntamento storico, rappresentato da quella grazia sinuosa che solo l’Asia può regalare. I due leader e le mogli che bevono tè, i due leader riuniti attorno a un tavolo a scambiarsi opinioni, con il giovane Kim Jong-un a prendere veloci appunti durante l’intervento di Xi. Il contrario, ovviamente, non è accaduto. In questa circostanza è cristallizzata la profondità di tradizioni, usi millenari e Confucio: il giovane che ascolta e anzi segna su un quaderno le parole dell’uomo più esperto. Una bella soddisfazione per Xi, il capo più potente della Cina e del mondo – Economist dixit – che forse si era sentito snobbato da quel millennial alla guida di una potenza piccola ma dotata del deterrente nucleare.
L’INCONTRO PECHINESE riporta la Cina dove è giusto che sia, per i cinesi: al centro di ogni trama, in perenne fibrillazione cerebrale di fronte al complicato quadro asiatico. Xi Jinping deve aver voluto sondare di persona le intenzioni di Kim. In ballo non c’è solo la pace, c’è anche il prestigio, «la faccia», c’è un leader che ha sradicato gli ultimi limiti al proprio potere, chiedendo e ottenendo l’abolizione del limite al secondo mandato, e che deve ormai stare attento a ogni passo, segreto e pubblico.
ALLORA, COSA ASPETTARSI? Kim ha ribadito quanto aveva già detto: la Corea sarebbe pronta a bloccare la sua corsa nucleare, a un dialogo con tutte le parti, Moon Jae-in, Trump, Abe, chiunque. «Il tema della denuclearizzazione della penisola coreana può essere risolto, se Corea del Sud e Stati uniti risponderanno ai nostri sforzi di riconciliazione con buona volontà, creeranno un’atmosfera di pace e stabilità e adotteranno misure progressive e sincronizzate per la realizzazione della pace» ha detto Kim Jong-un.
DOPO IL VIA LIBERA di Mosca, entrata in questa danza asiatica da tempo, si cominceranno a definire le agende: ieri intanto Seul ha fatto sapere di aver ricevuto i nomi della delegazione nord coreana per l’incontro con il presidente Moon Jae-in.
Scriviamoci le date: fine aprile Moon, entro fine maggio Trump. A quel punto si capirà se esiste la possibilità di un compromesso, se esiste la chance che Cina e Usa si fronteggino, con in mezzo la Corea del Nord, in una delle aree che, nonostante l’eurocentrismo nostrano, sembra sempre più centrale per il futuro della comunità internazionale.

Repubblica 29.3.18
La visita a Pechino
Xi detta la nuova linea a Kim e ora può convincere Trump
Il dittatore prende appunti, ma spunta un altro reattore. La richiesta: forze Usa via da Seul
di Filippo Santelli


Xi Jinping che parla. E Kim Jong- un, seduto dall’altra parte del tavolone, che prende appunti diligente. Nella visita a sorpresa del dittatore nordcoreano a Pechino è questa l’immagine che il mondo deve ricordare, che la televisione cinese ripropone alla nausea. Per il suo primo viaggio all’estero, dopo tre giorni di misteriosi avvistamenti ora è ufficiale, Kim ha scelto l’alleato di sempre. Prima del presidente sudcoreano Moon, con cui dovrebbe vedersi a fine aprile. Prima di Donald Trump, che potrebbe incontrare a maggio. Prima, come già fantastica qualcuno, del premier giapponese Abe o del presidente russo Putin. Prima di tutti per la Corea del Nord viene sempre il rapporto con il fratello maggiore comunista. E con l’atteggiamento di composto ascolto che si conviene al minore.
Bando alle incomprensioni degli ultimi mesi quindi. L’irritazione cinese per le intemerate nucleari di Kim, l’adesione di Pechino alle sanzioni internazionali che stanno soffocando i cittadini nordcoreani. Il dittatore e la first lady vengono accolti nella Grande sala del Popolo da Xi e first lady con tutti gli onori, banda, cena di gala e « fratellanza socialista » . Un incontro che rimette la Cina al centro delle trattative sulla denuclearizzazione della Penisola coreana. Nelle scorse settimane, quelle dell’improvviso disgelo olimpico, il Dragone sembrava rimasto sullo sfondo, quasi sorpassato dagli eventi. Ora fa sapere a Trump, pronto a scatenare una guerra commerciale ad ampio spettro, che nessun accordo si farà senza il suo beneplacito. Cartolina arrivata a destinazione: «Ho ricevuto la notte scorsa un messaggio dal cinese XI JINPING, in cui diceva che il suo incontro con KIM JONG UN è andato molto bene e che KIM aspetta con impazienza il suo incontro con me » , ha twittato il presidente americano, maiuscole comprese.
