venerdì 2 marzo 2018

La Stampa 2.3.18
Rossana Rossanda: “Dal ’68 in poi la Sinistra ha smarrito la bussola”
L’anima storica del Manifesto: “Non ha avuto il coraggio di realizzare sé stessa, ha sottovalutato i giovani ritenendoli troppo frettolosi”
«Ritornerò» «Magari come senatrice a vita?» «Ne sarei onorata. E, lo confesso, mi farebbe comodo economicamente»
intervista di Bruno Quaranta


Una pasionaria, no. Piuttosto, Rossana Rossanda, già dirigente del Partito comunista, già fulcro, dopo la radiazione, dell’«eretico» Manifesto, testimonia da sempre una passione fredda. Si avvicina al secolo, la «ragazza del secolo scorso», un’aristocratica fra politica e cultura, da amiche e compagni accostata alla Nike di Samotracia, il capolavoro del Louvre. Nike perché ha, perché avrebbe, le ali rotte? Perché, fuor di metafora, Questo corpo che mi abita, come si intitola il suo nuovo libro (Bollati Boringhieri, a cura di Lea Melandri) se ne sta andando? In realtà - distingue la Signora - «lui se ne va. Non io». 
Una ragazza del 1924 nel nuovo millennio, una sfida che continua. 
«Nella vita e sulla pagina. La ragazza del secolo scorso, che pubblicai da Einaudi nel 2005, non è la mia autobiografia, ma la biografia del Partito comunista. Ne sto ultimando il seguito. Tempo un mese e scriverò la parola fine».
Un seguito, va da sé, nel segno della politica. Domenica in Italia si vota. Da Parigi che cosa intravede? 
«Una grande confusione. Voterò anch’io. Eserciterò il mio diritto-dovere al Consolato». 
E chi sceglierà? 
«La lista di Grasso, Liberi e Uguali». 
Valentino Parlato, come lei tra i fondatori del Manifesto, alle comunali di Roma votò i 5 Stelle... 
«Non avrebbe dovuto dichiararlo. Ma Valentino prediligeva le acrobazie sul filo del paradosso». 
Che cosa, dell’Italia, la preoccupa maggiormente? 
«Il populismo, i populismi». 
Lei ha combattuto le sue battaglie. Quali le responsabilità della sua parte? 
«La mia parte. La Sinistra che è evaporata. Che si è dissipata. Non ha avuto il coraggio di realizzare sé stessa. Dal ’68 in poi ha smarrito la bussola. Sottovalutando, per esempio, i giovani, nella persuasione che fossero troppo frettolosi e distratti». 
La Sinistra inetta di fronte alle diseguaglianze. Non le pare? 
«Sicuramente. Per abolirle, o arginarle, occorre penalizzare chi ha di più. Non è una scelta facile». 
Rossana Rossanda comunista. Che cosa significa, oggi, non retoricamente, dirsi comunisti? 
«Significa essere leninisti. Mirare, cioè, alla distribuzione reale delle ricchezze e alla istituzione di regole condivise dai lavoratori». 
Il fallimento della Sinistra. E del suo partito per antonomasia, il Pci. Quali le ragioni? 
«Dobbiamo risalire agli anni Venti. Da tutto il potere ai soviet a nessun potere ai soviet. L’apparato, la burocrazia, a prevalere sulla massa dei lavoratori, soffocandola. Da Lenin a Stalin». 
A proposito di anni Venti. Riappare, ri-apparirebbe il fascismo. È un pericolo serio? 
«Ci sono, in Italia, indubbiamente, pulsioni fasciste». 
A suscitare tali pulsioni contribuirebbe non poco il fenomeno immigrazione. Non teme l’islamizzazione dell’ Europa? 
«Niente affatto. È più probabile che gli islamici approdati nel nostro Continente si convertano all’Europa. Il nostro solido pensiero politico è in grado di fungere da attrazione e da antidoto». 
Novantadue anni fa moriva a Parigi Piero Gobetti. Considerava il fascismo «l’autobiografia della nazione». 
«Per me il fascismo è il potere senza regole del padronato. C’è una costante nella nostra storia: non riconoscere i diritti dei lavoratori. La Costituzione, in tal senso, è inattuata». 
Vecchie e nuove povertà. I 5 Stelle le capterebbero, le rappresenterebbero... 
«Il Movimento 5 Stelle non mi interessa, non lo capisco. No, non sarebbe corretto leggervi un’orma fascista, ma affonda nella genericità, nel caos».
L’intellettuale Rossana Rossanda. Perché scelse il Pci e non il Partito d’Azione, il partito degli intellettuali? 
«Necessitava affrontare e sconfiggere il nazismo e il fascismo. Come non affidarsi alla forza maggiore sul piano internazionale?». 
Quale il maggiore politico comunista italiano? 
«Palmiro Togliatti. La sua intuizione: diffondere il Pci, radicarlo, farne un architrave popolare. Il che non era ovvio. In ciò, non era leninista. Il partito di Lenin è in primis colto, intellettuale». 
Togliatti senza macchie? Non peccò di omissione, e grave, su quanto accadeva in Urss? 
«Togliatti ha commesso diversi errori, anche dal punto di vista morale. Come appoggiare la repressione spagnola contro gli anarchici». 
Togliatti. E Gramsci? 
«Già, Gramsci. Quando nel ’47 uscirono i Quaderni si respirò a pieni polmoni, un po’ spazzando via la pesante aria zdanoviana. La modernità di Gramsci: non semplificare, sapere che la realtà è complessa e complicata». 
I comunisti e oltre. Chi ha stimato? Moro, scomparso quarant’anni fa? 
«No, Moro no. Ho la sensazione che fosse molto attento al suo partito e alla Chiesa. Ma non interessato a intraprendere una discussione costruttiva con la Sinistra».
Moro e Berlinguer, il compromesso storico. 
«Uno sbaglio di Berlinguer. E non credo che il compromesso convincesse realmente Moro». 
Ha citato la Chiesa. Secondo molti, il riferimento autentico della Sinistra è Bergoglio. 
«Questo Papa rappresenta il cristianesimo delle origini. Si muove nel solco dell’uguaglianza e della solidarietà». 
Il politico Rossana Rossanda. 
«Sono stata in Parlamento. Ma l’esperienza maiuscola, feconda, l’ho fatta a Milano, in veste di consigliere comunale. Con la percezione di agire in una società trasformabile perché conoscibile. Sperimentando un laboratorio con la sinistra cattolica, da Marcora a Bassetti». 
Parigi. E Roma? Non pensa di farvi ritorno? 
«Ritorno di tanto in tanto. Ritornerò». 
Magari come senatrice a vita? 
«Ne sarei onorata. E, lo confesso, mi farebbe comodo economicamente».

Repubblica 2.3.18
Destini incrociati
Lea Melandri e Rossana Rossanda
Il secolo lungo di Lea e Rossana

Donne novecentesche dal pensiero forte, da sempre impegnate (con modi e stili diversi) nella vita pubblica. Ma ancora adesso Melandri e Rossanda incarnano al meglio la via femminile alla riflessione
di Alberto Asor Rosa


Sono di recente apparsi due libri che pertengono strettamente e profondamente all’universo della cultura e della scrittura femminili.
Sono: Alfabeto d’origine, di Lea Melandri (Neri Pozza) e Questo corpo che mi abita, di Rossana Rossanda (Bollati Boringhieri).
Il fatto che il libro della Rossanda sia a cura della Melandri, la quale vi aggiunge anche una corposa postfazione, è sufficiente a indicare quale sia il rapporto fra le due opere.
Ho spesso contemplato nei decenni passati il femminismo e la cultura femminista come un fiume impetuoso che, nel suo corso rinnovatore, demoliva edifici vecchi di secoli e apriva nuove pianure e orizzonti. Ce n’è stata poi una variante, che io chiamerei dell’“attraversamento”: invece di andare dritta per la sua strada, allargava gli argini intorno a sé e, più o meno direttamente, ne modificava contorni e rapporti. Il maschile, invece di contemplare ammirato e un po’ spaventato, ne veniva chiamato in causa ed era costretto, volente e nolente, a farsene, appunto, “attraversare”, e perciò cambiare dall’interno, non solo, voglio dire, di luce riflessa. È quello che io chiamerei “attraversamento di genere”. Ce ne sono stati, è possibile che ce ne siano, anche di segno opposto?
Allargherei troppo, e troppo rischiosamente, il discorso, preferisco mantenermi all’essenziale.
L’essenziale è che, ammesso che il mio discorso in generale non sia del tutto opinabile, è fuori discussione per me che a percorrere la strada dell’“attraversamento” sia stata, — con altre, certo, ma lei in modo particolare, — Lea Melandri. In che senso?
Quando apparve uno dei suoi libri precedenti, Come nasce il sogno d’amore (1988), commentario interpretativo e giudicativo, ma anche creativo, dell’opera di un archetipo della cultura femminile italiana come Sibilla Aleramo, ne scrissi, recensendolo su queste colonne, che «il libro è una riflessione sul pensiero; ma è anche una riflessione sulla scrittura… al tempo stesso incorpora, invece di lasciarla fuori, l’esperienza del vissuto». E cioè: la scrittura di Lea, — e anche ciò che Lea cerca nelle scritture altrui, — è una scrittura retroflessa; guarda prevalentemente all’interno; ma, ciò facendo, riscopre all’interno ogni forma di vita possibile, compresa quella del corpo, che del pensiero è la scaturigine originaria e fondamentale, anche se spesso tutti, ma in particolare noi maschi, ce lo dimentichiamo.
Di Alfabeto d’origine il sottotitolo: Memoria del corpo e scrittura dell’esperienza,
recita le sue linee fondamentali di ricerca, distinte in un certo senso, e però al tempo stesso strettamente intrecciate fra loro. Attiro l’attenzione in particolare (ma non certo esclusivamente), sulla prima sezione dell’opera: La lingua ritrovata. Sono rimasto colpito dallo scavo che la Melandri compie sulle sue origini proletarie e contadine. Venire da lì ha significato per lei fare i conti costantemente con l’esercizio di conquista e di possesso di una lingua, che, pur facendosi di volta in volta intellettuale, non ha mai dimenticato le sue origini: e che perciò ha con il vissuto un rapporto tangibile ed evidente.
Penso che mettere questa chiave interpretativa alla base del codice saggistico di Lea Melandri significherebbe arrivarne più rapidamente al messaggio: un «salvifico bilinguismo», come lei stessa lo definisce altrove, destinato a mettere in rapporto profondo la lingua intima del passato e del pensiero e «le parole di fuori».
C’è un punto del libro che ci conduce direttamente nell’altra direzione da noi all’inizio preannunciata.
Ricorda Lea: «Rossana (ovviamente Rossanda) scrive di sé di essere stata “invasa” dalla politica. Io, potrei dire di aver precocemente sentito, in modo uguale e contrario, la forza invasiva del mondo interno…». La distinzione non potrebbe essere più chiara e fondamentale. E però… e però Melandri raccoglie in Questo corpo che mi abita sette saggi di Rossana Rossanda apparsi originariamente sulla rivista Lapis (1987-1994), del resto fondata e diretta dalla stessa Melandri. Sono scritti bellissimi. Naturalmente Rossanda non abiura in nessun punto la sua totalitaria scelta politica; ma, al tempo stesso, a guardar bene, disegna un percorso: dal primo saggio, Autodifesa di un io, politico che già nel titolo disegna con chiarezza la sua posizione, all’ultimo, Questo corpo che mi abita (che dà il titolo anche alla raccolta), dove l’incipiente vecchiezza le impone di vedere, nei segni dell’inevitabile degrado, quello che fino a quel momento si era preferito ignorare o accantonare per poter meglio guardare altrove. La «signora del secolo scorso», quando vede le sue «belle mani» farsi vizze e bitorzolute, scopre che c’è qualcosa che non si può addormentare né risvegliare. Il vivente vince sul vissuto.
E, forse?, viceversa. Melandri, nella sua postfazione, Le amicizie, un tranquillo deposito di sé (che del resto è anche essa una citazione rossandiana), commenta: «Non mi sorprende, rileggendola, oggi, deposta la conflittualità di allora, che fosse lei a mettere in evidenza, partendo dalla sua, biografia, quanto il “torbido immaginario trasmesso dalla storia”, l’“oscuramento” e la “proiezione fantasmatica”, venuti a coprire la realtà delle donne, non fossero estranei nemmeno alle storiche femministe». Vuol dire, o mi sbaglio, — che l’“attraversamento” è una pratica che nasce e si sviluppa anche fra due donne, modificando ambedue?

