La Stampa 26.3.18
L’avanzata dei putiniani d’Italia
di Massimiliano Panarari
«Marciare
divisi, colpire uniti». La massima strategica del feldmaresciallo
prussiano Helmuth von Moltke si adatta benissimo anche ai putiniani
d’Italia. Una galassia assai articolata, ma pronta a ricompattarsi
all’istante, con alcuni grandi pianeti e tanti satelliti minori. Un
partito molto trasversale che va dall’estrema destra all’ultrasinistra,
con il minimo comun denominatore nell’antiliberalismo, in una specie di
pavloviano riflesso anticapitalista e, soprattutto, in un fastidio
malcelato - quando non direttamente rivendicato - per l’idea di
democrazia rappresentativa. Perché qui non si tratta tanto di rapporti
economici (e di sanzioni che alcuni soggetti imprenditoriali vogliono
alleggerire o levare), ma di politica tout court. E di ideologia, quella
rossobruna (alla convergenza di opposti estremismi) ed eurasiatica.
In
origine c’era Silvio Berlusconi, che aveva una relazione speciale, e
personale, con l’ormai sempiterno presidente russo; poi, nel corso di
questi ultimi anni, l’intera coalizione di centrodestra (oggi diventata
decisamente di destra-centro) si è fatta risucchiare nell’orbita della
simpatia per il putinismo e dei rapporti (più o meno) diretti con Russia
Unita o con le formazioni politiche iperpopuliste dell’ex cortina di
ferro.
Relazioni privilegiate che, non ci dovrebbe essere bisogno
di ricordarlo, configurano rischi e gradi variabili di pericolosità per
il nostro Paese, che nell’atlantismo e nell’europeismo trova i
fondamenti della propria politica internazionale. Da Fratelli d’Italia
alla Lega di Matteo Salvini - che in un tweet ha definito il rieletto
Putin «uno dei migliori uomini politici della nostra epoca», e si avvale
dell’«Associazione culturale Lombardia-Russia» come della propria testa
di ponte in terra ex sovietica -, la destra istituzionale e di governo
appare compatta nell’esprimere ammirazione per il neo-zar. Il putinismo è
anche l’unico collante del solitamente litigiosissimo arcipelago del
neofascismo - da Forza Nuova a CasaPound - che stravede per il
«patriottismo russo» in Ucraina e sul fronte del Donbass, dove sono
andati a combattere come volontari anche svariati «miliziani» italiani.
Irresistibile, inoltre, è l’ascendente russofilo su tutta una serie di
ambienti culturali anti-occidentali, tanto movimentisti quanto
salottieri. E se il dimaismo di governo sembra sempre impegnato per
l’accreditamento presso le cancellerie occidentali, ben diverso è il
«grillismo di lotta», che nel suo network mediatico internettiano ha
fatto (e fa tuttora) circolare abbondantemente fake news e
disinformazione made in Russia; ed essendo il Movimento 5 Stelle una
forma-partito camaleontica, il filoputinismo rimane comunque ben
presente, e rappresentato, tra i ranghi pentastellati.
I vertici
del Cremlino elargiscono sostegni di varia natura (finanziaria e non) a
quei partiti amici che, un tempo, sarebbero stati detti «fratelli»,
mentre oggi Mosca adotta l’interscambiabilità dei suoi partner politici e
non si fidanza per la vita con nessuno. Ma per fare proselitismo il
putinismo ha puntato anche su una modalità di re-ideologizzazione. Una
narrazione contrapposta alla globalizzazione, e basata su nazionalismo,
sovranismo, isolazionismo, comunitarismo, identitarismo e avversione nei
confronti dei diritti individuali: un prodotto perfetto per apparire
(paradossalmente) antisistema, adottato dai partiti populisti
simpatetici per conquistare consenso sul mercato elettorale di un
Occidente disorientato e scosso da un marcato disagio sociale. E, per i
tanti fan dell’uomo forte (e solo) al comando, Putin ha messo in campo
l’offerta politica della «democratura»: plebiscitarismo, tanta
comunicazione, più una (abbondante) spruzzata di autoritarismo riesumato
dal socialismo reale e convertito in leadership personalizzata. Et
voilà, il gioco è fatto.