E se è vero che Trump per primo ha sollecitato Pechino a fare la sua parte con Kim, le priorità delle due superpotenze non sono le stesse. « Denuclearizzazione » è una formula che sulla carta mette d’accordo tutti, un impegno ribadito da Kim anche a Pechino. Che cosa significhi però è tutto da stabilire, visto che le foto satellitari mostrano che la Corea del Nord ha acceso un nuovo reattore. Anche rinunciando alle armi nucleari, Kim potrebbe continuare ad arricchire uranio nei suoi impianti “civili”. Non solo, il dittatore potrebbe chiedere in cambio, come già fece il padre, delle garanzie per la sicurezza del Paese, cioè il ritiro delle truppe americane di stanza al Sud: «Gli Stati Uniti e la Corea devono rispondere ai nostri sforzi » , ha detto durante l’incontro con Xi. Una prospettiva che fa sfregare le mani a Pechino, ma del tutto inaccettabile per Washington.
Al regime cinese potrebbe anche bastare il compromesso già visto e rivisto con la dinastia Kim: normalizzare la Corea con un generico impegno ad abbandonare il nucleare, ma tenendo in vita quel prezioso regime- cuscinetto tra sé e gli alleati degli Stati Uniti. La nuova maschera di Kim Jong- un, dialogante e fedele colomba, è già un primo passo in questa direzione. Ma non può bastare di certo a Trump, pronto a ribadire che in attesa del fatidico incontro « le massime sanzioni e la pressione vanno mantenute a tutti i costi».
Fino a ieri Pechino aveva collaborato in silenzio. Ma invece di un ringraziamento, da Washington si è vista piombare addosso una scarica di tariffe doganali contro i suoi prodotti. Per questo serviva ribadire l’ascendente su Kim. Sperando che la foto di famiglia comunista convinca Trump a trattare anche sui dazi.

Corriere 29.3.18
Kim da Xi, show a porte chiuse
E i due leader spiazzano gli Usa
Conclusa la visita «segreta» del nordcoreano a Pechino, diffuse le foto
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO Kim Jong-un era già tornato a Pyongyang con il suo numeroso seguito quando finalmente, tre giorni dopo l’arrivo a Pechino di un treno blindato nordcoreano e un’infinità di voci e interpretazioni politiche, Cina e Nord Corea hanno annunciato che il Maresciallo è stato in visita nella capitale cinese e ha incontrato il presidente Xi Jinping. «Colloqui di successo sulla pace e la stabilità nella penisola coreana», ha detto Xi nel resoconto dell’agenzia cinese Xinhua . «Una pietra miliare sulla via delle relazioni bilaterali», per la Kcna nordcoreana. Un doppio colpo d’immagine per i due leader: Xi si è ripresentato nella veste di statista globale e pacificatore; Kim ha esordito sul palcoscenico dei capi di governo, trattato da pari a pari, non tenuto a distanza come un paria.
È uscita anche sostanza politica da questo show a porte chiuse. Xi si è compiaciuto per la disponibilità del Maresciallo a rinunciare all’arsenale nucleare, spiega la Xinhua . La promessa di denuclearizzazione era stata già confidata a inizio marzo ai sudcoreani in visita a Pyongyang e trasmessa anche a Washington, con lo scopo di ottenere un vertice tra Kim e Donald Trump. Ora Kim ha ripetuto l’impegno di fronte a Xi e questo rafforza la credibilità della sua offerta negoziale.
Quanto alla cortina di segretezza intorno alla presenza di Kim a Pechino, i cinesi spiegano che si trattava di una «visita non ufficiale», improvvisa, per questo intorno a Piazza Tienanmen non si sono viste sventolare bandiere nordcoreane, per questo le decine di auto del corteo non avevano segni di identificazione e per questo per tre giorni non c’è stata alcuna comunicazione. Spiegazione debole. Ancora martedì sui social network cinesi la censura aveva bloccato ogni ricerca con i nomi Kim, Nord Corea e Grassone Terzo (soprannome ingiurioso affibbiato al Maresciallo). Forse Kim ha chiesto il blackout perché teme il contatto con una folla che non conosce e non può dominare?
A giudicare dalle immagini ufficiali diffuse solo ieri, all’interno della Grande sala del popolo lunedì a Kim è stata invece riservata l’accoglienza protocollare, con guardia d’onore e camminata spalla a spalla con Xi nei corridoi coperti da tappeti rossi.
Gli analisti si sono dedicati allo studio delle numerose foto dell’incontro diffuse dalle due parti. Quelle della Xinhua mostrano Xi sorridente e rilassato, cortese padrone di casa che si è degnato anche di presentare la first lady Peng Liyuan alla giovane Ri Sol-ju, moglie dell’ospite nordcoreano. E soprattutto ci sono immagini nelle quali Xi parla e Kim prende appunti. In patria, ogni uscita pubblica del giovane Kim è seguita da anziani dignitari che prendono nota sul taccuino di ogni sua parola. A Pechino il professore è il presidente e il Maresciallo può fare solo l’allievo obbediente.
A Pyongyang hanno selezionato e diffuso altre foto: quella del brindisi tra statisti, quella di Kim che passa in rassegna il picchetto d’onore, compagno d’armi di Xi. È difficile però che i colloqui di Pechino dopo sei anni di gelo abbiano fatto cambiare del tutto idea a Xi, che secondo numerosi fonti cinesi non si fida di Kim e lo disprezza per la sua azione arrogante e destabilizzante. Ora il Maresciallo dice che «il problema della denuclearizzazione della penisola coreana può essere risolto se Seul e Washington risponderanno ai nostri sforzi con buona volontà, prendendo misure simmetriche». Che cosa chiede in cambio Kim? Presumibilmente il ritiro degli americani dal Sud, cosa che farebbe piacere anche a Xi.