Corriere 2.3.18
La Cattolica e Severino verso la pace Omaggio al filosofo che fu cacciato
Due giorni di convegno a sessant’anni dall’uscita della «Struttura originaria», pilastro del suo pensiero
di Daniela Monti

«Ma caro professore, chi vuole che le capisca queste cose?». Sessant’anni fa, all’uscita per l’editrice La Scuola della Struttura originaria — il terreno su cui tutti gli scritti di Emanuele Severino ricevono il senso che è loro proprio, come scrisse il filosofo nell’introduzione all’edizione Adelphi del 1981 — monsignor Francesco Olgiati, cofondatore dell’Università Cattolica e referente di Agostino Gemelli per le questioni filosofiche, se ne uscì con quella frase detta con aria «complice e sorniona» (lo scrive Severino nell’autobiografia Il mio ricordo degli eterni , Rizzoli), a metà fra la rassicurazione e la presa d’atto dell’estrema complessità, densità e insieme esplosività del testo. Una montagna durissima da scalare confermerà, anni dopo, Angelo Scola: «Mi sono spaccato la testa sulla Struttura originaria . In Cattolica giravamo con il libro in mano, ci trovavamo in 4 o 5 a leggerlo. Un’esperienza che ci ha insegnato a ragionare, ma costata una tremenda fatica».
Il testo-impalcatura del pensiero di Severino e il dialogo con la Chiesa, interrotto con l’allontanamento del filosofo dalla Cattolica nel 1970: sono i due temi centrali del convegno che oggi e domani a Brescia, la città di Severino, porterà settanta relatori a confrontarsi sul percorso speculativo del filosofo — in nuce l’atto di fondazione di una vera «scuola severiniana» — declinando, ciascuno attraverso la maturazione del proprio pensiero, il tema dell’eternità a partire dalla Struttura originaria , vale a dire il testo che tenta di «esprimere nel modo più determinato e concreto — è ancora Severino a parlare — l’inconscio che sta alle spalle della stessa struttura inconscia dell’Occidente».
Per il filosofo sarà la rentrée in quella Cattolica dove si consumò il processo della Chiesa ai suoi scritti. «Severino critica alla radice la concezione della trascendenza di Dio e i capisaldi del cristianesimo come forse finora nessun ateismo ed eresia hanno mai fatto», aveva scritto padre Cornelio Fabro, nel voto che portò all’espulsione del giovane professore. Il rientro «fisico» di Severino in Cattolica — allontanato da Milano, torna da protagonista nell’Aula magna dell’università bresciana, nel confronto con Biagio De Giovanni che chiude la giornata di oggi — appare dunque molto più che il risultato di una scelta logistico-organizzativa: è piuttosto il segno di una distensione, un deporre le armi. «La chiesa cattolica, dobbiamo finalmente dirlo, comincia a testimoniare che il cosiddetto processo che ha subìto Severino non è l’ultima parola sul suo pensiero», dice Ines Testoni, ideatrice del convegno accanto a Vincenzo Milanesi e Giulio Goggi. Già negli Studi di filosofia della prassi , pubblicati nel 1961, la tesi centrale del lavoro di Severino è che, se il contenuto della fede cristiana ha la possibilità di essere il volto concreto della verità — ossia dell’incontrovertibile — proprio per questo ha anche la possibilità di essere la «perdizione più irreparabile» della verità. La fede, e quindi anche la fede cristiana, veniva dunque mostrata come contraddizione. Con gli scritti successivi il fossato si è allargato. Ora la «radicale incompatibilità», sancita nel 1970, sembra mostrare segni di cedimento, aprendo un nuovo possibile orizzonte teoretico. «È diventato evidente che quel processo è storicamente datato», riprende Testoni, che racconta di aver scritto a papa Francesco chiedendo di «togliere gli effetti della condanna».
Molti fra i nomi dei partecipanti al congresso — da Giuseppe Barzaghi a Leonardo Messinese, Michele Lenoci, il prorettore della Cattolica Mario Taccolini e il preside Massimo Marassi — «stanno già dimostrando che è possibile partire dal testo severiano per rileggere il messaggio cristiano», continua Testoni, sottraendolo alla persuasione nichilista, mutuata dalla filosofia greca, che il mondo, in quanto creato, esca dal nulla e vi ritorni e che le cose del mondo sono a loro volta oscillazione fra l’essere e il nulla.
L’Aula magna della Statale (fra le figure chiave del convegno il rettore Maurizio Tira) e Palazzo della Loggia le altre location dei lavori. Per la giovane Associazione di studi Emanuele Severino, «All’alba dell’eternità, i primi sessant’anni della Struttura originaria» è una prova di maturità: l’obiettivo è organizzare ogni anno un convegno internazionale partendo dai testi severiniani (per il 2019 il tema proposto è destino, verità e religione).
Brescia, per la prima volta, si candida a un posto centrale nella discussione filosofica contemporanea. «La città — conclude Testoni — finalmente si è destata, l’impegno della politica, a partire dal sindaco Emilio Del Bono, di dare luce al suo filosofo ora c’è e fa la differenza». Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda interverrà su tecnica e capitalismo. A chiudere sarà il confronto fra Severino e Graham Priest, il grande logico, che ha avviato con il professore un dialogo teoretico su logica e contraddizione.

Repubblica 2.3.18
La macchia che diventò algoritmo
Lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach inventò il test della personalità a inizio ’900
di Marco Belpoliti


Chi era lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach che inventò il test della personalità a inizio ’ 900? Adesso un saggio lo racconta, spiegando perché quel sistema di valutazione della personalità anticipa le ricerche di oggi
Negli anni Sessanta, al momento di scegliere la scuola superiore, i miei genitori mi sottoposero al test di Rorschach. Lo trovai interessante; mi mostrarono le dieci tavole con le macchie e le interpretai. Ebbi il responso: non m’iscrissero all’istituto d’arte come desideravo. Per qualche anno mi sentii, nonostante ciò, un privilegiato, dato che solo un altro compagno, il più bravo, aveva letto le macchie. Non sapevo che vent’anni prima in America venti milioni di persone erano state sottoposte a test standardizzati in ambito educativo, e che uno dei più diffusi era proprio il test delle macchie creato da un medico svizzero, Hermann Rorschach.
Adesso, quasi cinquant’anni dopo, so tutto, o quasi, su di lui e sulla storia del suo procedimento per scandagliare la psiche umana, grazie al libro di Damion Searls, Macchie d’inchiostro (traduzione di B. A. D’Onofrio, Il Saggiatore).
Rorschach era nato nel 1884 a Zurigo, figlio di un pittore, insegnante di disegno. La sua storia è piena di difficoltà economiche per via della morte prematura della madre. La matrigna non era una persona facile. Hermann restò di nuovo orfano, in balia di questa donna dal duro carattere. Tuttavia il giovanotto crebbe equilibrato, persona positiva e ottimista.
Diventato medico, fu psichiatra nei manicomi che la Confederazione aveva istituito tra le montagne. L’epoca in cui crebbe e studiò Hermann è una delle più fertili dal punto di vista della psicologia. Freud pubblicava i suoi libri, e in Svizzera Jung scriveva Tipi psicologici. Era un periodo complesso: medium, apprendisti stregoni, terapeuti di vari indirizzi, psicoanalisti, come ha raccontato Henri F.
Ellenberger in La scoperta dell’inconscio (Bollati Boringhieri). Rorschach era un talentuoso medico che si occupava di schizofrenici, maniaci, depressi e psicotici. Studiava e leggeva di tutto, e sapeva disegnare. Aveva appreso anche il russo e si era innamorato di una donna di quel Paese, dove era stato a lavorare prima della Rivoluzione d’ottobre. Insomma non proprio un provinciale. Non era neppure l’unico che cercava un metodo visivo per capire chi erano i suoi pazienti. Già in diversi avevano trafficato con macchie. Persino Jung ci aveva provato. La cosa non nasceva dal nulla. Ernst Haeckel, biologo, filosofo e artista, aveva pubblicato un meraviglioso libro
Kunstformen der Natur, fondato sulla simmetria, ancora oggi ristampato per le immagini che contiene. Se poi si aggiunge che il talento disegnativo di Hermann si esprimeva in vari modi, si può capire come siano nate le macchie del suo test. In realtà non è però così immediato; neppure il libro di Searls lo spiega del tutto. C’è un mistero. Com’è possibile che le persone, guardando e descrivendo che cosa vedono dentro le macchie, possano rivelare aspetti reconditi della personalità? La chiave sta nel rapporto tra vedere e sentire.
Searls racconta come si era arrivati a trovare una relazione tra la proiezione del sé e l’interiorizzazione del mondo, e come il metodo scelto dallo psichiatra svizzero avesse a che fare con l’empatia, che in origine significa “sentire dentro” e riguarda il sé, non il rapporto con gli altri. Era quella l’epoca in cui venivano inventati i raggi X e l’inconscio, che nessuno ha mai visto, ma che esiste e ci influenza.
Guardando le tavole con le macchie, per lungo tempo non divulgate se non nel setting del test, viene spontaneo chiedersi: è arte o scienza? Rorschach muore improvvisamente a trentasette anni per un’appendicite perforante non diagnosticata dalla moglie medico né dai colleghi. Aveva appena pubblicato il libro Psicodiagnosi (1921) in 1200 copie, dove spiegava il test, ricevendo una cifra irrisoria. Tuttavia il test non si è estinto con lui, anzi ha prosperato. La storia di come sia approdato in America e sia diventato per almeno quarant’anni il più diffuso metodo diagnostico di ragazzi, militari, donne, malati di mente e criminali, è affascinante; Searls gli dedica metà del volume. La “psicologia che vede” alla fine ha trionfato in un mondo ansioso di valutare, non più il carattere delle persone, bensì la personalità.
Perché questo è interessante: capire come dagli anni Trenta del XX secolo in America abbia trionfato l’idea di mettere a nudo le singole personalità. Diciassette anni dopo la morte del suo inventore, le macchie «furono ripensate sia in psicologia come nella cultura in generale come il metodo proiettivo per eccellenza e il nuovo paradigma della moderna personalità». Nacque allora una narrazione simbolica per cui il mondo è un luogo buio e caotico e non ha altro significato al di là di quello che noi gli diamo.
Domanda: ma io percepisco oppure creo la forma delle cose?, si chiede Searls. Rorschach presupponeva che esistesse un sé creativo, folle o normale non importa, che forgia il mondo così come lo vede. Sarà lo psichiatra o psicologo a decifrare quel mondo.
La personalità esiste ed è valutabile. Oggi sembra che le dieci tavole delle macchie siano meno usate. Certo è che furono mostrate in molte occasioni; ad esempio ai criminali nazisti processati a Norimberga. Göring era uno di loro. Il test lo valutò. Per gli psicologi americani che lo usarono il test di Rorschach stava allo psicologo clinico come lo stetoscopio al dottore. Ma come può funzionare un metodo che serve a comprendere la personalità creativa di un ragazzino e valutare una classe dirigente che ha sterminato milioni di persone? La risposta sta probabilmente nella intuizione di Rorschach: i risultati del test non sono parole, bensì modi di vedere. Il medico svizzero non ebbe modo di perfezionare il proprio metodo, morì troppo presto. Tuttavia possiamo ben dire che con le sue macchie ha anticipato gli algoritmi di oggi e il mondo che ora abitiamo: tutto è immagine.
Tutto è un modo di vedere, malattia mentale o normalità che sia.

il manifesto 2.3.18
Michelle Perrot, quando la storia è sessuata
Un’intervista con la militante, attivista e intellettuale francese. Cruciale la sua «Storia delle donne in Occidente», insieme a Georges Duby per Laterza nel 1990
di Francesca Maffioli


Nel 1973 Michelle Perrot, insieme a Pauline Schmidt e Fabienne Bock intitolano il loro primo corso all’Università Paris-Diderot: Les femmes ont-elles une histoire? (Le donne hanno una storia?). Tale interrogativo, provocatorio, rappresentava il mezzo per affermare l’esistenza di un campo di conoscenza e di studio pressoché sconosciuto. La seconda generazione della scuola storiografica delle Annales aveva rinnovato le prospettive d’osservazione e d’analisi della storia, comprendendo la storia economica, quella sociale e la considerazione delle categorie oppresse, tra le quali spiccavano le donne. Tuttavia, nei primi anni Sessanta la storia insegnata anche in ambito universitario restava una disciplina tendenzialmente asessuata.
L’INTERROGATIVO delle giovani studiose aveva messo a fuoco la questione dell’invisibilità delle donne nella storia e aveva condotto a domande sui tempi, i luoghi e le modalità dell’oppressione e della dominazione maschile. La storia di questa dominazione aveva cominciato a mettere in risalto la place degli uomini attraverso i secoli, guardando al loro ruolo in quanto soggetti non universali né neutri, ma maschili. In tal senso era stato necessario esaminare e riflettere sul confronto e lo studio della differenza tra i sessi, al fine di consentire una visione più ampia, rinnovata, diremmo più completa, della storia.
Negli anni Novanta la pubblicazione dei cinque volumi della Storia delle donne in Occidente, opera curata dalla stessa Michelle Perrot e da Georges Duby, costituisce uno spartiacque di riconoscenza della legittimità di una storia delle donne. È da ricordare che tale pubblicazione venne proposta e sostenuta dall’editrice italiana Laterza, solo a seguito della quale l’opera venne editata anche in Francia. La riflessione epistemologica attorno alla storia delle donne resta ancora valida, sebbene da una storia in cui le donne sono le protagoniste assenti si è passati a una storia sessuata del mondo intero. Ne chiediamo conto proprio a Michelle Perrot, oggi professoressa emerita all’Università Paris-Diderot, autrice di numerosi testi sulla storia delle donne, tra i quali Mon histoire des femmes (Seuil, 2006) e direttrice, con Georges Duby, del già citato Histoire des femmes en Occident, (Plon, 1991-1992).
La sua opera sulla storia delle donne in occidente ha conosciuto un grande successo. Si tratta di un frutto monumentale – sulla storia della rappresentazione delle donne e sulla storia dei rapporti tra i sessi attraverso i secoli. Quale il legame, quale la connessione, nella storiografia femminile, tra la storia della vita privata e quella pubblica?
È doveroso riconoscere la lungimiranza della casa editrice italiana Laterza, la quale chiese a Georges Duby, ed egli a me, di scrivere una storia delle donne. In realtà l’equipe che lavorò all’opera si era formata molto prima, circa 10 anni, e le nostre riflessioni erano già arrivate a un certo livello di maturazione. Per me e l’equipe (una settantina di persone) fu prioritario che il titolo portasse il sostantivo «donne» al plurale, per rappresentare un panorama tanto composito.
Bisogna tener conto che Duby codiresse precedentemente un’opera a più volumi che trattava della «storia della vita privata», dall’impero romano fino ai giorni nostri; questo aspetto dimorava ampiamente nella sua prospettiva di ricerca. Certo, quando si pensa alla storiografia femminile l’aspetto «del privato» non può essere trascurato, in ordine al legame intrinseco, secolare, tra donne-famiglia-casa; tuttavia a me interessava descrivere in che modo il legame tra le donne e la dimensione pubblica poteva costituirsi come dispositivo per rendere visibili le donne e la loro parola alla luce di una «storia pubblica» che le ignorava. Significava andare oltre la questione privata dei legami e delle strutture della parentela ad esempio, significava distaccarsi da Lévi-Strauss. Per me si trattava anche di una sorta di evoluzione rispetto al debutto dei miei studi: sono stata allieva di Ernest Labrousse, storico e militante anarchico, poi socialista e con lui mi ero specializzata sulla questione degli scioperi in seno al movimento operaio. Non senza stupore da parte del mio maestro sono passata a occuparmi della storia delle donne. Nonostante le polemiche a tal proposito, in particolare mi riferisco a quelle che hanno visto il femminismo degli anni Sessanta «traditore» delle istanze della lotta operaia, sono convinta che le due prospettive non siano da considerarsi in opposizione o inconciliabili. Anzi il contrario.
Fare la storia delle rappresentazioni e dei discorsi maschili riguardo le donne può rischiare di farci dimenticare le donne in quanto soggetto?
Non posso negare che il rischio sia presente, anche in misura piuttosto decisiva. In effetti la storia delle rappresentazioni e dei discorsi maschili mette in luce una prospettiva parziale e circoscritta. Tuttavia possiamo analizzare lo stesso attraverso la differenza dei sessi, possiamo cercare di interrogarlo, di decostruirlo. Faccio un esempio: invece di studiare il tema della «bellezza femminile» attraverso i secoli, secondo la prospettiva dello sguardo maschile, si può farlo chiedendosi come le donne hanno reagito a tale sguardo e qual è il loro. Si tratta di essere in grado di capovolgere delle prospettive attraverso la consapevolezza della loro parzialità.
Credo che il recente movimento del #me too possa a tutti gli effetti rappresentare un esempio del capovolgimento di prospettiva e una rideterminazione del ruolo delle donne, a fronte dell’invisibilizzazione e del silenziamenento forzato. Non esito a ribadire che protestare contro le violenze, le più subdole, vuol dire rideterminare il proprio ruolo e reimpossessarsi della propria voce e del proprio corpo in quanto soggetti.
Da quale momento, nella storia delle donne in occidente, possiamo cominciare a parlare di «svolte storiche» per i rapporti tra i sessi? E a partire da quale momento si comincia a percepire il mondo e la storia come sessuate?
Questo interrogativo mi consente di dichiarare a piena voce che il mio punto di vista riguardo a queste svolte storiche coincide con quello di Michel Foucault esposto nella sua Histoire de la Sexualité (1976-1984). Credo infatti che una grande svolta sia stata quella che ha coinciso con la maturazione del pensiero sulla sessualità sviluppato nei testi dell’antichità cristiana; non il pensiero sessuato greco-romano ma soprattutto quello dei padri della Chiesa, in particolare S. Agostino. L’incisività di quest’ultimo limitatamente alla peccaminosità dell’atto sessuale o all’imposizione del velo definiscono la sua auctoritas sul pensiero del rapporto tra i sessi. Tengo a sottolineare quest’ultimo aspetto, per ribadire «il primato» della patristica a fronte delle polemiche che da anni si susseguono a tal proposito. Anche il XVII secolo, di prospettive sorprendentemente egualitarie, rappresenta una svolta storica: penso a François Poullain de La Barre e a Marie de Gournay – in che misura il loro razionalismo ha prodotto delle svolte di pensiero sull’eguaglianza dei sessi. Bisogna sottolineare che si può assistere anche a regressi in tal senso: un esempio è stato il secolo successivo, il XVIII, che ha rimesso in discussione quanto sembrava acquisito, con un ritorno al biologismo più basilare e alla «re-naturalizzazione».
Che ne pensa della tendenza a concepire una storia delle donne attorno alle grandi figure, secondo «un sostenersi» alle singolarità, alle biografie di donne più o meno celebri? Mi riferisco in tal senso alla recentissima traduzione francese di «Storie della buonanotte per bambine ribelli» (Mondadori), ma anche a «Ni vues ni connues» (Hugo doc-Les Simone) del collettivo Georgette Sand…
È un modo come un altro di scrivere la storia delle donne. Tuttavia io trovo che facilmente possa incorrere nel rischio di integrarsi a una tradizione decisamente datata. Mi riferisco a quel biografismo che si attiene a fatti curiosi: penso al biografismo «delle regine, delle sante e delle cortigiane». In questo senso si rischia di perdere la ricchezza della complessità e la storia delle donne rischia di diventare aneddotica.
Cosa ci resterebbe della «Nouvelle Histoire» e della scuola delle «Annales»?
Credo che tale formula possa funzionare solo nella misura in cui l’orizzonte di osservazione delle storiche e degli storici sia aperto. Intendo dire che lo studio delle biografie e degli avvenimenti rivela certi limiti; penso che invece di soffermarsi su individui o eventi eccezionali sarebbe auspicabile studiare le «strutture» e recuperare nuovi soggetti storici, più ribelli e dimenticati.
Non voglio essere troppo severa, anche a me è capitato di redigere capitoli o testi in cui un certo biografismo predominava, tuttavia l’ho sempre fatto col beneficio degli apporti delle scienze umane, che considero espedienti irrinunciabili. La storia dovrebbe avere priorità collettive e problematizzare lo studio sulle differenze tra i sessi, come fanno ad esempio gli studi femminili e di genere.

