Corriere 26.3.18
Scenari post voto
I moderati senza una rotta
di Francesco Verderami
Alla
vigilia delle elezioni uno studio di Swg sulle identità politiche degli
italiani aveva proposto un’analisi comparata tra il 2013 e il 2018:
cinque anni prima i cittadini che si definivano «ceto moderato» erano il
36%, cinque anni dopo si erano ridotti al 21%. Quella che è sempre
stata la maggioranza relativa del Paese è diventata un’area di minoranza
rispetto a nuove «etichette», nelle quali ormai si riconosce gran parte
dell’opinione pubblica nazionale. È tempo di cambiare le categorie
della politica? Si è forse conclusa la lunga stagione che ha
attraversato la Prima e la Seconda Repubblica? O più semplicemente
quanti erano chiamati a rappresentare le istanze del «ceto moderato» non
sono stati più in grado di farlo? Perché il «ceto moderato» comunque
continua a esistere, dopo la Dc aveva trovato il suo baricentro nel
centrodestra a trazione berlusconiana.
Ma quel centrodestra non
esiste più: il sorpasso su Forza Italia operato da Salvini nelle urne, e
la leadership che il segretario della Lega ha conquistato nelle
trattative sulle presidenze delle Camere, cambia la natura della
coalizione. E ne cambia anche le prospettive. È vero che il progetto di
Lega-Italia non è che la riedizione del Pdl, prima costruito e poi
sciolto da Berlusconi, ma è altrettanto vero che la sua linea
nazionalista contrasta con la tradizione popolare ed europeista nella
quale il fondatore dell’alleanza si è sempre riconosciuto.
A
questo punto Berlusconi, che per venticinque anni è stato la voce di
gran parte del «ceto moderato», può ancora rappresentare quell’area di
opinione pubblica? Oppure serve qualcosa di nuovo e qualcuno nuovo che
raccolga il testimone? E qui emergono i problemi. Dentro Forza Italia,
per varie ragioni, il tema del futuro non si è mai posto perché così era
peraltro imposto dal leader (anche) con la forza dei numeri, oltre che
del suo carisma. Ma il futuro è arrivato, cogliendo di sorpresa una
classe dirigente che rivela i suoi limiti.
Mentre il vecchio
impero viene occupato da nuovi conquistatori, che dimostrano una
capacità di azione politica pari alla determinazione con cui la
impongono, si assiste al frenetico agitarsi di quanti — per ambizioni
personali, istinto di sopravvivenza e spirito di adattamento — cercano
soltanto di non venire travolti dal nuovo. Manca chi sappia proporre un
progetto, offrire un orizzonte. Nessuno sembra essere né avere voce.
L’ultimo
tentativo di arrocco era stato la riforma del modello di voto,
concepita insieme al Pd con l’intento di costruire — dopo le urne —
delle larghe intese sul modello europeo dell’alleanza tra popolari e
socialisti, come già in Germania e in Spagna. Se il Rosatellum ha avuto
un effetto di sistema opposto, c’è un motivo: la riproposizione della
rivoluzione liberale (datata 1994) ha evidenziato in campagna elettorale
un’assenza di idee che ha amplificato il senso di frustrazione del
«ceto moderato» colpito dalla grande crisi.
Così il Paese ha
scelto la via del cambiamento radicale. La forza centrifuga che questa
autentica rivoluzione politica sta producendo potrebbe portare alla
marginalizzazione e poi alla dissoluzione delle aree moderate e
riformiste, oppure alla loro scomposizione e alla nascita di un nuovo
progetto.
D’altronde un processo di osmosi tra i blocchi che si
sono contrapposti nella Seconda Repubblica era iniziato: in fase
embrionale con le larghe intese ai tempi del governo Letta, e in maniera
più visibile con il patto del Nazareno nell’era renziana. Il
Rosatellum, con le sue finalità di governo, è l’indizio più evidente.
Si
vedrà se un’operazione macroniana avrà tempo e spazio per realizzarsi
anche in Italia. E se Salvini e Di Maio — che si propongono come i
fondatori della Terza Repubblica e di un nuovo bipolarismo — daranno
tempo e spazio agli avversari per costruire un simile progetto. In ogni
caso servirebbero nuovi attori per un’operazione che si porrebbe come
area di rappresentanza alternativa a quella sovranista e populista.
Ma
il futuro è oggi. La sfida che sta per iniziare con le consultazioni
per la formazione di un governo, garantisce a Berlusconi ancora un ruolo
importante, con la consapevolezza però che l’unità del centrodestra non
è un valore in sé. Certo, nessun leader può essere insensibile alla
necessità di dare stabilità al Paese. Sarebbe tuttavia complicato
assecondare progetti che allontanerebbero il suo partito dall’area di
riferimento europea, dove Forza Italia esprime il presidente del
Parlamento. E sarebbe ancor più difficile spiegare al «ceto moderato»
come si possano combinare le tesi liberali sostenute per venticinque
anni con il reddito di cittadinanza.