Ultima foto diffusa dai nordcoreani: Kim che saluta sorridente dal finestrino del suo treno blindato in partenza dalla stazione centrale di Pechino: secondo uno storico, questa immagine ricorda quella di Mussolini a Mon

Repubblica 29.3.18
Tensione altissima
“Grande marcia” da Gaza e Israele si mobilita al confine
di Vincenzo Nigro


Hamas, il movimento palestinese che controlla Gaza, sta preparando una “Grande marcia del ritorno” che da venerdì dovrebbe portare decine di migliaia di palestinesi verso la barriera al confine tra la Striscia e Israele. Una protesta apparentemente pacifica, che però avrebbe lo scopo di portare centinaia di persone a superare la barriera di confine fra Gaza e Israele, provocando una reazione armata dell’esercito israeliano. A Gaza i capi di Hamas hanno fatto appello alla partecipazione in massa alla protesta “pacifica” che dovrebbe andare avanti per settimane, fino a metà maggio.
L’Esercito ha annunciato una mobilitazione straordinaria attorno a Gaza e il blocco per dieci giorni della Cisgiordania e della Striscia: i valichi al confine con i Territori Palestinesi resteranno chiusi fino alla mezzanotte del 7 aprile.

il manifesto 29.3.18
Gaza, tiratori scelti israeliani contro la Marcia del Ritorno
Giorno della terra. Forte tensione anche a Gerusalemmme dove i palestinesi annunciano proteste contro i riti sacrificali ebraici ai piedi della Spianata delle moschee autorizzati da un tribunale israeliano
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Le prossime saranno ore ad alta tensione a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza ‎dove sono annunciate manifestazioni e raduni in occasione, domani, del “Giorno ‎della terra”, che commemora i sei palestinesi uccisi dalla polizia israeliana in ‎Galilea durante le proteste, 32 anni fa, contro la confisca delle terre arabe. Una ‎ricorrenza che nel corso del tempo si è trasformata in una occasione di condanna ‎dell’occupazione dei Territori palestinesi occupati e di sostegno della minoranza ‎araba in Israele. A queste dimostrazioni, sempre domani, si aggiungeranno le ‎proteste annunciate dal capo del Supremo consiglio islamico, ‎Ekrima Sabri, dopo ‎la cerimonia di sacrificio rituale (di due pecore), autorizzata da giudici israeliani, ‎tenuta lunedì scorso da centinaia di nazionalisti religiosi ai piedi della Spianata ‎della moschea di al Aqsa, sito considerato dagli ebrei il Monte del biblico ‎Tempio.‎
 La Torah prescrive il sacrificio dell’agnello alla vigilia della Pesach, la Pasqua ‎ebraica, e negli ultimi anni gruppi della destra religiosa, che invocano la ‎ricostruzione del Tempio, hanno riscoperto gli antichi rituali ‎«in preparazione‎ del ‎ritorno al Monte del Tempio‎».‎‏ ‏Il sacrificio si era già svolto lo scorso anno ma nel ‎quartiere ebraico della città vecchia di Gerusalemme e l’autorizzazione data dalla ‎corte israeliana alla cerimonia, a pochi metri dall’ingresso della Spianata delle ‎moschee, rappresenta un deciso progresso per le aspirazioni dei “templari” guidati ‎dal deputato Yehudah Glick. I palestinesi contestano la decisione del tribunale ‎perché viola lo status riconosciuto internazionalmente della Spianata, terzo luogo ‎santo dell’Islam, e si dicono pronti a contrastare ulteriori passi dei nazionalisti ‎religiosi israeliani. ‎
 Tuttavia domani il punto di tensione più alto sarà con ogni probabilità nella ‎fascia orientale di Gaza, a poche centinaia di metri dalle linee di demarcazione con ‎Israele. Il capo di stato maggiore israeliano, Gadi Eisenkot, ha annunciato di aver ‎autorizzato l’uso di pallottole vere contro i palestinesi che si avvicineranno o ‎attaccheranno le barriere di confine durante la “Marcia per il ritorno”, una ‎iniziativa che prevede l’allestimento di una tendopoli a circa 700 metri dalle linee ‎israeliane e che si concluderà il 15 maggio, in occasione del 70esimo anniversario ‎della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e della Nakba, la “catastrofe” ‎durante la quale centinaia di migliaia di palestinesi furono espulsi o costretti a ‎fuggire dalla loro terra. In effetti i soldati israeliani e i sistemi d’arma automatici ‎lungo le barriere già utilizzano munizioni vere – come dimostrano i quasi 20 ‎palestinesi uccisi in quella zona dallo scorso dicembre, in seguito alla ‎dichiarazione di Donal Trump su Gerusalemme – e l’annuncio di Eisenkot perciò ‎lascia intendere che l’esercito non esiterà a fare fuoco. ‎«Stiamo rinforzando le ‎barriere – ha detto Eisenkot – e un gran numero di soldati saranno di guardia ‎nell’area in modo da prevenire possibili tentativi di passare in territorio ‎israeliano‎». Secondo i media locali l’esercito schiererà più di 100 tiratori scelti. ‎Già ieri carri armati israeliani hanno aperto il fuoco contro presunte postazioni del ‎movimento islamico Hamas dopo che due palestinesi avevano dato fuoco e ‎danneggiato una parte della parte settentrionale della barriera tra Gaza e Israele.