DAL MOVIMENTO OPERAIO AL FEMMINISMO
Storica e militante femminista, MIchelle Perrot nasce nel 1928 a Parigi. Nel 1947 comincia i suoi studi alla Sorbona; la sua tesi, diretta da Ernest Labrousse, tratta il tema degli scioperi operai. Fin dalla pubblicazione de «Il Secondo sesso» di Simone de Beauvoir desidera avvicinarsi alle scritture delle donne, fino a creare (nel 1974) insieme a Françoise Basch il Ged (Gruppo di studi femministi), sui temi dell’aborto, della violenza sessuale, del lavoro domestico, dell’omosessualità. Professoressa emerita di storia contemporanea all’università Paris VII – Denis Diderot, ha contribuito in maniera decisiva alla nascita degli studi sulle donne e sul genere ed è stata insignita nel 2014 del Prix Simone-de-Beauvoir per la libertà delle donne. Tra le sue opere tradotte in italiano figurano i cinque volumi della «Storia delle donne in occidente» (Laterza), «Immagini delle donne» (Laterza e «Storia delle camere» (Sellerio).

Il Fatto 2.3.18
Le “suore pizza” sfruttate in Vaticano
L’Osservatore Romano - La vita amara delle “serve” di vescovi e cardinali
Suore sfruttate. E adesso ribelli, forse. Novelle Spartacus della Chiesa di Bergoglio.
di Fabrizio d’Esposito


La donna sia sottomessa all’uomo, prescriveva l’apostolo Paolo, che un po’ misogino lo era. Figuriamoci le suore, dunque.
Solo che nessuno immaginava che potessero essere sfruttate come schiave.
E nessuno immaginava, soprattutto, che la drammatica questione potesse essere sollevata addirittura dal quotidiano più autorevole della Santa Sede: L’Osservatore Romano.
Sono i miracoli della rivoluzione francescana di Jorge Mario Bergoglio.
Sull’ultimo numero del mensile Donne chiesa mondo pubblicato dal giornale vaticano alla vigilia della festa della donne c’è infatti la storia di alcune religiose consacrate al servizio di cardinali e vescovi: suore in piedi dall’alba fino a sera tardi per preparare colazione e cena, stirare, lavare, tenere in ordine la casa. Suore umiliate perché costrette a consumare il loro pasto da sole in cucina. Suore frustrate e sottopagate, cui la fede non basta più e devono ricorrere agli ansiolitici. Il loro nomignolo è questo “Suore pizza”.
Il servizio del mensile dell’Or s’intitola “Il lavoro (quasi) gratuito delle suore” ed è firmato da Marie-Lucile Kubacki. I nomi nell’articolo sono tutti di fantasia, per coprire le vere identità e impedire probabili ritorsioni o vendette dei maschi consacrati. Tutto inizia con Suor Marie: “È giunta a Roma dall’Africa nera una ventina di anni fa. Da allora accoglie religiose provenienti da tutto il mondo e da qualche tempo ha deciso di testimoniare ciò che vede e che ascolta sotto il sigillo della confidenza”. Rivela Suor Marie: “Ricevo spesso suore in situazione di servizio domestico decisamente poco riconosciuto. (…) Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata”.
Sono donne che arrivano spesso da Paesi poveri. Dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. E non possono contare neanche sulla solidarietà delle loro famiglie. Per la serie: “Di che cosa ti lamenti? Non fare la capricciosa”. Le suore lavapiatti sono anche teologhe intellettuali che a Roma non trovano che una collocazione da collaboratrici domestiche, senza orario e con pochi euro di guadagno. Col prete maschio non si può condividere nulla, compresa la mensa, simbolo centrale del Vangelo. Conclude Suor Marie: “Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata?”.

Repubblica 2.3.18
Maschilismo in Vaticano
“Suore trattate come serve da vescovi e cardinali”
Lavano, stirano e cucinano dall’alba alla sera, senza diritti e sottopagate La denuncia sull’Osservatore Romano: “Su di loro un abuso di potere”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Suore trattate come serve di cardinali e vescovi. La denuncia è dell’inserto mensile Donne chiesa mondo de L’Osservatore Romano che fa parlare, «sotto il sigillo della confidenza», religiose «frustrate» dalla vita che conducono. Nel giorno in cui Francesco si dice «preoccupato per il persistere di una mentalità maschilista» della Chiesa, il magazine diretto da Lucetta Scaraffia scrive che nelle case di presuli e prelati diverse religiose svolgono «un servizio domestico decisamente poco riconosciuto».
«Si alzano all’alba per preparare la colazione», vanno a dormire «a cena servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata», lavorando «senza un orario regolamentato», con una «retribuzione aleatoria, spesso molto modesta». «Non lavorano a contratto», si ritiene siano lì «per sempre, che non vanno stipulate condizioni». Mentre, «raramente sono invitate a sedere alla tavola che servono».
Da tempo si levano voci che denunciano il maschilismo delle gerarchie. «La Chiesa, che predica l’eguaglianza, è ancora uno degli ultimi baluardi della discriminazione sessuale», ha detto suor Joan Chittister, columnist dell’Huffington Post.
«Una maggiore presenza femminile non subordinata avrebbe potuto squarciare il velo di omertà maschile che spesso in passato ha coperto con il silenzio la denuncia dei misfatti», scrisse fra l’altro la stessa Scaraffia in merito alla pedofilia del clero.
Mentre è stata Anuradha Seth, consigliera economica del Programma di sviluppo delle Nazioni unite, a parlare del «più grande furto della storia». Quale?
La discriminazione salariale che colpisce in generale le donne. Per il mensile vaticano le sue parole descrivono bene anche quanto accade nella Chiesa, una situazione che muove da radici profonde: «Tante religiose hanno la sensazione che si faccia molto per rivalorizzare le vocazioni maschili, ma molto poco per fare lo stesso con quelle femminili».
Suor Marie parla sotto anonimato. È arrivata a Roma venti anni fa dall’Africa. Spiega che le suore hanno spesso «paura» a parlare perché dietro hanno sovente «storie molto complesse». Ci sono a volte «una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia, un fratello maggiore che ha potuto compiere gli studi in Europa grazie alla superiora». In sostanza, le religiose «si sentono in debito, legate, e allora tacciono». Alcune «assumono ansiolitici per sopportare questa situazione di frustrazione».
Certo, la colpa non è solo di cardinali e vescovi. A volte sono le stesse superiore che si piegano a questa logica. Continua suor Marie: «Ne ho parlato con un rettore universitario colpito dalle capacità intellettuali di una suora che aveva una licenza in teologia.
Voleva che continuasse gli studi, ma la superiora si è opposta perché, disse, le suore non devono diventare orgogliose».
«Il clericalismo uccide la Chiesa», commenta suor Paule, religiosa con incarichi importanti. Che avanza la denuncia più incredibile: «Ho conosciuto delle suore che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e che, quando erano malate, nessun prete di quelli che servivano andava a trovare.
Dall’oggi al domani venivano mandate via senza una parola».
Ciò conferma che le religiose sono viste come «volontarie di cui si può disporre a piacere», in favore di «veri e propri abusi di potere».
Per un rinnovamento reale, come scrivono in Le donne e la riforma della Chiesa Cettina Militello e Serena Noceti (Edb), le donne sono motore indispensabile. Eppure, il maschilismo è ancora presente.
Anche illustri esegeti si sono cimentati in un’interpretazione maschilista dei testi biblici. Tanti gli esempi, fra questi una certa esegesi della Lettera ai Romani dove Paolo parla di «Andronìco e Giunia», «apostoli insigni». Da più parti Giunia è stato tradotto come Giunio, per depotenziare l’idea che una donna fosse apostolo di Cristo. Un buon esempio, scrive ancora L’Osservatore, «di come le donne con autorità siano state rese invisibili».

Corriere 2.3.18
Il Papa: «Basta maschilismo nella Chiesa»


«Mi preoccupa il persistere di una certa mentalità maschilista», anche nella Chiesa. Così scrive il pontefice nel prologo del libro «Dieci cose che papa Francesco propone alle donne» (Publicaciones Claretianas) della professoressa María Teresa Compte che sarà presentato il 7 marzo a Madrid. «Mi preoccupa il persistere di una certa mentalità maschilista, perfino nelle società più avanzate (...) Mi preoccupa anche che, nella Chiesa, il ruolo di servizio (...) nel caso delle donne scivoli a volte verso ruoli più di servitù». Il Papa auspica «una rinnovata ricerca antropologica (...) per andare più a fondo non solo dell’identità femminile, ma anche di quella maschile».

Il Fatto 2.3.18
Stragi naziste: i 7 condannati rimasti sempre impuniti e liberi


Condannati per alcune delle più gravi stragi di guerra compiute in Italia, eppure quasi mai finiti in carcere. É la denuncia della magistratura militare, che ieri ha inaugurato l’anno giudiziario evidenziando come quasi nessuno dei criminali di guerra nazisti abbia scontato la pena cui la giustizia italiana li ha condannati. Sono sette, ormai tutti ultranovantenni, gli ergastolani ancora a piede libero. Per loro le autorità tedesche non hanno concesso l’estradizione o hanno negato la possibilità di esecuzione della pena in Germania. Ma se per ragioni anagrafiche sarà difficile vedere eseguite queste condanne, è ancora possibile per gli eredi delle vittime delle stragi ottenere giustizia attraverso un risarcimento in sede civile, e su questo ha posto l’attenzione la magistratura militare nell’appuntamento di ieri.
“In varie occasioni lo Stato italiano si è costituito in giudizio non per sostenere, ma per opporsi alle legittime istanze risarcitorie dei cittadini”, ha commentato Antonio Sabino, procuratore generale militare presso la Corte militare d’Appello. “Una decisione dettata da ragioni politico-istituzionali – ha aggiunto Sabino – dalla quale mi sento di dissentire. Ritengo che la memoria delle vittime della barbarie nazista vada onorata, anche attraverso il riconoscimento dei diritti degli eredi”.
Tra i criminali di guerra nazisti per i quali l’Italia ancora attende giustizia, dopo oltre settant’anni, ci sono ex militari coinvolti nelle stragi di Monchio, Vallucciole, Monte Morello, San Terenzo, Vinca e Sant’Anna di Stazzema, oltre che nell’eccidio di Marzabotto.
Stragi in cui vennero trucidate migliaia di persone – in gran parte donne, anziani e bambini – a cavallo tra la fine del 1943 e l’aprile del ‘45.

