La Stampa 25.3.18
Israeliani e palestinesi
Immaginare la pace sotto il cielo di Gerusalemme
di Nathan Englander
Esattamente
il giorno dopo l’uscita del mio nuovo libro, Dinner at the Center of
the Earth, mi sono trovato faccia a faccia con una donna che mi diceva
che uno dei ragazzi assassinati nella storia era suo cugino. Avevo
appena passato anni dentro la mia zucca, addentrandomi nel campo minato
del conflitto israelo-palestinese, e adesso ero lì, abbagliato dalla
luce del sole, e cercavo di fare i conti con l’interpretazione non del
libro ma di me.
Insieme avremmo affrontato la questione di dove si trovasse esattamente fosse il mio cuore mentre scrivevo.
Ho
fatto un bel respiro profondo, in attesa di capire se si trattava di un
momento di intimità condivisa o di una pubblica denuncia.
Il
giudizio di un estraneo per me è davvero importante. Non solo perché
sono fin troppo sensibile e mi sento venir meno al minimo segno di
sgradimento artistico.
che ho sempre considerato la letteratura un
atto morale, convinto che l’opera sia ispirata dalla percezione di ciò
che è giusto e di ciò che è sbagliato da parte dello scrittore.
Se
uno si sforza di costruire qualcosa di reale e vero, questo dovrebbe,
come disse John Gardner Said, avere «carattere morale». Dovrebbe essere
possibile «esplorarlo liberamente, trarne insegnamento», e
inevitabilmente, come per l’esperimento di un chimico in laboratorio -
per usare la sua metafora - testarne i valori.
Nel romanzare la
mia vita a Gerusalemme durante gli anni del processo di pace, nel fare i
conti con la mia disperazione per un’occasione perduta e la mia
speranza per un’impossibile nuova opportunità, non volevo altro che
attraverso il romanzo la gente partecipasse alla conversazione e
riflettesse. Volevo che pensassero al modo in cui vedono le cose.
In
precedenza avevo pubblicato un’allegoria sull’occupazione della West
Bank, Sister Hills che, con mia sorpresa, funzionava come un test di
Rorschach. I lettori spesso vi trovavano quello che volevano vederci e
questo mi ha costretto a pensare a come funzionano l’intento e
l’interpretazione e ha dato forma alla composizione di Dinner at the
Center of the Earth. Quando ho iniziato a lavorarci ero acutamente
consapevole di due obblighi personali
Il primo, legato ai mio
senso morale, era la consapevolezza, effettivamente bizzarra, che avrei
dovuto desiderare, con tutte le mie forze, che il libro uscisse come
romanzo storico. Che avrei scoperto di aver perso il momento e di avere
tracciato il ritratto di un tempo tramontato. Che bello sarebbe stato
svegliarsi il giorno della pubblicazione del libro e scoprire che Jared
Kushner aveva posto fine all’antico odio lasciandomi a parlare del nulla
alla Npr (radio pubblica-privata di Washington Dc, ndr)?
Il
secondo obbligo riguarda il sé dissociato, il pozzo dell’inconscio - da
cui - per quanto sciropposo possa sembrare - sgorga la finzione
letteraria. Nella misura in cui l’immaginazione può essere guidata e per
quanto io possa avere mirato a questo, riconosco che la mia intenzione,
come nel paradosso del gatto di Schrödinger, non era quello di
presentare le due parti del conflitto israelo-palestinese, ma di
scrivere con la consapevolezza delle due diverse realtà che include.
Mi
sono trasferito a Gerusalemme nel 1996, entusiasta di far parte del
processo di pace, di contribuire a quel giorno nuovo di zecca. Sono
tornato a New York nel 2001 al culmine della Seconda Intifada. Insieme
al cuore spezzato che ho riportato in America con me, e a un pessimismo
ottimista che conserva ancora una sorta di promessa, sono tornato con
una comprensione della sfida necessaria per porre fine al conflitto
La
pace non veniva negoziata tra due parti con posizioni diverse su un
problema. Gli israeliani e i palestinesi erano due popoli che, pur
condividendo lo stesso spazio fisico, non stavano nemmeno abitando lo
stesso regno.
Come ebreo, ho vissuto cinque anni a Gerusalemme, il
cui amato luogo sacro è il Monte del Tempio. I miei vicini palestinesi,
camminando per le stesse strade e respirando la stessa aria, vivevano
ad al-Quds, il cui grande luogo sacro, che occupa la stessa collina, è
Haram al-Sharif. È come imbattersi in un amico sul ponte di Brooklyn,
solo per scoprire che lui sta attraversando il Golden Gate.
L’empatia
che richiede gettare questo ponte tra i ponti va ben oltre
l’accettazione di una diversa opinione o punto di vista. Si tratta di
trovare un modo di comprendere dei mondi.
È quell’intuizione che
mi ha condotto attraverso la struttura a spirale del mio romanzo, che mi
ha portato a costruire un libro con il possibile felice obiettivo di
essere imparziale. Ho voluto, come autore, offrire quello che è più
significativo per me come lettore: una narrazione che affronta i
problemi attraverso il personaggio e la storia, senza essere didascalico
o polemico.
Le mie buone intenzioni nello scrivere mi permettono
di parlare con il cuore in mano in ogni occasione. Così quando mi viene
chiesto, da una parte in causa di questa annosa disputa, di rinunciare
al diritto di vivere in Israele secondo la Legge del Ritorno, o,
dall’altra, di ridurre in qualche modo il legame di Ariel Sharon con il
massacro di Sabra e Shatila, posso affermare che la mia intenzione non
era quella di difendere qualcuno, ma di invitare i lettori a valutare i
motivi del loro punto di vista.
Per quanto riguarda la
conversazione con quella lettrice, legata a una delle vittime innocenti
ricordate nel mio romanzo, è un momento che tengo per me. Devo però dire
che per un libro che aveva come principale obiettivo quello di
esplorare l’empatia, quell’estranea mi ha gentilmente concesso il
beneficio del dubbio, riconoscendo la mia umanità, come io ho supposto
la sua. In questa realtà e nell’altra, questo è tutto ciò che cercavo,
alla fine.
Traduzione di Carla Reschia