 Prosegue inoltre la campagna che vede impegnati in Israele oltre duemila ‎agenti di polizia e volontari per individuare e arrestare i manovali palestinesi che ‎lavorano in Israele senza permesso. Almeno 500 di questi sono già stati fermati. ‎L’associazione per i diritti umani Adalah ha condannato l’operazione, a partire dal ‎nome “Removing Chametz”. Per la religione ebraica, rimuovere il chametz ‎significa l’eliminazione dalle abitazioni dei cibi proibiti durante la Pesach. In ‎questo caso, protesta Adalah, il chametz sono i palestinesi. ‎

il manifesto 29.3.18
Frattocchie, terreni comuni per fare egemonia
Passato presente. «A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie», di Anna Tonelli per Laterza. In quel suburbio a sud di Roma, dal 1944 al 1993, un luogo di formazione per quadri e dirigenti del Pci. Tanti nomi hanno ruotato intorno all’esperienza: Alfredo Reichlin, Miriam Mafai, Pietro Ingrao e altri
di Massimo Raffaeli


Nei pieni anni settanta, non solo alle Feste dell’Unità ma anche nelle librerie «Rinascita» si vendevano i libri degli Editori Riuniti, la casa editrice del Partito comunista italiano. Oltre al cofanetto dei Quaderni gramsciani, oltre all’edizione in volumi innumerevoli (esemplata su quella ufficiale, ovviamente sovietica) delle opere di Lenin, oltre a un’antologica monumentale e in un solo volume (a cura di Ernesto Ragionieri e di un suo giovanissimo allievo, Gianpasquale Santomassimo) degli scritti e discorsi di Palmiro Togliatti, oltre a tutto questo che si imponeva per la mole e per un costo da acquisto rateale, erano invece disponibili, in volumetti molto più economici, i titoli di uno studioso e dirigente di partito, il suo nome era Luciano Gruppi, i quali spiccavano sia per la limpidezza del dettato e la capacità di sintesi sia soprattutto per la consonanza, per così dire sempre calcolata ora per allora, con la linea del Partito medesimo: Il pensiero di Lenin (’70), Il concetto di egemonia in Gramsci (’72), Togliatti e la via italiana al socialismo (’74) ne erano i titoli maggiori e dunque riassumevano con puntualità il punto di vista, così come di riflesso il senso comune, di una formazione politica che all’apice del consenso elettorale (più di un elettore su tre fra il ’75 e il ’76 aveva votato il Pci, tra le lezioni amministrative e politiche) proprio allora stava trapassando da partito di massa e di militanti a partito di amministratori con responsabilità di «governo» (e tale era la parola-chiave, quasi un mantra che di per sé additava debolezze e nequizie della Dc nello stesso momento in cui veniva avanzata la proposta del «compromesso storico»).
I LIBRETTI di Luciano Gruppi erano in realtà una piccola summa ideologica e insieme il più dignitoso testamento del partito che nel giro di un decennio avrebbe rinunciato, per la forza convergente di fattori interni ed esterni, a una propria ragion d’essere nel collasso di qualunque proposta politica originale, autonoma, nella vergogna persino della propria vicenda.
Insomma nella resa a discrezione a quanto che nella storia sacra dei partiti marxisti si sarebbe un tempo chiamato lo stato di cose presenti, cioè l’assoggettamento alle idee dominanti, per proverbio definibili come le idee della classe dominante, vale a dire quelle di un liberalismo in via di tramutarsi, armato fino ai denti, in neo-liberalismo o ordo-liberismo la cui compiuta realizzazione da molto tempo è riscontrabile nell’annientamento di qualsiasi struttura anche solo nominalmente antagonista.
Luciano Gruppi, per rimanere al suo nome emblematico, era stato infatti tra gli ultimi responsabili di una istituzione a suo tempo leggendaria nell’intero Occidente, la scuola di formazione politica per quadri e dirigenti del Pci, un collegio comunista attivo per quasi mezzo secolo nel suburbio a sud di Roma, località Frattocchie, tanto eloquente da divenirne l’antonomasia. E si intitola infatti A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie (1944-1993) (Laterza, pp. 265, euro 18) l’utilissimo lavoro di una storica, Anna Tonelli, che da sempre connette la misura interpretativa alla filologia e pertanto alla capacità di addurre e decifrare documenti di prima mano.