Corriere 2.3.18
La strage di Latina
«Sto male» Ma il carabiniere non fu sospeso e fu giudicato idoneo
Fu lo stesso Luigi Capasso, a fine novembre, ad ammettere di essere in cura. «Sto male», spiegò ai superiori. Ma questo non fece scattare allarmi. Nessuno lo sospese dal servizio
Ma rimase in servizio armato di pistola
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Nella ricostruzione degli ultimi mesi di vita di Luigi Capasso, c’è un episodio che più di altri fa comprendere quanto lunga sia stata la catena degli errori e delle sottovalutazioni sulle sue condizioni. Quanto gravi siano state le omissioni. Perché a fine novembre fu proprio il carabiniere in servizio a Velletri a svelare la crisi familiare ammettendo di essere in cura presso uno psicologo.
«Sto male», spiegò ai superiori. Ma questo non fece scattare alcun allarme reale, anzi. Dopo avergli concesso otto giorni di riposo, la commissione del Comando generale lo sottopose alla visita che lo giudicò «idoneo al servizio» e non dispose alcun controllo successivo sul suo stato di salute.
Nessuno ritenne opportuna una sospensione dal servizio che avrebbe comportato il ritiro della pistola di ordinanza.
L’indagine interna
L’indagine interna disposta dall’Arma e i fascicoli aperti dai magistrati penali e militari accerteranno eventuali omissioni. Ma al di là delle responsabilità penali e di quelle amministrative, rimane lo sconcerto per una tragedia cominciata molti mesi fa — con l’esposto presentato da Antonietta Gargiulo il 7 settembre scorso — che nessuno ha voluto vedere. Anche se proprio lei era andata per ben due volte nella caserma dove il marito lavorava per chiedere aiuto ai colleghi.
È vero che la donna non aveva presentato formale denuncia o chiesto un provvedimento interdittivo giustificandosi con il timore di far «perdere a mio marito il posto di lavoro». Ma è pur vero che molte altre misure potevano essere messe in atto per proteggere lei e le bambine.
L’alloggio di servizio
Si torna dunque all’autunno, circa due mesi dopo la scelta della donna di presentarsi alla questura di Latina per raccontare di essere stata strattonata dal marito. Le liti sono continue, lei rifiuta di farlo entrare a casa. E così lui decide di chiedere un alloggio di servizio. È una richiesta strana per chi ha una casa di proprietà, deve fornire giustificazioni. E decide di raccontare che cosa sta accadendo: «Mi sto separando da mia moglie e sto molto male. Sono seguito da uno psicologo perché sto vivendo un periodo molto difficile. Ho bisogno di una casa dove stare».
Gli ufficiali capiscono che qualcosa non va e decidono di disporre una visita psicoattitudinale. Capasso si sottopone al controllo e gli viene prescritta una settimana di ferie. Al termine della pausa dal lavoro, c’è un nuovo controllo. Ma evidentemente la commissione non ritiene che quell’ammissione di malessere, né la scelta di affidarsi a uno psicologo sia sufficiente per prendere ulteriori provvedimenti. Capasso torna in servizio senza alcun ulteriore obbligo. Nonostante la dolorosa situazione che sta vivendo, non vengono disposte nuove visite e soprattutto non viene valutata la possibilità di privarlo della pistola. Eppure il fatto che fosse un tipo aggressivo era noto, così come i suoi precedenti per truffa alle assicurazioni per i quali era stato sospeso dal servizio.
Il centro antiviolenza
Possibile che nessuno abbia approfondito i rapporti con la moglie? Eppure Antonietta Gargiulo si era confidata con un maresciallo che lavorava nella stessa caserma di Capasso. Per due volte lo aveva incontrato. In quel periodo le figlie erano già seguite dagli assistenti sociali perché erano spaventate dagli scatti d’ira del padre e la stessa Antonietta aveva deciso di chiedere un sostegno. Non solo. Proprio per avere le giuste indicazioni su come comportarsi si era rivolta al centro antiviolenza che si trova a Cisterna di Latina, dove viveva.
Il 26 gennaio, quando viene convocata dagli agenti del commissariato del suo paese perché il marito ha presentato un esposto nei suoi confronti, viene accompagnata proprio da una volontaria del Centro. «Dovete tenere mio marito lontano da me e dalle mie figlie», chiede ai poliziotti. Non lo ha fatto nessuno e adesso Antonietta dovrà sopportare il dolore più grande per una madre: sopravvivere alle sue figlie ammazzate dal padre.

La Stampa 2.3.18
Strage di Latina, il carabiniere fu sottoposto a visita medica e dichiarato idoneo
L’arma, dopo aver saputo della crisi coniugale che stava attraversando, gli aveva offerto immediatamente un sostegno psicologico per superare il momento, ma lui rifiutò
di Edoardo Izzo

qui

Repubblica 2.3.18
Il carabiniere killer fu visitato due volte: idoneo
Dagli allarmi ignorati ai colloqui con gli psicologi
Minniti: sottovalutazioni inaccettabili
di Federica Angeli


Cisterna di Latina Se l’alba di terrore a Cisterna di Latina poteva essere evitata e se qualcuno ha sbagliato gli inquirenti vogliono scoprirlo. « Ci sono state troppe sottovalutazioni sulla vicenda. È inaccettabile» dice il ministro dell’Interno Marco Minniti, della parabola di Luigi Capasso, il carabiniere che mercoledì con la pistola d’ordinanza ha prima tentato di uccidere la moglie, Antonietta Gargiulo, poi ha ammazzato le due figlie, Martina e Alessia, di 7 e 13 anni, e alla fine si è tolto la vita, dopo aver passato 8 ore barricato in casa facendo credere ai colleghi che le bambine fossero ancora vive e nelle sue mani.
Tre morti e una donna in prognosi riservata sono tanti per non chiedersi cosa poteva essere fatto. La catena delle possibili disattenzioni è lunga e gli anelli sono tanti: i carabinieri, la polizia di Stato, la Asl e il Comune. Per questo le inchieste aperte, da ieri, sono tre: la prima della procura di Latina, la seconda della procura militare di Roma e la terza dell’Arma. Capasso aveva già dato tanti segnali di squilibrio, prima di presentarsi sotto casa e fare fuoco, e gli elementi per cambiare il corso di una strage annunciata c’erano tutti. Le botte alla moglie davanti alle bambine, sotto gli occhi dei colleghi della Findus, dove la donna lavora, gli esposti, l’ossessione di messaggi d’amore alternati alle minacce.
Primo campanello: gli esposti presentati alla polizia, due in cinque mesi. Gli investigatori avevano sentito sia Luigi che Antonietta, ma era finita lì. Quei verbali non sono stati mai trasmessi all’Arma. « Non abbiamo mai avuto una denuncia su un fatto circostanziato né un referto medico. Nulla per poter intervenire. Fino a mercoledì, semplici dissapori interni a una coppia che si sta separando » , assicura il capo di gabinetto della questura di Latina, Manuela Iaione. Primo interrogativo: un esposto anziché una querela può davvero legare le mani a chi, per mestiere, deve proteggere i cittadini? La risposta pare essere sì.
C’è però un secondo tassello importante per arrivare al cuore della vicenda. Capasso è stato lasciato in servizio, e armato, dopo le visite di ben due psicologi. La prima nell’ambito dei controlli cui lo aveva fatto sottoporre il comandante di Velletri, dove prestava servizio, dopo che l’uomo a settembre aveva chiesto un alloggio di servizio perché si stava separando e aveva lasciato la casa coniugale. A quel punto, Capasso aveva già picchiato la moglie davanti a testimoni. E Antonietta aveva già espresso i suoi timori al comandante del marito. È in questo contesto che l’appuntato viene “ mandato a visita” ma, fatta eccezione per 8 giorni di riposo consigliato, il 30 gennaio viene ritenuto « idoneo al servizio » . Appena 28 giorni prima del delitto torna a indossare pistola e divisa. Riferisce persino di non volere sostegno psicologico, essendo già seguito da un professionista di sua fiducia.
L’altra visita cui il carabiniere si sottopone è alla Asl di Latina, per verificare se può recuperare un rapporto con le figlie, come chiesto dalla moglie, in ottobre, ai servizi sociali del Comune di Cisterna. Risulta « idoneo » anche stavolta. Nessuno sembra rilevare zone d’ombre in lui. Il 43enne ha saputo mentire anche agli esperti o la questione è stata presa sottogamba? Per capirlo la procura di Latina, affidandosi agli stessi carabinieri, sta verificando l’operato dell’Arma, della polizia, dei medici e degli altri enti coinvolti.
I carabinieri, che hanno già trasmesso un primo rapporto alla magistratura, indagano anche autonomamente: « L’indagine interna è già aperta » , assicura il colonnello Pietro Dimiccoli del comando provinciale di Latina. Indagine che, fa sapere il comando generale dell’Arma, «porterà a una completa conoscenza della vicenda e ad adottare i provvedimenti necessari». Accertamenti li ha avviati pure la Procura militare: il fascicolo è aperto per « distrazione di oggetti da armamento militare aggravata » . In sostanza, per il codice militare si procede per comprendere se Capasso potesse effettivamente girare con l’arma. E gli investigatori hanno chiesto di acquisire anche il carteggio sulla sospensione che per tre mesi, nel 2015, lo allontanò dal servizio a causa di un procedimento per truffa alle assicurazioni.
In questa spasmodica ricerca della verità, Antonietta è stata operata ed è ricoverata in gravissime condizioni. Oggi a Napoli il funerale di Capasso, la data per quello delle figlie deve essere ancora decisa. Stabilire le responsabilità che hanno porta

Repubblica 2.3.18
Le forze dell’ordine
È allarme femminicidi tra gli uomini con la divisa “ Servono controlli regolari”
I check- up sono previsti solo per comportamenti anomali. I funzionari di polizia: “Segnalateci i colleghi in difficoltà”
di Alessandra Ziniti


Roma «In questo momento non sono sereno, è meglio che mi togliate la pistola » . Qualcuno lo fa. Volontariamente, responsabilmente, si presenta davanti ai medici e chiede di non correre il rischio di fare un gesto estremo. Ma quando, come è successo mercoledì a Cisterna di Latina, e prima a Genova, a Benevento, a Cosenza, a Caserta, a Padova, a sparare dentro le mura di casa è un’arma d’ordinanza, inevitabilmente si riaccendono i riflettori sull’efficienza delle verifiche delle condizioni psicologiche di chi indossa una divisa. Verifiche che, passato il test psicoattitudinale del concorso, non sono previste mai durante la carriera ma che, esattamente come è accaduto per Luigi Capasso, partono solo su segnalazione di un “ comportamento anomalo” e, nella maggioranza dei casi finiscono con un periodo di riposo e null’altro. Perché ritirare la pistola a un poliziotto, un carabiniere, un finanziere è un atto che come è ovvio ne ipoteca pesantemente la carriera e viene adottato in presenza di uno stato patologico conclamato.
Tuttavia il problema esiste. Perché il numero di uomini delle forze dell’ordine che puntano l’arma contro le mogli, e a volte i figli, spesso finendo col togliersi la vita, non è affatto trascurabile. Anche se il dato assoluto può sembrare poco significativo (siamo nell’ordine della decina di casi all’anno), è la percentuale che va presa in considerazione.
In Italia gli uomini in divisa e che hanno una pistola in dotazione sono circa 450mila, meno del 2,5% della popolazione maschile: ma l’anno scorso hanno commesso l’8,5% dei femminicidi, 10 su 117. E questo dato va letto alla luce di un altro: solo il 12,8 per cento dei femminicidi viene commesso con una pistola. Dunque, tre su quattro degli uomini che uccidono una donna con un’arma da sparo sono appartenenti alle forze dell’ordine o guardie giurate.
È un dato che allarma soprattutto a fronte della mancanza di verifiche a cadenza regolare. I controlli, va detto subito, esistono e, come conferma il caso di Cisterna di Latina, la spia si accende. Funziona così: i responsabili di ogni ufficio — spiegano dal Viminale — hanno l’obbligo di segnalare qualsiasi situazione atipica che coinvolga un sottoposto. Il quale viene immediatamente avviato a una visita di controllo davanti ad una commissione composta da medici e psicologi che, se necessario, dispone terapie, periodi di riposo o provvedimenti più seri. Insomma: l’attività di monitoraggio esiste, ogni forza di polizia ha il suo nucleo di psicologi e le sue strutture. Quello che manca sono controlli di routine per tutti a scadenza regolare durante gli anni di carriera, anche in considerazione dell’attività che può essere fonte di particolare stress.
Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell’Associazione funzionari di polizia, che già anni fa ha sollecitato l’istituzione di questo genere di controlli, dice: «Dobbiamo subito dire che la sorveglianza sui comportamenti anomali c’è, ultimamente anche più stringente rispetto a venti, trent’anni fa. Posso assicurare che i controlli avvengono con una certa frequenza e anche nei confronti di alti funzionari. Però è anche vero che dissimulare le reali condizioni psicologiche davanti ai medici non è impossibile, e quindi adottare le valutazioni adeguate non è semplice».
Il controllo standard prevede un colloquio con la commissione medica e il cosiddetto “test Minnesota”, domande cui rispondere per misurare la buona immagine di sé che una persona tenta di dare, la consapevolezza dei propri problemi e i meccanismi di difesa messi in campo: con questi indicatori si valuta la vulneabilità del soggetto e la sua condizione esistenziale. Ma “ barare” è possibile, come dimostra la storia di Luigi Capasso, dichiarato idoneo a continuare il servizio e a tenere l’arma d’ordinanza appena poche settimane fa proprio dalla commissione medica davanti alla quale era stato mandato in seguito alla sua crisi matrimoniale.
« Noi — è la posizione dell’Associazione funzionari di polizia — riteniamo che, comunque, sia utile rafforzare il meccanismo dei controlli con una sorta di “ tagliando” periodico per tutti, così da verificare l’idoneità psichica che al momento viene attestata solo al momento del concorso. Ma quello che è importante, ed è il nostro invito, è una svolta culturale all’interno delle forze dell’ordine perché chiunque vigili sui colleghi e segnali sempre, in tempo utile, qualsiasi comportamento anomalo. Noi siamo personale armato e, per chi ha una pistola in casa, cedere al lato iracondo del carattere e perdere il controllo è più facile».

