giovedì 22 marzo 2018

La Stampa 22.3.18
La corruzione pulviscolare è il rumore di fondo del Paese
Il procuratore di Roma Pignatone: “Il malaffare è misero, deprimente e quotidiano. Triste ma doveroso registrare l’aumento dei magistrati coinvolti”


Pubblichiamo un estratto dall’intervento del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, che sarà oggi a un convegno organizzato dall’università degli studi di Firenze-Dipartimento di scienze giuridiche su «Il volto attuale della corruzione e le strategie di contrasto tra diritto vivente e prospettive di riforma», con il patrocinio della Scuola superiore della magistratura e l’Ordine degli Avvocati di Firenze. 

In primo luogo c’è una «corruzione pulviscolare», quella che qualcuno ha definito il rumore di fondo della corruzione: una miriade di fatti, anche di minima entità, basati sullo scambio di somme anche modeste con condotte o omissioni del pubblico ufficiale che costituiscono a loro volta quasi una routine. Si pensi alla tolleranza del piccolo abuso edilizio, all’invasione del suolo pubblico, al rilascio di un’autorizzazione di scarso rilievo e così via. Per strappare un sorriso amaro: in un paesino della provincia di Reggio Calabria due agenti di polizia giudiziaria che avevano rivelato a un mafioso l’esistenza di una microspia erano stati ricompensati con un fascio di carciofi.
Di solito questa corruzione pulviscolare è costituita dall’incontro tra soggetti che occupano ruoli burocratici medio-bassi e interlocutori privati dal modesto potere di acquisto. È favorita dalla cattiva amministrazione che rende più difficili i controlli dei processi decisionali, allunga i tempi di risposta e riduce la qualità dei servizi prestati. Almeno di regola questo tipo di corruzione vede un ridotto numero di partecipi, forti legami fiduciari, limitata capacità espansiva.
Naturalmente questo rapporto corruttivo che definirei classico, un do ut des senza intermediari, può anche avere a oggetto somme molto più rilevanti e atti e provvedimenti dei pubblici ufficiali molto più significativi. Un imprenditore romano ha raccontato (avendo cura che si trattasse di reati già prescritti o sull’orlo della prescrizione) di avere pagato praticamente ogni persona che aveva avuto un ruolo, anche minimo, nella trattazione delle pratiche che gli interessavano: dai 50 euro dati al commesso per portare il fascicolo da una stanza all’altra, ai mobili regalati al geometra che per primo l’aveva esaminata, fino alle grosse somme versate al dirigente che aveva il potere decisionale.
Di regola però, quando gli interessi in gioco sono più rilevanti, assistiamo a fenomeni più complessi che Alberto Vannucci, uno dei maggiori studiosi italiani, ha definito, da un punto di vista sociologico, di corruzione sistemica, in cui prevalgono modelli non pianificati di regolazione delle attività dei partecipanti, e di corruzione organizzata, nella quale vi è un riconoscibile centro di autorità che ricopre il ruolo di garante dell’adempimento dei patti di corruzione e di rispetto delle corrispondenti norme di comportamento, grazie alla sua capacità di risolvere dispute e comminare sanzioni così da assicurare ordine, prevedibilità, stabilità nei rapporti. Il garante può essere di volta in volta, in questa analisi sociologica, un partito politico, un clan politico-burocratico, un alto funzionario, un imprenditore o un cartello di imprenditori, un mediatore o un faccendiere o un boss mafioso o, più genericamente, un’organizzazione criminale.
Nell’un caso e nell’altro caratteristica fondamentale è la natura non occasionale né isolata degli episodi; tale natura è invece tendenzialmente stabile, con carattere seriale e con il consolidarsi di una serie estesa e ramificata di relazioni informali, e a volte illegali, tra una pluralità di attori che operano in settori diversi. È quella che, scusandomi per l’autocitazione, ho definito una volta la «deprimente quotidianità della corruzione», commentando le immagini di una dirigente di un’azienda a carattere pubblicistico che teneva la borsa aperta sulla scrivania perché gli imprenditori che andavano a parlare delle loro pratiche vi mettessero, senza che lei dicesse una parola, le buste con il denaro.
Del resto la donna in un’altra conversazione intercettata affermava: «Non c’è un imprenditore che possa dire che non ha pagato per avere l’aggiudicazione di una gara». Comportamenti e affermazioni simili emergono dalle altre indagini svolte in varie parti d’Italia. Per brevità cito solo Grandi Eventi, Expo, Mose e Mondo di Mezzo. In quest’ultima indagine, per esempio, è emerso che tutta una serie di esponenti politici a livello comunale erano a «libro paga» per somme assai modeste - anche solo 1000 euro al mese - ma costanti nel tempo. Ma la bustarella messa nella borsetta della dirigente è un caso limite di estrema semplificazione del rapporto.
In quella che abbiamo definito corruzione sistemica o organizzata si moltiplicano gli attori: da un lato per controllare ogni singolo passaggio - politico, burocratico, imprenditoriale - che porta dal finanziamento alla realizzazione dell’opera, dall’altro per la necessità di interporre tra i protagonisti principali altri soggetti che non solo evitano i contatti diretti, ma apportano anche un loro specifico contributo, fatto di relazioni e di know-how delle questioni più complesse che una legislazione e una prassi sempre più confuse e contraddittorie oggi pongono.
È triste, ma credo doveroso, rilevare che in questi schemi si trovano sempre più spesso anche magistrati - amministrativi, contabili e ordinari - anche perché sempre più di frequente questioni importantissime sul piano economico vengono decise in sede giurisdizionale Questo peraltro è un fenomeno che caratterizza oggi tutte le società occidentali. Sempre più spesso accanto alla “banale” corruzione basata sullo scambio immediato tra denaro e atto del pubblico ufficiale, riscontriamo schemi molto più articolati in cui, come scrive Franco Ippolito, «non c’è più la diretta corrispondenza tra corruttore e beneficiario dell’illegalità politico-amministrativa, perché la corruzione non è più connessa a singole attività amministrative, ma programmaticamente utilizzata da gruppi affaristici come strumento di potere». 
Si capisce così, restando sul piano propriamente giuridico, perché non si possa oggi parlare di corruzione senza fare riferimento anche ai reati associativi. E infatti nell’ultimo decennio i delitti di cui agli articoli 416 e 416 bis del codice penale sono stati contestati quasi nel 45 per cento dei casi presi in esame da una ricerca basata sulle sentenze della Corte di Cassazione e relative a casi di corruzione che hanno coinvolto direttamente soggetti detentori di cariche politico-amministrative a livello locale, regionale e nazionale. Il punto di partenza può essere la constatazione del ricorso sempre più frequente da parte delle organizzazioni mafiose ai metodi corruttivi e collusivi piuttosto che alla violenza, fermo restando che mafia e corruzione sono due cose diverse e non necessariamente dove c’è l’una c’è anche l’altra.