LA SCANSIONE relativa a quello che dalla metà degli anni cinquanta si chiama «Istituto di Studi Comunisti» va obbligatoriamente dall’arrivo di Ercoli (Palmiro Togliatti) a Salerno alla cosiddetta «svolta» di Achille Occhetto e dei suoi comprimari che, dopo l’’89, decreta l’estinzione del medesimo Partito comunista italiano. Il dettato di Tonelli è limpido e puntualmente asseconda ogni passaggio di fase: Frattocchie è nell’immediato dopoguerra una scuola che cerca di sopperire alla indigenza ideologico-politica di militanti magari passati per la Resistenza ma sprovveduti sotto il punto di vista ideologico-politico; poi, fra gli anni cinquanta e settanta, è la couche di un partito che deve misurarsi tanto con le ristrettezze e le rigidezze della Guerra Fredda quanto con le tumultuose novità di un Paese appena ricostruito e avviato, in pochi anni, a potenza industriale; infine Frattocchie è il luogo in cui si incontrano e configgono, ben evidenti già alla metà degli anni settanta, i risultati di una raggiunta egemonia culturale e i primi contraccolpi di una effettiva incapacità a leggere gli sviluppi del neo-capitalismo e delle società amministrate già in via di ristrutturazione e globalizzazione.
Davvero interessante la trafila degli allievi e dei docenti illustri (fra i tanti altri Alfredo Reichlin, Miriam Mafai, Pietro Ingrao, Lucio Lombardo Radice, insomma il Gotha della intelligenza comunista, non escluso Enrico Berlinguer, spedito a dirigere Frattocchie a cavallo del ’56, in realtà per punizione o meglio per scarsa ortodossia riguardo al giudizio sui moti ungheresi) ma molto più eloquente è la trafila dei compagni di base, gli anonimi, le cui testimonianze scritte rappresentano un diagramma itinerante della storia del partito. All’inizio si è mandati dalle Federazioni a Frattocchie (e nei suoi satelliti, come ad Albinea di Reggio Emilia, longeva fucina di amministratori locali) come a una scuola sovietica poi via via come ad uno stage di quadri, di dirigenti e/o amministratori.
NEL TEMPO cambia l’estrazione, con un deficit progressivo di operai, così come la durata della permanenza, il clima e il costume in quella che all’inizio può sembrare a taluni una nuova compagnia di gesuiti sovietici e alla fine, viceversa, la perfetta realizzazione di un campus all’occidentale. E cambiano ovviamente anche i programmi e le bibliografie, prima rigide e afferenti in esclusiva al marxismo poi più aperte e inclusive, dopo gli anni del Boom economico, alle scienze umane o comunque alle discipline affluenti. E a mutare è anche il modello espressivo, che dall’italiano liceale e un poco eredo-crociano, prediletto da Togliatti, si indirizza a un dettato più limpido e schietto, come sempre nei voti di Tullio De Mauro. Di particolare interesse è l’analisi per campione che Tonelli conduce da un lato sui testi degli allievi (nel dopoguerra sono ovviamente «autobiografie», talora ingenue e struggenti, ancora di chiara impronta stalinista) dall’altro sulle valutazioni che i dirigenti assegnano agli allievi medesimi: anche qui, alle virtù della obbedienza e della affidabilità, in ogni caso della serietà e irreprensibilità dei costumi, si preferiscono via via quelle della intraprendenza e della autonomia di giudizio.
MA IL PIÙ AVVINCENTE sottotraccia di A scuola di politica, quasi un libro nel libro, è dedicato alla presenza femminile in Frattocchie, così spinosa che nel ’47 il dirigente Mario Melloni (il futuro corsivista dell’ Unità a firma «Fortebraccio») calcolava in questi termini, opponendosi alle classi miste: «Da sole non pesa su di loro quel senso di inferiorità che si manifesta in loro quando si trovano in mezzo agli uomini, specialmente nel campo dei problemi politici, sono più spigliate, hanno più fiducia in se stesse, si comprendono meglio come allieve e si crea in loro uno stato d’animo più facile all’assimilazione della materia che studiano». Da un simile paternalismo muove il difficile, tormentato, talora apertamente contrastato, processo di emancipazione a ogni liv. ello che rende tuttavia inconfondibile, nei decenni, il profilo delle dirigenti comuniste. La loro storia appare anzi come una sineddoche e cioè la parte per il tutto, capace di svelare in retrospettiva la natura e le contraddizioni di quel grande partito. Infatti un documento che ne annuncia il principio della fine è quello sottoscritto dalle partecipanti al «Corso Femminile» tenutosi a Frattocchie nel luglio del 1983: «Torniamo all’attività politica quotidiana convinte che nel partito troppi valori di impronta maschile ci impediscono troppo spesso di vivere esperienze di questo tipo.
I SENTIMENTI di emulazione, di competizione, le figure carismatiche, il senso della gerarchia sinora ci hanno costrette a tacere o a parlare separandoci dai nostri dolori, dalle nostre gioie, insomma da noi stesse. In questo modo il partito appare meno fragile, più scientifico e asettico, ma certo vive nel profondo e quindi anche nella sua capacità di incidenza politica una mancanza, una contraddizione che lo indebolisce limitandone potenzialità e ricchezza propositive». Scritta meno di dieci anni dopo i trionfi elettorali, lontana anni luce dai libri di Luciano Gruppi e ormai da ogni vulgata, questa pagina allarmante è presaga e si affaccia a un presente che sappiamo rovinoso.