Repubblica 2.3.18
L’incontro Meloni-Orbán
La confusione nazionalista
di Francesco Merlo


È spassosa ma inquietante Giorgia Meloni che non riesce ad essere né di destra né nazionalista, e a Budapest si è fatta il selfie con un anti italiano, un nemico dell’Italia che però ai suoi occhi incarna l’idea italiana del macho autoritario, del “qui ci vuole un uomo”. Dimentichiamo per un momento l’antisemitismo di Orbán e l’orribile guerra all’ebreo ungherese Soros, condivisa da Meloni probabilmente (speriamo) perché non la capisce. Sicuramente l’antisemitismo è razzismo internazionalista. Ma non è nazionalista quella tessera di fratello d’Italia a un nemico dell’Italia che indignerebbe tutto il Pantheon della destra: Almirante e D’Annunzio, Longanesi e Jünger, Mussolini e Prezzolini, Pound e Buttafuoco. E invece Meloni — ha raccontato Pietro Senaldi su Libero, e non c’è ragione di non credergli — guardava Orbán con “un’espressione innamorata”. Peccato che ci siamo persi lo spettacolo della “Sora Angelina” muta e trasognata davanti al magiaro della provvidenza che alza muri e molla calci nel sedere agli immigrati.
È vero che è di destra il nazionalismo, ma non è mai internazionalista. E nel caso ungherese è, con evidenza, ostile all’Italia. Orbán continua a ricevere moltissimi soldi, anche italiani, dall’Unione europea: una manna per lui, un disastro per noi. E però rifiutando le quote di immigrati che dall’Europa gli sono state assegnate contribuisce a fare dell’Italia quel “ grande campo profughi d’Europa” che eccita il razzismo all’ungherese di Meloni. E va bene che è la reginetta di Coattonia, ma se vuol fare la leader nazionalista, Meloni dovrebbe sapere, con Carl Schmitt ( anvedi quanti so’ e quanto scriveno!), che le nazioni si dividono in amiche e nemiche indipendentemente dal regime politico. Meloni dice di non essere fascista: «Nazionalista. Il fascismo è morto 70 anni fa».
Ora, il nazionalismo di Orbán sogna di ricostruire la Grande Ungheria, quella del 1918. Ma Meloni quale Grande Italia sogna? Se si esclude il Risorgimento, non abbiamo altro nazionalismo da risognare che quello del 1918, quando finimmo di combattere proprio con l’Austria- Ungheria. E va bene che Orbán teorizza la “ democrazia illiberale”, ma ha alzato il suo muro più contro di noi che contro quei pochi immigrati che aveva già respinto a calci. L’Italia non può alzare muri attorno alle sue coste. E neppure Meloni sparerebbe sui barconi.
Caricatura della destra, dunque Meloni è per ora solo un pasticcio di confusione. Un leader di destra per esempio non avrebbe contestato quel biglietto gratis agli immigrati offerto dal direttore del museo di Torino. Come le ha fatto notare su Panorama Marco Tarchi, politologo amato a destra, anche quella è stata “una sciocchezza”. Politica di destra sarebbe aprire gratuitamente agli immigrati tutti i musei e le istituzioni italiane, regalare la Bibbia e tassare invece il Corano, le macellerie halal...
Specie quando faceva politica con il pancione, Meloni sembrava un’onorevole Angelina de destra, l’Anna Magnani che nel 1947 sapeva fare le piazzate ma anche rinunziare al ruolo di onorevole perché « me stavo a confonde » . E la difendemmo quando Asia Argento ( che poi le chiese scusa) la definì “lardosa” su un tweet in inglese. Ecco: since than Ms Meloni è convinta che la lingua inglese sia di sinistra: perfida Albione again.
La sua è la destra di borgate, palestre e trattorie romane, della comunità dei “gabbiani” (1980) di Rampelli, di Crosetto e Katia Ricciarelli, cinepanettoni e semivip, la destra del mitico La Russa che negli anni del governo Berlusconi, sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con le collezioni di soldatini e i voli sopra Kabul.
Insultata in inglese Giorgia pensa che il nazionalismo sia dire «tassa piatta» (che davvero non si può sentire) invece di flat tax: «La sinistra ci ha insegnato che quando si danno i nomi stranieri a una legge ti stanno fregando ». Inventata da Friedman nel 1958, la flat tax si chiama così in tutto il mondo, anche nei testi dell’economista Antonio Martino che nel 1994 la inserì nel programma del governo Berlusconi. Inoltre l’Inglese, che non è di destra né di sinistra, avrebbe permesso alla Meloni “ innamorata” di parlare con Orbán e di capirlo: in Ungheria l’amore non è cieco, ma muto.

il manifesto 2.3.18
Grasso: «Plurale, unita e fuori dalle larghe intese: così Leu andrà avanti»
Intervista al leader di Leu. Il presidente del senato: montano fake news sulle mie parole, la Fornero va rifatta, quindi abolita. Minniti ha ridotto gli sbarchi, ma sul resto non va. Con i 5 stelle nessun governo: su certi valori siamo incompatibili. Subito dopo il voto convochiamo un’assemblea e nascerà il partito della sinistra. Continuerò a guidare questo percorso con quelli che ci hanno creduto
di Daniela Preziosi


Presidente Piero Grasso, siamo alla fine dalla campagna elettorale. Il magistrato non è un mestiere facile. Il mestiere di leader politico?
Per me è tutto nuovo. Ma l’ho fatto con entusiasmo. E ho incontrato un’Italia delusa, frustrata, affaticata, ma anche un’Italia che ha voglia di riprendersi e riprendere la speranza. È stato bello e emozionante.
Una speranza che rischia di infrangersi nelle inevitabili pastoie del dopo-voto?
La legge elettorale ormai è giudicata disastrosa anche da chi l’ha ideata, e cioè Renzi, Berlusconi e Salvini. Va assolutamente cambiata. E noi pretenderemo di stare a quel tavolo. Sto parlando di un tavolo parlamentare, perché la legge elettorale la fa il parlamento.
Perché ci sia quel tavolo ci deve essere un governo. Potreste parteciparvi?
Un governo in un paese c’è sempre, che sia quello in proroga, che sia quello nuovo. Noi non parteciperemo a un governo di larghe intese, questa è la posizione di Liberi e Uguali da sempre. Il resto sono fake news, è stato creato un caso dalle mie parole.
Ma il dubbio di Vespa era legittimo: lei è il presidente del senato, è ancora la seconda carica dello stato. E se glielo chiedesse Mattarella?
Il punto non è questo. Il presidente della Repubblica segue la prassi e la Costituzione. Noi siamo la sinistra e non partecipiamo a un governo con la destra.
Il punto è forse anche che c’è il sospetto che in LeU qualcuno abbia la tentazione di votare le larghe intese. Lo esclude?
LeU resterà unito. E se anche ci sono posizioni diverse, come dice lei, saremo uniti. Plurali, ma uniti.
Qual è la sua opinione sui ministri immaginari di Di Maio?
È una forzatura istituzionale a fini di propaganda. Vogliono dare l’impressione di aver vinto prima del voto, e di essere già pronti a governare.
Voi invece avete scelto un profilo più serio e più realistico?
Abbiamo scelto la realtà della Costituzione. Quando saremo consultati esprimeremo le nostre opinioni. Vede, io non voglio commentare i nomi, ma gli esordi di alcuni non mi sembrano eccezionali. Ho sentito il designato all’istruzione che elogiava la buona scuola. Ci sono delle discrasie, dei lapsus, fra quello che i 5 stelle hanno detto prima e quello che dicono adesso.
Sono lapsus o cercano di rassicurare gli elettori?
Ma non si capisce più quale sia la loro linea. Siamo d’accordo su qualche punto, ma molti dei loro temi sono incompatibili con i nostri. Il fatto che non siano stati alla manifestazione antifascista va valutato. L’antifascismo è un valore fondativo della Costituzione.
Nonostante questo resta possibilista sull’appoggio a un governo M5S?
Ho appena detto il contrario. Ad oggi non ci sono le condizioni per appoggiarli.
Ci sono temi sensibili a sinistra. Gliene propongo alcuni. Che giudizio dà dell’operato del ministro Minniti?
Intanto saranno gli elettori a giudicarlo. Sul tema dell’immigrazione ha ridotto gli sbarchi, ma ha spostato il problema umanitario in Libia. Lì va tutelata la vita e la dignità delle persone che finiscono nei campi. E su questo non ci siamo.
Lei ha detto che la legge Fornero non è da cancellare ma da riordinare, facendo la gioia dei suoi sfidanti a sinistra. Cosa intendeva?
In questa campagna elettorale si gioca troppo sulle parole. C’è chi si studia quello che dico per trovarci quello che non c’è. Se cambio una legge vuol dire che la riscrivo, che la abolisco. La legge Fornero va rivista e riscritta. Basterebbe conoscere il programma per sapere come la penso.
Non si parla abbastanza di programmi?
A furia di spararle grosse i programmi seri come i nostri sono passati in secondo piano. Noi abbiamo fatto proposte precise, concrete e realizzabili.
Dica le due più urgenti al paese.
Gli investimenti pubblici per creare lavoro per i giovani, il diritto allo studio e alla salute per tutti i cittadini. Sono diritti universali che vanno tutelati molto di più.
Alla vostra sinistra Potere al popolo propone la legalizzazione delle droghe leggere, l’abolizione dell’ergastolo e del 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Su questi temi lei ha il know how del magistrato. Come la pensa?
Sul 41bis non ho dubbi, è una misura che va mantenuta perché il suo scopo è evitare che i boss possano comandare dal carcere. Sull’ergastolo la cosa è più complessa: la buona condotta lo trasforma in una pena di reclusione, che quindi può avere una fine. Sulla legalizzazione delle droghe leggere so che gran parte dei nostri candidati è a favore, io personalmente ho qualche dubbio.
Da questa campagna che idea si è fatto delle divisioni della sinistra?
Ma noi di Liberi e Uguali ci siamo uniti, e presto passeremo da lista a partito. Un cantiere che apriremo subito dopo le elezioni. Siamo aperti a ricevere qualsiasi formazione che voglia aderire ai nostri valori, che poi sono quelli universali: l’idea di giustizia, di uguaglianza, di legalità, la questione morale che è quella che ha fatto staccare i cittadini dalla politica.
LeU è nata con il vento in poppa. Ora però la spinta sembra affievolita. Perché?
Guardi, io ho l’impressione opposta. Altro che affievolita. Sul territorio l’entusiasmo continua a crescere, ho girato per il paese e l’ho toccato con mano. Se si riferisce ai sondaggi, attenta che sbagliano, non le faccio l’elenco degli ultimi clamorosi errori dei sondaggisti. Siamo fiduciosi. Ci rivolgiamo ai delusi. Soprattutto quelli del Pd. Con loro possiamo costruire una casa nuova della sinistra.
Voi dite che LeU andrà avanti. Come?
Secondo le regole di ciascun partito. Ci sarà un momento assembleare subito dopo il voto.
Lei continuerà a esserne il leader?
Continuerò a guidare questo percorso, in cui credo fermamente, insieme alle persone che credono nel futuro di questo progetto.

Il Fatto 2.3.18
Bonino e l’elettore (finto) di sinistra
di Daniela Ranieri


Salutiamo l’entrata (e la prevedibile imminente uscita) nell’antropologia politica italiana, già stravagante di suo, di una nuova eclettica figura: l’elettore di sinistra della lista +Europa di Emma Bonino. Il fenotipo è facilmente identificabile: non vota Pd perché “non riesce a dimenticare che il segretario è Renzi” (Michele Serra), anche se finora era riuscito a ignorarlo senza particolari remore morali; ciò nonostante, sostiene “la coalizione”; anzi, ad esser precisi “sostiene Gentiloni” (Enrico Letta), che però non è candidato e deve aver lasciato detto all’intellighenzia di citofonare a Bonino.
Non serve che dica, questo furbone machiavellico, che vuol fare dispetto a Renzi, raccontando a sé stesso che se Bonino supera il 3% si aggiudica i seggi in Parlamento che il Napoleonino di Pontassieve era già convinto di accaparrarsi come previsto dal Rosatellum.
Ora, a questo bizzarro animale elettorale non serve dire che Emma si è già dichiarata disponibilissima, nel caso, a sostenere un governo con B. (alleato della Lega anti-europeista), come del resto fece nel ’94, trovando fino al 2006 (due anni prima di allearsi col Pd di Veltroni) che di B. fosse da “apprezzare ciò che fa come premier” (non come palazzinaro, non come padrone televisivo, e nemmeno come utilizzatore finale: proprio come premier).
L’elettore +europeista, al caldo nel suo soggiorno pieno di prime edizioni Einaudi, non proverà alcuna dissonanza cognitiva nel sostenere i Radicali (da non confondere col Partito Radicale di Bernardini e Turco) che sostengono il Pd che ha distrutto lo Statuto dei lavoratori ed è alleato con la lista della berlusconian-alfaniana Lorenzin. Del resto si è fatto andare bene che non riuscendo a raccogliere le 25mila firme necessarie alla presentazione della lista, Emma abbia accettato l’ospitalità offertale dal cattolico antiabortista Tabacci nel proprio Centro democratico, aggirando la legge nel sollievo e persino nel tripudio generale. Posto che non c’è giornale che non si genufletta ogni volta che la nomina, Bonino da mesi si fa le sette chiese televisive chiedendo, come nella migliore tradizione radicale, non si capisce bene cosa (che i radicali non siano boicottati, che è ora di smetterla di non farli parlare, che bisogna accogliere gli immigrati che Minniti respinge etc.), e può contare su pannelli elettorali luminosi giganteschi nelle maggiori stazioni come nemmeno Ceausescu, e forse neanche Renzi, avrebbe potuto desiderare.
E sì che Emma non manca occasione di far capire dove batte il suo cuore. Dopo aver indicato la cura per la Nazione in una maggiore austerità e in una minore spesa pubblica (per le famiglie, i cittadini, la Sanità, la Scuola, insomma per quella cosa romantica e lontana chiamata popolo), e aver del resto chiamato la sua lista +Europa a scanso di equivoci, l’altro giorno ha detto che la “scuola deve preparare più e meglio al lavoro”. Quale tipo di lavoro, lo ha chiarito lei stessa: “Nei Paesi vicini alla piena occupazione come la Germania, cercano più ingegneri e operai specializzati che non dei latinisti“. È vero. Anche sotto Hitler la disoccupazione in Germania era pari a zero e il lavoro rendeva liberi i cittadini, specie quelli ebrei, nelle fabbriche del Reich; la cultura, davanti alla quale mettevano mano alla pistola i gerarchi nazisti, non era che uno strascico kitsch della passata grandezza o un lusso raffinato per pochi eletti. Latinisti non ne servivano, al regime, e anche oggi le nostre città sono piene di classicisti disoccupati, in tutta evidenza non talentuosi come la Lorenzin, che ha trovato lavoro come ministro (della Sanità!) con la sola maturità classica.
Per Bonino andrebbe anche “bene il boom del liceo classico”, purché provveda a irrobustire braccia per il lavoro, beninteso questo lavoro del 2018, che per chi ha il culo al caldo è un’ottima occasione di crescita e progresso e per gli altri schiavismo legalizzato a tutele crescenti.
Mancava Bonino, di cui non stiamo a ricordare le nobili battaglie civili del passato, a dare manforte alla dottrina neoliberista della scuola come allevamento di polli da batteria per ingrassare i padroni e non come educazione alla Storia, alla riflessione e all’uso critico dell’intelletto; non fossero bastate le dannose riforme della Scuola ad opera di ministri dipendenti di un miliardario milanese coi libri finti nel tinello, o l’ultima, renziana, detta Buona Scuola, con la incredibile idea dell’alternanza scuola-lavoro con la quale si sottraggono gli studenti alle ore di studio per fargli svolgere gratis mansioni manuali che altrimenti andrebbero pagate.

