giovedì 22 marzo 2018

La Stampa 22.3.18
Zuckerberg: “Sono responsabile
Tradita la fiducia della gente”
Il fondatore di Facebook rompe il silenzio: fatti errori, verificheremo ogni app Dalla California partita la prima “class action” per violazione della privacy
di Francesco Semprini


Re Mark rompe il silenzio e ammette le colpe sue e degli alti vertici di Facebook. «Sono responsabile di quello che è successo - dice -. Abbiamo commesso errori, c’è ancora molto da fare», scrive sulla sua pagina personale del social media.
Ha il tono di un sovrano caduto in disgrazia il fondatore del re dei social: «Abbiamo la responsabilità di proteggere le vostre informazioni». «Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non riusciamo a farlo non meritiamo di essere al vostro servizio» aggiunge il numero uno di Facebook, spiegando in un post sulla sua pagina Facebook che sta lavorando «per capire esattamente cosa è successo e assicurarsi che non accada mai più». «La buona notizia - aggiunge - è che molte misure per prevenire tutto questo sono state già prese anni fa».
Il mea culpa di Zuckerberg pone fine a una gestione pressoché fallimentare dello scandalo da parte dei vertici di Menlo Park, trincerati in un insano silenzio, mentre emergevano elementi sempre più compromettenti della vicenda. Come il fatto che Steve Bannon fosse l’eminenza grigia del «Datagate», secondo la gola profonda Chris Wylie, il quale spiega come la società abbia operato sotto le sue direttive per almeno due anni, dal 2014 al 2016, prima che il timoniere di Breitbart diventasse regista della campagna di Donald Trump.
L’obiettivo era fabbricare profili dettagliati di milioni di elettori americani su cui misurare l’efficacia dei messaggi populisti alla base della cavalcata dell’ex-tycoon in Usa 2016. Bannon provvide anche al finanziamento della società grazie all’aiuto dei suoi amici miliardari, tra cui la famiglia del facoltoso conservatore Robert Mercer. L’ex stratega della Casa Bianca impartiva ordini precisi ad Alexander Nix, il ceo della società sospeso con lo scoppio dello scandalo. Tra questi ci fu il via libera nel 2014 ad una spesa di circa un milione di dollari per acquistare dati personali raccolti anche su Facebook. Bannon a sua volta - riferisce il quotidiano della capitale - ha ricevuto da Cambridge Analytica nel 2016 oltre 125 mila dollari in compensi per le sue consulenze, detenendo fra l’altro quote della stessa per un valore sino a 5 milioni di dollari.
Wylie ha però sottolineato come non sia chiaro se Bannon e i Mercer fossero a conoscenza dei dettagli su come tale raccolta avveniva. All’epoca «non pensavamo a Trump, lui non era nostro cliente né altro», ha precisato. Wylie spiega tuttavia come Cambridge Analytica avesse già scoperto, in occasione del Midterm 2014, come tra i giovani americani, bianchi e di orientamento conservatore, ci fosse simpatia all’idea di un muro per bloccare gli immigrati clandestini ed empatia «all’idea di un leader forte».
La situazione si complica quindi, anche sul piano legale con la prima «class action» intentata nei confronti del re dei social media e di Cambridge Analytica a San José, California, che potrebbe aprire la strada a molte altre per la violazione dalla privacy sui dati. La vicenda tuttavia rischia di avere intricate ramificazioni: non ultimo il fatto che il ministero della Difesa britannico aveva collaborato in almeno due «progetti» con la Scl Group, società madre la cui costola è Cambridge Analytica, garantendole sino al 2013 un posto nella «Lista X», il «bollino blu» accordato ad aziende ammesse a lavorare col governo in settori strategici.