Corriere 29.3.18
Elzeviro
A un anno dalla scomparsa
Con Sartori dalla parte dei cittadini
di Gianfranco Pasquino


Pessima tempora . Con tutta probabilità, questo sarebbe il severo commento di Giovanni Sartori alla fase attuale della politica non solo italiana. Però, sbaglierebbe di molto chi pensasse, evidentemente avendo letto poco e male i suoi incisivi editoriali sul «Corriere», molti dei quali raccolti nel volume Mala tempora (Laterza, 2004), e per niente i suoi libri, che Sartori si sia limitato a critiche aspre e sprezzanti (peraltro quasi sempre giustificatissime).
In maniera puntuale e costante, Sartori combinava le critiche, da un lato, con le sue conoscenze comparate relative al funzionamento dei sistemi democratici, dall’altro, con suggerimenti e indicazioni operative. La scienza politica di Sartori, nutrita di storia, di filosofia, di logica, ha voluto essere lo strumento per trasformare i sistemi politici, per costruire democrazie migliori. A un anno dalla scomparsa, è giusto chiedersi che cosa scriverebbe, quali commenti farebbe, quali errori vorrebbe correggere, quali strade suggerirebbe di percorrere. Nessuna risposta sarebbe scontata, poiché Sartori aveva grande fantasia e notevole originalità, ma molto è possibile ipotizzare prendendo lo spunto dai suoi libri e dai suoi numerosi articoli scientifici.
È certo che Sartori insisterebbe sulla assoluta necessità di un’analisi sistemica, vale a dire di tenere conto che qualsiasi cambiamento, ad esempio, della legge elettorale, produce una molteplicità di effetti sui partiti, su chi viene eletto e sul Parlamento, indirettamente anche sulla formazione dei governi. Nessun governo nelle democrazie parlamentari è eletto dai cittadini né deve esserlo, pena la rottura del pregio maggiore di quelle democrazie: la loro flessibilità, con i governi che possono mutare composizione in Parlamento anche tenendo conto dei mutamenti nei rapporti di forza, nelle preferenze, nella società. Questa flessibilità, sottolineerebbe Sartori, può esistere e riprodursi soltanto nella misura in cui i parlamentari non abbiano nessun vincolo di mandato e non siano debitori della loro elezione a gruppi di pressione o ai dirigenti dei partiti, ma solo ai loro elettori. Migliore è quella legge elettorale, ne esiste più di una, che consente agli elettori di esercitare potere effettivo sull’elezione dei rappresentanti parlamentari e che, di conseguenza, incentiva gli eletti a mantenersi in contatto con coloro che li hanno votati.
La rappresentanza politica, tale solo se elettiva, implica, anzi, impone la accountability . In politica rappresentare è agire con competenza e con responsabilità. Nulla di tutto questo viene meno neppure in un mondo nel quale la comunicazione politica passa attraverso internet e piattaforme di vario genere. Sartori denunciò mirabilmente le distorsioni che la televisione e, a maggior ragione, i social network, possono produrre nella formazione dell’opinione pubblica. Vide rischi e pericoli della democrazia elettronica, ma sostenne anche che la grande forza delle democrazie, quelle reali, da tenere distinte da quelle ideali, è la loro capacità di autocorrezione.
Le democrazie che ciascuno di noi considera ideali sono utili a disegnare gli obiettivi da perseguire purché, ha sostenuto Sartori, ci si attrezzi con gli strumenti più adeguati, a cominciare dalle indispensabili conoscenze comparate. Il dialogo con lui merita di essere continuato non tanto perché nella sua produzione scientifica e pubblicistica si trovino tutte le risposte, ma perché la lezione di metodo della sua scienza politica è tuttora in grado di offrire grandi ricompense culturali, intellettuali, politiche.

Repubblica 29.3.18
Tullio Regge
Il Nobel mai dato a un fisico geniale
di Piergiorgio Odifreddi


A novembre del 1981 Vera Jarach, una delle madri di Plaza de Mayo, va a trovare a Buenos Aires Jorge Luis Borges.
Oggetto del colloquio il suo racconto, La biblioteca di Babele.
Ma l’oriunda italiana non si reca dallo scrittore per chiedergli lumi, bensì a darglieli. Poche settimane prima, sul supplemento culturale Tuttolibri della Stampa di Torino è uscito un articolo di Tullio Regge,
La biblioteca di Borges mette in crisi anche l’Universo.
Il fisico, rileggendo i dati di Borges, ha fatto i calcoli: la Biblioteca contiene tutti i libri di 410 pagine, ciascuna di 40 righe, ciascuna di 40 battute, scritti in un alfabeto di 25 lettere. Dunque, i libri sono 25 elevato a 656.000: un numero di poco più di 900.000 cifre. Supponendo che la densità media della Biblioteca sia uguale a un decimo di quella dell’acqua, ne risulta una massa enorme che collasserebbe in un buco nero.
Borges è entusiasta di questa osservazione. Una sua intervista esce su Tuttolibri, e costituisce uno straordinario dialogo a distanza tra il fisico e lo scrittore.