Il Fatto 2.3.18
I Radicali contro Bonino: “Il 4 marzo scioperiamo”
L’ultima faida tra gli eredi di Pannella: gli “ortodossi” Turco e Bernardini invitano a disertare le urne. Traduzione: non votate la lista di Emma
di Tommaso Rodano


Radicali contro. Gli eredi di Marco Pannella, ancora sotto le insegne del “Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito”, invitano pubblicamente all’astensione. Anzi allo “sciopero del voto”. E dunque – indirettamente ma non troppo – chiedono di non votare la lista radicale di Emma Bonino e Riccardo Magi, candidati nel centrosinistra sotto il simbolo di +Europa (con la complicità dell’ex democristiano Bruno Tabacci che ha consentito loro di saltare la raccolta firme).
La frattura tra pannelliani ortodossi e boniniani è ormai un grande classico nella famiglia radicale. Il vecchio leader sbottò pubblicamente già nel 2015: “Emma è fuori dal partito, a lei interessa solo il jet set”. Le cause sono più antiche e chiaramente più profonde, e hanno a che fare soprattutto con la gestione del patrimonio e della Radio. L’ultimo capitolo, a febbraio, è stato lo “sfratto” di Bonino, Gianfranco Spadaccia e Marco Cappato dalla sede del partito, dove conservavano i loro uffici.
Così l’ultima replica della Guerra dei Roses di Torre Argentina va in onda a tre giorni dal voto che potrebbe riportare in Parlamento alcuni esponenti storici di quella famiglia (a cominciare dall’ex ministra, di recente molto accreditata tra colonnisti e altri interpreti del pensiero democratico mainstream). Dalla sede del partito viene scandita l’indicazione di non votare. La ripetono Maurizio Turco, Rita Bernardini, Antonio Cerrone, Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia. Quest’ultimo apre la conferenza stampa – che peraltro la stampa, persino le agenzie, diserta in modo unanime – con queste parole: “Per la prima volta la Lista Pannella non presenta proposte elettorali”. Il sottotesto: +Europa con noi non c’entra niente.
La ragione principale per cui i Radicali – quelli transnazionali e non violenti – chiedono di disertare le urne è il Rosatellum: una legge elettorale che – sostengono – manipola la volontà del cittadino e la cancella con metodi sostanzialmente truffaldini. Queste elezioni pertanto non vanno legittimate: la loro “non democraticità” ha raggiunto vette inesplorate, persino per la storia poco gloriosa del “regime partitocratico” che i radicali ortodossi denunciano dalla nascita. E dunque “sciopero del voto”, come ripete Rita Bernardini. Seguendo pure l’interpretazione autentica dello Statuto del partito (quello transnazionale, etc.) che non contempla la possibilità di sostenere o presentare liste alle elezioni. E per quanto riguarda i compagni radicali che si sono candidati lo stesso, aggiunge un po’ beffardamente Bernardini, “gli auguro senz’altro di essere tutti eletti”.

il manifesto 2.3.18
Viola: «Volevano isolarci, non ce l’hanno fatta»
La chiusura di Potere al popolo, oggi a Napoli gran finale. Verso un'organizzazione in ogni caso, quorum o non quorum: «Dopo il 4 andiamo avanti. E se entriamo in parlamento, andiamo avanti lo stesso»
di Daniela Preziosi


«Volevano isolarci, volevano incastrarci nella logica degli opposti estremismi. Eh. E è semplice: non ce l’hanno fatta». Viola Carofalo – solo «Viola» per tutti – chiude la campagna di Potere al popolo di Roma. Oggi gran finale a Napoli, capitale morale della lista, piazza Dante. Dopo tanti chilometri ancora scherza: «Ho imparato cose nuove in questo mese: tipo che la priorità per una scuola è fare il presepe, o insegnare ai bimbi ad essere patriottici». È «il capo della forza politica» («capa», dice lei) e la forza è la folla davanti al palco: «compagni e compagne» di sempre, come il vignettista Vauro, il giornalista Lucio Manisco, Sandro Medici, oggi candidato alla regione Lazio, la sua capolista Lisa Canitano, Paolo Petrangeli. Ma anche giovanissimi che postano sui social il selfie con Citto Maselli, «il maestro». Francesca Fornario, autrice satirica e appassionatissima di «Pap» li chiama sul palco.
All’entrata c’è un compagno che volantina per la nazionalizzazione della Banca d’Italia, il palco è un tripudio di rosso, sono rosse anche le lampade a palla da vecchia disco anni 70. Per primi ci salgono quelli del «Brancoro», «branco di voci sciolte», cantano versioni sofisticate delle canzoni delle mondine e dei comunisti (l’Avanti popolo nella versione di Gualtiero Bertelli strappa la lacrima).
Ma il vintage finisce qua. Questa lista della sinistra radicale non assomiglia molto alle sue precedenti edizioni, eppure le sigle sono quelle note: Rifondazione comunista, Eurostop, Pci (ex Pcdi), Sinistra anticapitalista, Democrazia atea. Ma il lievito napoletano dei ragazzi dell’ex Opg-Je so’ pazzo ha fatto la differenza. In tutto. «Non c’è nulla di radicale in quello che diciamo», corregge Viola, «è la normalità. Però ci siamo abituati a tutto. E quindi dire che uno si deve poter curare gratuitamente sembra una proposta radicale».
«Abbiamo fatto la cosa giusta. Una cosa vera. Bella. E per questo sta diventando contagiosa. Il 4 marzo cerchiamo tutti insieme di fare una cosa impossibile. Non fermiamoci», dice Maurizio Acerbo (Prc). Il progetto, spiega Viola, è «dare una bandiera e un’organizzazione a chi lotta ogni giorno». Vasto programma. Ma in tanti prima hanno fallito. «E noi invece dopo il 4 andiamo avanti. E se entriamo in parlamento, andiamo avanti lo stesso»

Il Fatto 2.3.18
Di Maio, tanti ministri “rossi”. E all’ultimo salta Roberto Fico
Il candidato premier M5S presenta il suo esecutivo: 5 donne e 12 uomini. Una lista che guarda a sinistra per il dopo-voto. Per l’ortodosso si pensava a un dicastero ad hoc
di Luca De Carolis e Paola Zanca


Una squadra per sedersi al tavolo, con il baricentro spostato a sinistra e qualche vuoto riempito all’ultimo momento. Piena di 40enni, con due soli parlamentari uscenti e cinque donne, in ruoli pesanti. E un grande assente, Roberto Fico. Era lui, il presidente della Vigilanza Rai, l’ortodosso per eccellenza, la grande carta coperta tra i 17 aspiranti ministri presentati ieri a Roma da Luigi Di Maio. Ma pochi giorni fa la sua entrata in squadra è saltata, pare di comune accordo.
E così a rappresentare i parlamentari ci sono solo due fedelissimi di Di Maio, Alfonso Bonafede alla Giustizia e Riccardo Fraccaro ai Rapporti con il Parlamento. Per il resto, tre candidati negli uninominali e tutti tecnici. Anche se il candidato a Palazzo Chigi e i suoi ripetono che “non sono tecnici, ma persone con testa e cuore”. Forma aulica che tradisce il timore di essere accostati a governi come quello di Mario Monti, per antonomasia l’esecutivo dei tecnici. Ma al di là dei contorcimenti verbali è evidente come Di Maio abbia puntato su docenti e dirigenti, molti già nell’orbita del M5S, come Pasquale Tridico e Andrea Roventini, rispettivamente al Lavoro e all’Economia. E sono loro due, celebratissimi dal microfono dal candidato premier, a dare la cifra politico-economica del possibile governo a 5Stelle.
Due keynesiani convinti, per i quali si deve ripartire dagli investimenti pubblici e da uno Stato centrale nell’economia. “Il modello liberista ha fallito, ora in tutto il mondo economico internazionale si torna a Keynes” sostiene Laura Castelli, deputata che collabora da tempo con entrambi. Tridico parte subito celebrando “il reddito di cittadinanza” e si sofferma “sullo spopolamento del Sud, dove non si investe”. E Di Maio batte forte le mani, perché è nel Mezzogiorno dove il Movimento ha il suo granaio di voti. Mentre Roventini, emozionatissimo, afferma che “il Mef deve tornare a privilegiare la crescita economica e ridurre la finanziarizzazione dell’economia”. Se diventasse ministro, lavorerebbe in simbiosi con Giovanni Dosi, direttore dell’istituto di Economia alla scuola Sant’Anna di Pisa. Intanto la certezza è che Tridico e Roventini parlano una lingua che potrebbe piacere molto a sinistra. Più o meno quella di Mauro Coltorti, indicato – a dispetto del suo curriculum – come ministro delle Infrastrutture e Trasporti: un geomorfologo, già candidato nell’uninominale, attivo anche nella cooperazione. Poi c’è Emanuela Del Re, docente universitaria messa agli Esteri, che tra le altre cose scrive Limes, rivista di geopolitica del gruppo editoriale Gedi (quello di Repubblica e Espresso). Mentre Alessandra Pesce, all’Agricoltura, è, raccontano, un’elettrice del Pd. Insomma, molti dei nomi dovrebbero favorire un accordo a sinistra dopo il 4 marzo, con LeU e magari un pezzo del Pd. “Ma è tutto da vedere, e chiaramente qualche nome dovrà essere sacrificato nelle trattative” ammettono nel M5S. Perché la squadra presentata davanti a un sorridente Davide Casaleggio ha i suoi punti deboli. I no sono stati tanti. E allora invece di un’ex prefetta, cercata per mesi, per l’Interno Di Maio ha indicato la criminologa Paola Giannetakis, già in lista a Roma nell’uninominale. “Collabora con le forze di Polizia ed è formatrice presso enti governativi” rivendicano i 5Stelle. Ma sulla sua scelta, grammaticalmente avventurosa, pesa uno sponsor di rilievo come l’ex ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, il rettore dell’università di Link Campus, dove Giannetakis insegna. Perché Scotti per Di Maio è un consigliere. E più di un nome lo ha segnalato lui. Però non c’entra con l’aspirante ministro della Cultura.
Accennata e poi affannosamente ritentata la trattativa con lo storico dell’arte Tomaso Montanari, e incassati almeno un altro paio di no, alla fine il M5S ha ripiegato su Alberto Bonisoli, direttore della Nuova accademia delle Belle arti di Milano, esperto di moda e design. Di Maio lo aveva incontrato a Milano a inizio dicembre. E da quell’incontro nasce un’altra scelta quanto meno curiosa. Infine, c’è il potenziale ministro alla Salute Armando Bartolazzi che in tv si esercita sui vaccini: “Alcuni possono essere anche discussi. Se c’è un’emergenza sanitaria, è compito del ministero fare corretta informazione per convincere la gente”. È la linea del M5S, ma dagli altri partiti ovviamente cannoneggiano.
Il candidato premier però tira dritto e spara altissimo: “Avremo il 40 per cento”. Poi celebra Sergio Mattarella: “Siamo molto fortunati ad averlo in questo momento storico, gli riconosco il ruolo di garante e lo saprà esercitare”. Moderatissimo, Di Maio: che ha piazzato le sue carte, ma è pronto a spostarle. Perché l’importante è il governo.

Il Fatto 2.3.18
Il passato “renziano” di tre nomi: fan del Sì, della “Buona Scuola” e persino di Martina
Imbarazzi - I “nominati” Giannetakis, Giuliano e Pesce paiono assai “bipartisan”
di Lorenzo Giarelli


Gaffe televisive, dichiarazioni inopportune, nomi con un passato filo renziano. Neanche il tempo di insediarsi – in astratto, s’intende – e il governo a Cinque Stelle ha i suoi primi problemi.
Si parte in mattinata, quando Luigi Di Maio presenta a L’aria che tira, su La7, i primi due nomi: si tratta di Armando Bartolazzi, scelto per la Sanità, e del preside pugliese Salvatore Giuliano per l’Istruzione. Proprio l’esordio di quest’ultimo, in diretta, non è dei migliori: “No, la Buona Scuola non va abolita, ma migliorata”. Un mezzo endorsement che somiglia a quello di Alessandra Pesce, ministro dell’Agricoltura in pectore, che mercoledì a Tagadà aveva definito Maurizio Martina “un buon ministro”. Un gradimento che forse ha a che fare col fatto che la dottoressa Pesce al ministero lavora già, visto che ha fatto parte della segreteria tecnica del viceministro Olivero.
Quando Giuliano prova a correggere il tiro sulla riforma – “è una legge da buttare” – lo scivolone sta già rimbalzando sui profili social dei rivali politici, corredato da un vecchio appello online in cui Giuliano invitava i professori e i sindacati a non scioperare contro la riforma renziana.
Il Pd gongola e Matteo Renzi arriva persino a dichiarare che Giuliano abbia avuto un ruolo operativo nella stesura della legge: “È un nostro amico, è un consulente di Stefania Giannini (ministra dal 2014 al 2016, ndr) e di Valeria Fedeli. È un preside, anche bravo, che ci ha aiutato a scrivere la riforma della Buona Scuola”.
“In bocca al lupo al candidato ministro dell’Istruzione Salvatore Giuliano, – segue a ruota l’ex ministra Giannini – ha l’esperienza per fare bene, l’ha dimostrato dando un contributo qualificante alla Buona Scuola”.
Versione rivista e corretta da Giuliano: “Ho appena scoperto di essere stato quello che ha scritto la Buona Scuola, ma non ho scritto un rigo. Scopro di avere amicizie importanti, ma io l’onorevole Matteo Renzi l’ho visto due volte in pubbliche occasioni. Ho una concezione di versa di amicizia”. In rete c’è un filmato del novembre 2015, pubblicato in serata sui profili social del segretario dem. È un intervento all’Italian Digital Day, organizzato a Venaria dal governo. In platea Renzi, sul palco l’aspirante ministro: “Noi siamo pronti a migliorare questo paese. La scuola è con lei, presidente. Vada avanti!”.
Ma le polemiche rovinano la festa anche a Paola Giannetakis, la criminologa designata per il ministero degli Interni. Su di lei spunta una petizione del giugno 2016, ai tempi della campagna per il referendum costituzionale che da lì a qualche mese avrebbe bocciato la riforma Boschi-Renzi. Un appello firmato dalla Giannetakis, assieme a qualche decina di altri docenti universitari: “Dallo scorso giugno un gruppo di studiose e studiosi, scrittori e scrittrici, firme, voci e volti, che hanno fatto della scienza e del sapere, della ricerca e dell’arte, del diritto e dell’intrapresa la loro professione hanno lanciato un appello per votare Sì al referendum costituzionale di domenica 4 dicembre 2016”, si legge nel testo della petizione. “Un sì pacato – prosegue la lettera – che, sulla scorta delle considerazioni espresse in maggio dai giuristi e costituzionalisti che si sono pronunciati in materia, sente il dovere di esprimersi”. Una posizione quindi ben lontana da quella sostenuta allora dai 5 stelle, i prima linea nella campagna contro la riforma.
Adesso Giannetakis nega tutto, dice di non aver mai firmato nulla e di non sapere come il suo nome sia finito in calce all’appello. Ma il caso c’è, tanto che Di Maio, ospite in serata a Otto e mezzo, sceglie tutt’altra strategia difensiva: “Renzi aveva il 40% dei consensi. Tante persone hanno avuto fiducia in quell’uomo. Queste persone (Giuliano e Giannetakis, ndr) dimostrano il fatto che quando conosci Renzi cominci a evitarlo”.

il manifesto 2.3.18
E Renzi si sente accerchiato


«Dopo il 40% alle europee anche nel mio partito hanno iniziato a farmi la guerra, hanno cercato di spaccare tutto ma non ci sono riusciti perché siamo ancora nelle condizioni di essere il primo gruppo parlamentare, l’unico che in Europa ha chance di governare. Il Pd ha preso tante botte al proprio interno, è stato un errore dividersi come hanno fatto gli amici di D’Alema». Ormai Matteo Renzi, saltando da uno studio tv all’altro per il rush finale, alterna appelli accorati e recriminazioni, ripensando a quel 40% che «è un unicum nella storia politica» ma è lontano anni luce.
Denuncia una campagna di odio nei confronti degli elettori dem e se la prende anche con Emma Bonino che «sbaglia sulla reintroduzione dell’Imu, non sta né in cielo né in terra», ma «chi vuol votare +Europa lo faccia», del resto sarebbero alleati. Ma «l’ipotesi di un governo degli estremisti è in campo e lo dico ai malpancisti del Pd e della sinistra» e «chi vive queste elezioni come primarie interne non ha capito che rischiamo di svegliarci con una maggioranza di estremisti, col governo M5s-Lega».
«Il clima sta cambiando», deve aggiungere, per incoraggiare gli elettori e se stesso. Ma intanto il maltempo lo porta a cambiare location al suo comizio conclusivo di stasera a Firenze, inizialmente previsto in piazza Michelangelo. L’appuntamento – causa neve – è dirottato nel teatro Obihall.
Niente piazza nemmeno a Roma. Il Pd capitolino aveva chiesto una pre-autorizzazione alla Questura per un comizio in piazza Mastai, a Trastevere, ma l’iniziativa è stata annullata: dalle 17 a mezzanotte attivisti e candidati gireranno la città con i volantini per cercare di convincere uno a uno gli elettori.

Il Fatto 2.3.18
Fitto: “Il M5S al Sud vince”. Salvini: “Spero che il Pd prenda il 22%”


“Il Pd spero che prenda il 22%”. Le parole che non ti aspetti le pronuncia Matteo Salvini a margine della manifestazione con Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Raffale Fitto a Roma. Il leader leghista viene intercettato dalle telecamere del Corriere della Sera durante una chiacchierata confidenziale con Meloni e Fitto. Salvini spera che il Pd non crolli sotto quella soglia perché altrimenti – come pronostica Fitto – nei collegi del Sud farebbe il pieno il Movimento 5 Stelle. “Giù (al Sud, ndr) i Cinque Stelle volano” dice l’ex presidente della Regione Puglia al leghista. In un altro stralcio della conversazione, Meloni indica Salvini: “Lui arriva primo (nella coalizione di centrodestra, ndr)”. Ma Fitto insiste: “I grillini al sud fanno cappotto. Sai che può succedere? Che vincono tutti i collegi uninominali”. Il leghista sbotta: “Eh la madonna!”. Il problema è che il partito di Renzi è troppo debole nei collegi: “Perché dici che il Pd perde così tanto?” chiede Salvini a Fitto. Risposta: “Crollano, completamente”. A quel punto il leghista si augura che i dem tengano, almeno come argine al “cappotto” grillino: “Spero che il Pd prenda il 22%”

Repubblica 2.3.18
I dati sul lavoro
La prevalenza delle donne
di Chiara Saraceno


Sia pure lentamente, la situazione dell’occupazione va migliorando, nonostante per molti lavoratori, come quelli di Embraco, la crisi sia alle porte. La ripresa, piccola ( 0,7%), dell’occupazione è particolarmente chiara su base annua. Si tratta di una crescita molto selettiva: riguarda pressoché solo le donne, sia le giovani sotto i 24 anni che le ultracinquantenni. Le prime entrano nel mercato del lavoro con percentuali simili ai loro coetanei. Le seconde rimangono più a lungo a seguito degli effetti della riforma Fornero. Talvolta devono persino restare più a lungo dei coetanei, se hanno avuto una carriera lavorativa e contributiva interrotta a causa degli impegni famigliari.
Con un modesto 49,3% il tasso di occupazione femminile continua a essere lontano non solo da quello, pur non altissimo, maschile italiano, ma anche da quello medio europeo e ancor più dall’obiettivo europeo del 70%. Nel caso di nuovi ingressi e non di mancate uscite per pensionamento, inoltre, si tratta per lo più di contratti a tempo determinato e/ o part time involontario. Meglio che niente, si potrebbe osservare, salvo verificare la durata dei contratti e la possibilità di fare progetti al di là del mese. Senza contare che per le giovani donne un contratto a tempo determinato (e in certa misura anche a tutele crescenti) costituisce un forte vincolo alle scelte di maternità, che mettono a serio rischio ogni possibilità di rinnovo. La combinazione di concentrazione dell’aumento dell’occupazione tra le donne e i giovani e della pressoché totale prevalenza di contratti a termine, oltre a confermare un progressivo riequilibrio dei rapporti di lavoro a sfavore di quelli permanenti, suggerisce anche la possibilità che almeno una parte di queste occupazioni sia a bassa qualifica e bassa remunerazione.
La continuità dell’aumento, pur piccolo e lento, dell’occupazione femminile negli ultimi anni, dopo l’arresto avvenuto con la crisi, segnala tuttavia che ormai per un numero crescente di donne, per necessità o per scelta, la partecipazione al mercato del lavoro fa parte della vita adulta, che si abbia o meno una famiglia e anche proprio perché la si ha o se ne vuole avere una. Non solo permette autonomia economica alle donne. Protegge anche la coppia e la famiglia dai rischi di povertà in caso di reddito troppo basso, perdita dell’occupazione del partner o separazione coniugale. Anche se avere una famiglia continua a presentare rischi per le donne rispetto all’occupazione. Secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, il 78% delle dimissioni volontarie riguarda le lavoratrici madri. E da un anno all’altro è quasi raddoppiato il numero di donne che hanno lasciato il lavoro perché non ce la fanno a tenerlo insieme alle responsabilità famigliari. È un problema anche per le lavoratrici più anziane che fronteggiano le richieste di aiuto per la cura dei nipoti da parte di figlie e nuore o i bisogni di cura di coniugi, più spesso genitori o suoceri, divenuti fragili per età o malattia.
La crescente presenza delle donne nel mercato del lavoro richiederebbe un radicale ripensamento di un sistema di welfare che, per quanto riguarda i bisogni di cura dei piccolissimi e delle persone non autosufficienti, è ancora largamente affidato al lavoro gratuito delle donne entro e per la famiglia. Richiederebbe anche una diversa organizzazione del lavoro, ove la flessibilità venisse considerata come uno strumento di gestione sia per le aziende sia per i lavoratori/trici.

Repubblica 2.3.18
Uno studio pubblicato da “El Pais”
L’Italia di Sputnik propaganda russa pro ultradestra
di Sara Bertuccioli


ROMA La guerra informatica scatenata dalla Russia per influenzare la politica e le elezioni nelle democrazie occidentali ha un fronte anche in Italia. Lo scrive il quotidiano spagnolo El Pais, che ha pubblicato i risultati di uno studio sui messaggi diffusi attraverso i social media (in particolare Twitter) da una rete che ruota attorno al sito Sputnik (Sputniknews.com), agenzia internazionale di informazione – ma secondo molti analisti sarebbe meglio dire disinformazione – con base a Mosca e disponibile in diverse lingue, tra cui l’italiano.
Secondo la ricerca effettuata dalla società Alto Data Analytics su un milione di post e tweet condivisi da circa 100 mila profili, il rischio che la propaganda russa polarizzi e orienti gli elettori verso la xenofobia e il populismo è reale. Il metodo? Diffondere messaggi anti immigrati che trovano terreno fertile tra i simpatizzanti dell’estrema destra, della Lega e in parte dei 5 Stelle. Lo schema della propaganda è quello già visto in altri contesti europei (Brexit, elezioni francesi) e anche negli Stati Uniti: titoli sensazionalistici con lo scopo di essere condivisi e amplificare il problema percepito. Il governo inglese sta analizzando l’influenza russa sul referendum sull’uscita del Regno Unito dalla Gran Bretagna (ma Facebook finora non ha trovato riscontri) e lo stesso si sta facendo in Spagna per quello in Catalogna, per non parlare delle interferenze russe, sotto indagine, nelle elezioni americane che hanno portato alla vittoria di Donald Trump.
Sputnik è il sito più citato dalla Alto Data Analytics nello studio pubblicato da El Pais. «Nel 2065 la quota dei migranti in Italia potrà superare il 40% della popolazione totale» o «Il caos degli immigrati è solo l’inizio di una guerra sociale» sono alcuni dei titoli degli articoli più condivisi dal sito russo, definito “l’agenzia di propaganda del Cremlino”. «Un modo per “orientare l’opinione pubblica indirizzando preferenze verso partiti che soffiano sul populismo».
La Data Analytics ha monitorato, da febbraio a luglio 2017, più di un milione di post su Twitter pubblicati in italiano da circa 100 mila profili: i messaggi pubblicati dagli utenti che citano il sito russo sono per il 90 per cento anti immigrati. «Non credo che Sputnik parli di temi anti immigrazione, noi giornalisti facciamo una fotografia di quello che è il Paese», risponde Marco Fontana, giornalista e collaboratore della testata e addetto stampa della Regione Piemonte, che mette in dubbio i risultati del report spagnolo: «Non è Sputnik che decide di orientare: se i nostri articoli vengono condivisi è perché c’è qualcuno che la pensa come noi». Fontana non crede che il sito sia fondamentale nella polarizzazione del dibattito sull’immigrazione in quanto i canali social della testata non hanno numeri altissimi: 45mila fan su Fb e 6.300 su Twitter.
Di opinione opposta è David Puente, noto per la sua attività contro le bufale online: «I risultati della ricerca non mi sorprendono: ora con uno studio si ha la certezza numerica del fenomeno.
Il materiale di Sputnik è condiviso soprattutto da utenti che dimostrano di appoggiare le idee di Casa Pound, Lega e a volte M5S». Quanto all’influenza del network, sarebbe stata amplificata dall’utilizzo di bot, cioè profili automatici che servono a rilanciare i contenuti.
«Ci possono essere bot ma è possibile che un account anche con pochi follower possa far diventare virale un contenuto».
I legami politici tra alcuni partiti italiani e la Russia sono noti. Nel marzo 2016 ci fu un incontro tra Alessandro Di Battista con Robert Shlegel, uomo fidato di Vladimir Putin per il web, in cui si sarebbe parlato di «format per una ulteriore cooperazione tra M5S e Russia Unita», il partito di Putin.
Sul fronte leghista, Salvini un anno fa firmò un accordo di cooperazione con Sergei Zheleznyak, vicesegretario dello stesso partito. Dopo l’incontro a Mosca, il segretario della Lega scrisse su Facebook che erano stati trattati temi come «Lotta all’immigrazione clandestina, lotta al terrorismo islamico e fine delle sanzioni economiche contro la Russia». Argomenti, guarda caso, non lontani da quelli trattati da Sputnik.

Corriere 2.3.18
La corsa al riarmo si giocherà in Europa
La sfida nucleare di Putin: nuovi missili, noi invincibili
di Franco Venturini


Vladimir Putin ha infilato gli armamenti nucleari nell’urna. Quando mancano diciassette giorni al voto che secondo tutti i pronostici lo confermerà nella carica di presidente, il capo del Cremlino ha tenuto ieri, davanti alle due Camere del Parlamento di Mosca, uno dei suoi discorsi più bellicosi.
Con un doppio intento. Agli elettori ha ricordato che lui è il garante della grandezza e della sicurezza della Russia. All’Occidente ha trasmesso invece un avvertimento strategico: attenti al riarmo voluto da Trump, non vi illudete di poter utilizzare nuove atomiche a potenza ridotta, perché noi siamo pronti a rispondere con gli interessi. Con l’abilità del consumato piazzista e l’ausilio di video di grande effetto, Putin ha esposto la sua «invincibile» mercanzia nucleare. Un missile da crociera che può raggiungere tutto il mondo, due missili in grado di perforare qualsiasi sistema difensivo (e il pensiero è corso allo «scudo» americano presente in Alaska, in Romania e in Polonia) , un altro Cruise la cui traiettoria non può essere prevista, vettori di ultima generazione lanciati da sottomarini. Gli esperti militari dovranno ora a capire quante delle affermazioni di Putin si riferiscano ad armi davvero nuove. Ma nel suo discorso a contare è soprattutto la politica. Mosca non accetta che Washington abbassi la soglia atomica mettendo a punto ordigni meno devastanti, e avverte che se gli americani intendessero usarli in Paesi alleati della Russia, per esempio in Siria o in Iran (che Putin non ha nominato), la risposta del Cremlino sarebbe durissima.
Questo è il principale telegramma che Putin ha voluto inviare a Trump. Ma nel suo discorso c’è anche una conferma estremamente allarmante: la corsa al riarmo nucleare di Usa e Russia è ormai cominciata, e si giocherà come sempre sul territorio europeo. Prima vittima designata il trattato sui missili a gittata intermedia (INF) , già al centro di infuocate polemiche tra Washington e Mosca. Ieri è stato il presidente russo a fare il cowboy nucleare, ma quel che continua a stupire è che mentre Trump e Putin parlano l’Europa colpevolmente taccia. Come se la cosa non la riguardasse.