Tre anni dopo Regge pubblicherà un vero Dialogo (Edizioni di Comunità, 1984) con un altro letterato: Primo Levi. Ed è proprio qui che Levi sottolineò la valenza anche letteraria e metaforica della scienza, arrivando a dire che «la fantascienza che va in commercio è marginale, un cascame: la vera fantascienza è quella che corre nella repubblica dei fisici, scritta dai fisici per i fisici».
Il motivo per ripensare al legame fra scienza e letteratura, e fra Regge, Borges e Levi, scaturisce dalla pubblicazione di L’infinita curiosità. Tullio Regge: lo scienziato e l’uomo, una raccolta di saggi curata da Vincenzo Barone e Piero Bianucci, che sono anche autori di L’infinita curiosità. Breve viaggio nella fisica contemporanea.
Entrambi i volumi (Dedalo) escono in occasione della mostra «L’infinita curiosità. Un viaggio nell’universo in compagnia di Tullio Regge», che ha già attirato all’Accademia delle Scienze di Torino più di 20.000 visitatori.
L’articolo di Regge su Borges varrebbe già da solo la raccolta di saggi, anche se essa non contiene purtroppo l’intervista di Borges su Regge, difficile da reperire. Ma contiene un articolo di Kip Thorne, vincitore nel 2017 del Nobel per la fisica, che racconta uno degli aneddoti costitutivi del mito di Regge fra i fisici. Quando questi era ancora dottorando, incontrò nel 1955 a un convegno il fisico John Wheeler, che all’epoca studiava i buchi neri, anche se solo in seguito li battezzerà così: per questo oggi si crede che ad averli scoperti sia stato Stephen Hawking, che invece non inventò nemmeno il nome, e si limitò a sfruttarlo nel suo fortunato Dal Big Bang ai buchi neri.
Wheeler cercava di capire se i buchi neri fossero stabili o destinati a scomparire, esplodendo o svanendo. Scrisse un articolo in cui spiegava cosa sarebbe successo a un buco nero che venisse disturbato, ma lasciò gli spazi vuoti per le equazioni che non ancora non aveva. Lo diede a Regge da leggere, e dopo qualche giorno lo ricevette indietro con i calcoli fatti e le equazioni scritte.
Thorne dice che quel lavoro fu uno dei più importanti che lesse da studente, alcuni anni dopo.
Wheeler e Thorne scrissero poi, insieme a Charles Misner, un volume di 1.300 pagine, Gravitazione (1973), considerato la Bibbia della relatività generale. Il capitolo 42 è dedicato al “calcolo di Regge”, che consiste nell’approssimare lo spazio-tempo continuo di Einstein con una sua tetraedrizzazione discreta.
L’interesse del calcolo di Regge sta nel fatto che, secondo la meccanica quantistica, lo spazio-tempo dovrebbe essere veramente discreto, invece che continuo. In tal caso, non sarebbero le equazioni di Regge ad approssimare quelle di Einstein, ma il contrario: le vere equazioni della relatività generale sarebbero quelle di Regge, e quelle di Einstein costituirebbero il loro limite, quando i tetraedri diventano così piccoli da svanire in un punto.
Un esempio di struttura geodetica poligonale è il pallone da calcio, costituito da 12 pentagoni e 20 esagoni. Un articolo di Mario Rasetti nel volume dedicato a Regge racconta come i due si siano trovati nel 1980 a Varsavia per uno stage di un paio di mesi, senza poter usufruire di distrazioni quali la televisione o il cinema, a causa della lingua.
Vedendo la pubblicità di una birra illustrata con un enorme pallone da calcio, una sera si domandarono se potesse esistere una struttura analoga con 60 atomi di carbonio posti ai vertici delle facce, e ne studiarono la teoria matematica e chimica.
Cinque anni dopo quella stessa struttura fu riscoperta e sintetizzata da Harold Kroto, Robert Curl e Richard Smalley, che vinsero per questo il premio Nobel per la chimica nel 1996.
Regge non vinse mai il suo per la fisica, come Hawking, benché sia stato nominato più volte.
Ricevette invece nel 1979 la medaglia Einstein, sempre come Hawking.
I due fisici hanno avuto vari altri aspetti in comune. Entrambi furono brillanti scienziati, accattivanti divulgatori e coraggiosi disabili. Ma mentre il nome di Hawking viene strombazzato ai quattro venti, quello di Regge è suonato in sordina. Più realisticamente, e più correttamente, nella raccolta di saggi a lui dedicata viene descritto come «il maggior fisico teorico italiano dopo Enrico Fermi».
Questo è vero, e scusate se è poco.

Il Fatto 29.3.18
Nellie Bly si finse pazza per andare in guerra
di Alessia Grossi


Più che #MeToo, #SoloIo. Nellie Bly, al secolo Elizabeth Jane Cochran (1864-1922), prima giornalista statunitense non addetta alla posta del cuore, stipendiata da Pulitzer, reporter della Grande Guerra, autrice di cronache dal “Giro del mondo in 72 giorni”. Critica convinta delle new women: “Più lavoro, meno parole” era il suo motto, viene ora riscoperta in diverse pubblicazioni, tra cui Dove nasce il vento di Nicola Attadio (Bompiani), che racconta la vicenda straordinaria di “Pink”, detta così per il rosa con cui era solita vestirla sua madre e La vuelta al mundo en 72 días y otros escritos (Capitán Swing), raccolta dei suoi reportage uscita in Spagna.
E se l’è cercata. In tempo di Time’s Up e stravolgimenti del punto di vista maschile, chi più di “Lizzy”, venuta da Pittsburgh a New York nel quasi 1900 può raccontarci com’era e com’è assistere alla disfatta di una madre per mano di un alcolista violento, ripromettersi che “Mai più barattare la propria dignità in cambio di un po’ di sicurezza. Mai più nella propria vita dovrà dipendere da un uomo. Mai più”, come ricorda Attadio nel libro, cosa significava voler svolgere il proprio lavoro sopra ogni cosa e “piangere e scrivere, senza fermarsi” una lettera al quotidiano della sua città contro La sfera delle donne, il pezzo con cui il giornalista Wilson tentava di rimettere ordine nel crescente malcontento femminile dell’epoca. La firma è “Lonely Orphan Girl” (Orfana solitaria). Ma è “Pink” Nellie a scriverla. E – invitata da Wilson – si presenta in redazione: “Ha un vestito di seta nero e una specie di turbante. Ha ancora il fiatone per l’emozione e per i quattro piani di scale”, narra Attadio. Il giornalista, colpito dalla sua missiva la invita a riscriverla sotto forma di articolo “pagato”. Nellie non ci crede. Ma quello sarà solo la prima di una lunga serie di fatiche ben ripagate. Certo non è la prima, né l’ultima donna a fare la giornalista, a quel tempo in giro per il mondo ne nascono e combattono altre: da Sofia Casanova (1851-1968), l’intervistatrice di Trotsky, che inviava le sue cronache dal fronte della Prima guerra mondiale, a Carmen de Burgos (1867-1932) che un giorno fece la valigia e se ne andò a coprire quella di Melilla, oppure – di lì a poco – la sua collega Clare Hollyngworth (1911-2017), prima a dare l’esclusiva dell’invasione tedesca della Polonia che diede inizio alla Seconda Guerra mondiale. O la fotoreporter di guerra Gerda Taro, di cui da poco è stata ritrovata l’ultima foto: la protagonista per una volta è lei. In fin di vita, colpita in Spagna durante la Guerra civile, raccontata fin dal principio con il suo compagno Robert Capa.
Ma a Nellie Bly senz’altro va il primato del giornalismo in prima persona, quello che nel 1970 renderà famoso Hunter S. Thompson. Sotto questo segno distintivo pubblicherà per il New York World di Pulizter, meglio, per il decennale della sua direzione, “l’inchiesta sul manicomio femminile di Blackwell’s; l’indagine undercovered sul lobbista Phelps e il giro del mondo in meno di ottanta giorni”. Ma dopo un matrimonio sbagliato e un fallimentare tentativo di scrivere fantasy, il meglio dei suoi reportage verrà dal fronte austro-ungarico. Ieri, giovedì 29 ottobre, sono partita per il fronte. Mi hanno chiamata alle cinque di mattina. Lavarsi al buio è stato poco piacevole. La mia lampada elettrica era esaurita e la luce del giorno non si era ancora levata. “Inizia così la cronaca del viaggio verso Przemysl, la roccaforte in Galizia (nell’attuale Polonia) al confine orientale dell’impero”, come ricostruisce Nicola Attadio in Dove nasce il vento. Chi uccidono, cosa uccidono, non lo sanno. Arriva l’ordine di sparare in una certa direzione e a una determinata distanza. “Trecentoquaranta metri” li ho sentiti dire. “Di nuovo duecentocinquanta.” Così gli uomini uccidono senza emozione. Non assistono ai risultati e dunque uccidere risulta meno arduo, racconta Nellie Bly. Sempre in prima persona, sempre senza filtri, per spiegare “che la guerra sceglie le vittime a caso”. Una lezione da tenere bene a mente come la sua cifra giornalistica. “Per lei la stampa serve solo se rompe il muro dell’indifferenza, se ci fa conoscere ciò che non vogliamo guardare. Nellie cammina, osserva, registra. Capita che, soffermandosi su un dettaglio utile per un articolo, perda di vista il gruppo. Spesso recupera, seppur con fatica, e raggiunge gli altri. Arriva con il fiatone”, come ai vecchi tempi. Come al principio della sua carriera a Pittsburgh. Ma più nulla è come allora. Quando Pink torna a New York nel 1919 l’aspetta un’altra guerra, quella legale con sua madre e suo fratello, e come lei anche la Grande Mela non è più la stessa “Il progresso, lo splendore, la fiducia del ventennio a cavallo tra i due secoli si sono infranti contro l’orrore della guerra”. Dopo anni di lotta, al principio del 1922 Pink muore incredibilmente di broncopolmonite. Il suo amico e collega storico, Arthur Brisbane scrive sul Journal: “Non ho mai scritto una parola che non provenisse dal mio cuore. E mai lo farò”. Firmato, Nellie Bly.