il manifesto 2.3.18
Polonia, la legge sulla Shoah entra in vigore
Istituto della Memoria Nazionale. Il provvedimento prevede fino a tre anni di carcere per chi attribuisce alla nazione la responsabilità dei crimini del nazismo tedesco o utilizza espressioni come «campi di sterminio polacchi». Mentre l'Europarlamento approva l'attivazione dell'articolo 7 contro la riforma della giustizia, accusata di violare lo Stato di diritto
di Giuseppe Sedia


VARSAVIA Il discusso emendamento alla legge sull’Istituto della Memoria Nazionale (Ipn), che prevede fino a tre anni di carcere per chi attribuisce alla Polonia la responsabilità dei crimini del nazismo tedesco o utilizza espressioni come «campi di sterminio polacchi», è ormai legge. Un provvedimento dai confini incerti che mira più in generale a punire in patria e all’estero ogni tentativo di attribuire alla nazione polacca «crimini contro l’umanità, contro la pace nonché altri crimini durante la guerra».
Nelle ultime settimane i fautori dell’emendamento e la diplomazia polacca hanno continuato a ripetere come un mantra che storici e artisti sono esclusi dal campo di applicazione della legge. Eppure tutto questo non è riuscito a scongiurare la reazione stizzita degli Stati uniti e quella ben più furiosa di Israele.
All’inizio di questa settimana una delegazione polacca era volata a Tel Aviv per tentare di ricucire lo strappo dando prova di buona volontà ma presentandosi comunque a mani vuote visto che la legge e già stata firmata dal presidente Andrzej Duda. Il governo della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) ha infatti ribadito il proprio nie a fare dietrofront nonostante il rinvio non vincolante della legge al Tribunale costituzionale. «Non vedo la possibilità di cambiare la legge né abbiamo intenzione di farlo», ha dichiarato Bartosz Cichocki a capo della delegazione del ministero degli affari esteri partita per Israele. «Entrambi i paesi vogliono che le nostre relazioni ritornino alla normalità. E importante che tutte le parti siano convinte di muoversi nell’ambito della verità storica», ha spiegato il giornalista polacco conservatore e collaboratore dell’Ipn Bronislaw Wildstein, conosciuto in patria per aver divulgato nel 2005 ai media locali una lista di 240.000 persone che avrebbero collaborato in passato con l’Sb, la polizia segreta della Polonia comunista.
La presidente del Tribunale costituzionale, Julia Przylebska, entrata in carica a dicembre 2016 durante il governo del PiS, ha affidato la valutazione del provvedimento a una mini-commissione. Il gruppo da lei presieduto riunirà altri 4 membri della corte, entrati in carica anche loro durante il governo PiS (il Tribunale costituzionale della Polonia si compone di quindici giudici nominati dal Sejm, la camera bassa del parlamento polacco).
Ed è stato proprio il conflitto politico sorto negli ultimi anni intorno alle nomine dei membri del Tribunale costituzionale, e che ne avevano paralizzato il funzionamento, ad aver attirato l’attenzione di Bruxelles. E tutto questo ancora prima della riforma dei tribunali ordinari, del Consiglio nazionale della magistratura (Krs) e della Corte suprema che hanno infine spinto l’Ue ad adottare contro la Polonia la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona per il rischio di violazione grave allo stato di diritto. Un iter che ieri ha trovato il sostegno del Parlamento Ue in una risoluzione che esorta gli stati membri «a stabilire rapidamente se la Polonia è a rischio di violare gravemente i valori Ue».

Il Fatto 2.3.18
La Ue: “La legge anti-Shoah è contro lo Stato di diritto”
Sanzioni pronte - La reazione di Bruxelles alla norma che condanna al carcere chi sostiene il coinvolgimento dei polacchi nel genocidio nazista degli ebrei
di Michela A. G. Iaccarino


In Polonia è legge. In Europa è “opzione nucleare”. Nessun odwilz, disgelo tra Bruxelles e Varsavia, dove ieri è entrata in vigore la controversa “legge sull’Olocausto”. Per chi parla o scrive di “campi di concentramento polacchi”, per chi associa “la nazione polacca ai crimini nazisti”, la Polonia all’Olocausto, la pena è il carcere. Fino a tre anni. Votata dal Sejm, la Camera Bassa, la legge è stata ratificata nei giorni scorsi dal presidente Andrej Duda, che prima l’ha firmata, poi inviata, per i diffusi dubbi sulla sua legittimità giuridica, alla Corte costituzionale, che non si è ancora pronunciata. La storia riscritta più di un quarto di secolo dopo, sotto bandiera bianca e rossa, nel 2018, si riassume così: fu colpa tedesca, di nessun altro, la responsabilità dei nazisti, in nessun caso polacca.
Bruxelles non è rimasta in silenzio. Al Parlamento europeo con 422 voti favorevoli, 147 contrari, 48 astensioni, cioè più dei due terzi dei voti necessari, è stata approvata la risoluzione per l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, per “rischio palese della violazione dello Stato di diritto” nel più grande dei Paesi dell’ex blocco sovietico. La Polonia ora rischia la sospensione del diritto di voto nelle istituzioni europee, un’azione punitiva mai adottata in precedenza, quella che in gergo nei corridoi dell’Unione chiamano “opzione nucleare”.
La questione “nucleare” europea è pallida nei titoli d’apertura dei giornali polacchi e ancor più nell’opinione pubblica, ma non lo è la fusione atomica russa e il nuovo missile di Putin, che troneggia verticale al suo posto sulle prime pagine.
Il quotidiano Rzeczpospolita ha invece scelto di pubblicare un report del 1946 appena apparso sul Jerusalem Post, un rapporto segreto e dettagliato degli americani “sul terribile trattamento riservato agli ebrei in Polonia prima, dopo, durante la Seconda guerra mondiale”.
Per la nuova legge voci irate si sono levate per ricordare le responsabilità di chi tra i polacchi favorì il Terzo Reich durante l’occupazione, ma sono state quelle delle comunità ebraiche, da Varsavia fino a Gerusalemme, non molte quelle della società civile polacca.
Non vecchie memorie di antisemitismo, ma nuove di anti-polonialismo. Chi definì i campi di concentramento “polacchi” fu nel 2012 Barack Obama, durante una commemorazione. “Se proprio il presidente degli Stati Uniti fa cose come questa, è un allarme che le cose vanno cambiate, l’anti-polonialismo nel mondo diventa potente per mancanza di reazioni dalla Polonia.
Chi critica la legge, lo fa per sentimenti “anti-polacchi”, ha detto il premier Mateusz Morawiecki che proprio cinque giorni fa, per le continue proteste del governo Netanyahu, aveva congelato la procedura.
Nel Paese dove sono già a rischio libertà dell’informazione, delle donne, delle minoranze, indipendenza delle autorità giudiziarie, per fermare l’“opzione nucleare”, effettiva solo se votata da tutti i 27 Stati membri, rimane un solo alleato, quello che ha detto di star “volutamente costruendo uno Stato illiberale” in Europa, il primo ministro d’Ungheria, Viktor Orban. Pochi giorni fa, il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, ha ricordato che “tanti eroi hanno resistito ai nazisti, ma tanti hanno collaborato ai loro piani”.
Il primo allarme di Timmermans per l’applicazione dell’articolo 7 risale allo scorso dicembre: “Negli ultimi due anni il governo polacco ha messo a rischio la democrazia con almeno 13 leggi, it’s not about Poland, but about EU as a whole, non si tratta della Polonia, ma dell’Europa intera”.

Repubblica 2.3.18
Irlanda
Ritorno a Belfast
L’ultimo muro d’Europa
di Enrico Franceschini


Solenne e paffuto come i tipici taxi londinesi, il “black cab” si arresta sotto la parete dai colori sgargianti che taglia Belfast a metà. «Ecco il murales più fotografato di Falls Road», annuncia Jackie, l’autista-guida del tour. Una coppia di pensionati di Boston e due ragazze giapponesi scendono dall’auto sguainando l’iPhone per portarsi a casa l’immagine ricordo di Bobby Sands, icona della resistenza nord-irlandese, l’attivista dell’Ira morto nel 1981 in una tetra prigione britannica per lo sciopero della fame ad oltranza contro l’inumano trattamento a cui erano sottoposti i detenuti politici. «La vendetta sarà il sorriso dei nostri figli», recita la scritta sulla gigantesca effige di un giovane dai capelli lunghi contornato di catene. «Facciamo un selfie?», propone l’americana al marito. Sono di origini irlandesi e si mettono in posa con orgoglio.
L’ultimo muro d’Europa è diventato meta turistica. Più lungo e più alto di quello che divideva Berlino, tappezzato da oltre 300 ritratti e graffiti, ribattezzato “Peace Line”, è stato per tre decenni la prima linea di una feroce guerra civile: una barriera di acciaio, cemento e reticolati per separare il quartiere cattolico dal quartiere protestante della città, da un lato i repubblicani indipendentisti, dall’altro i lealisti fedeli al Regno Unito. Finché, dopo oltre 3.500 morti fra attentati, omicidi e repressioni, nella primavera di vent’anni fa l’accordo del Venerdì Santo mise fine a un conflitto che sembrava insanabile. «Quando in via delle Cascate, tutti sulle barricate, proclamammo la Repubblica a Belfast» (accento sull’ultima sillaba), declamavano nel 1972 i versi di “Libera Belfast”, brano del Canzoniere Pisano del Proletariato: come il digiuno di Sands e le battaglie dell’Ira, Falls Road entrò nel linguaggio dei movimenti di sinistra di tutto il continente, Italia compresa.
Il XX anniversario della pace, fra qualche settimana, doveva rievocare il più importante risultato dell’era di Tony Blair e rappresentare un modello per altre dispute etnico-religiose apparentemente irrisolvibili. Ma i mediatori inglesi e i negoziatori delle due fazioni non potevano prevedere la Brexit. Il 10 aprile 1998, giorno dell’accordo, nessuno avrebbe potuto immaginarla. L’appartenenza di Gran Bretagna e Repubblica d’Irlanda all’Unione europea sembrava un dato di fatto destinato a durare, sospingendo la questione di a chi appartenesse l’Irlanda del Nord verso un futuro così distante da renderla obsoleta. Il confine tra le “due Irlande” non esisteva più. I cittadini dell’una e dell’altra parte potevano sentirsi europei. Di fatto, l’Emerald Island, l’Isola di Smeraldo, era già unita. Poi è venuto il referendum del giugno 2016 con cui il popolo britannico ha scelto di lasciare la Ue, rimettendo l’assetto in discussione. A livello nazionale la Brexit è stata approvata 52 a 48 per cento. Ma l’Irlanda del Nord ha votato, 56 a 44 per cento, per rimanere in Europa. Il contrasto complica il negoziato fra Londra e Bruxelles e minaccia di fare risorgere il conflitto fra cattolici indipendentisti e protestanti unionisti, perché l’Ue rappresenta la base della pace. Esistevano piani per demolire il muro di Belfast, entro il 2023. Ora non è più chiaro se verrà abbattuto.

BELFAST «L’Irlanda si riunificherà grazie alla Brexit». La voce è profonda, baritonale, resa cantilenante dall’inconfondibile cadenza locale: l’inglese parlato come se uno avesse un sassolino in bocca. Un modo, anche questo, di sottolineare la differenza: seppure separate da appena 21 chilometri nel punto più stretto del Canale del Nord, le due isole sono profondamente diverse. Lo sguardo, dietro gli occhiali che gli danno una severa aria intellettuale, è fiammeggiante. In un tempo non lontano, Gerry Adams figurava accanto ad Arafat, Castro, Mandela, nell’olimpo dei capi rivoluzionari, quella specie eletta ma controversa che alcuni considerano eroi e altri terroristi. Di cappelli, sulla sua testa adornata da una folta barba grigia, ne ha indossati tanti: leader dello Sinn Fein a Belfast e a Dublino; presunto comandante dell’Ira, acronimo di Irish Republican Army, per tre decenni l’esercito clandestino più grande e meglio armato d’Europa; deputato al Parlamento di Westminster, anche se non ha mai occupato il seggio; deputato al Parlamento irlandese. Ora, almeno ufficialmente, non ne porterà più nemmeno uno: in vista dei 70 anni si è dimesso dalla carica di presidente del partito, l’ultima che conservava, e non si ricandiderà più alle elezioni da nessuna parte, smentendo le voci su future ambizioni alla presidenza della repubblica irlandese. Lo Sinn Fein (in gaelico significa “Solo noi”) sarà guidato da due donne di una generazione più giovane, le quarantenni Mary Lou Mc-Donald e Michelle O’Neill, in questo momento sedute al suo fianco nella folta platea di colleghi, militanti, giornalisti, nel centro congressi della città immortalata da James Joyce.
In un certo senso anche lui è un Ulisse, ma la sua odissea non è ancora terminata. Un combattente non va mai del tutto in pensione. Le sue parole continuano ad avere peso. «L’accordo di pace firmato nel 1998 dipendeva dall’Unione europea», spiega Adams, cantilenando. «Senza la Ue, non sarebbe stato possibile. Il fondamento di quell’intesa era il consenso, l’idea che il conflitto e ogni dissenso che fosse rimasto dopo il conflitto venissero risolti tenendo conto delle opinioni della maggioranza, anziché delle ragioni della forza. Ebbene, nel referendum britannico del 2016 una netta maggioranza di nord-irlandesi ha votato per rimanere in Europa». L’intenso dibattito in corso a Londra su come limitare o addirittura capovolgere la Brexit con un secondo referendum non gli interessa; la discussione sulla possibile permanenza de facto o formale dell’Irlanda del Nord nel mercato comune o nell’unione doganale, per mantenere “aperto” come ora il confine, lo annoiano come dettagli secondari. Nemmeno si scalda su cosa farà la Scozia, dove nel referendum ha votato per la Ue una maggioranza ancora più ampia che in Irlanda del Nord. « La questione dell’indipendenza scozzese riguarda gli scozzesi. Quanto agli inglesi, facciano quello che vogliono su un eventuale secondo referendum. Io mi occupo di quello che possono e dovranno fare gli irlandesi, non solo del Nord ma di tutta la nostra isola. E dico che la Brexit rende i tempi maturi per un referendum nella totalità dell’Irlanda sulla riunificazione, anzi sulla creazione di una nuova Irlanda, somma delle due parti. Spetterà al consenso democratico stabilire il nostro futuro. Personalmente, non ho dubbi su come finirà. Resta solo da stabilire il quando » . La sua erede Mary Lou McDonald fissa una scadenza: «Faremo il referendum per la riunificazione irlandese entro dieci anni » . Il loro ottimismo di Adams ha due motivazioni. La prima si può notare nei reparti di ostetricia: in Irlanda del Nord, i cattolici fanno più figli dei protestanti. Belfast ha già un sindaco cattolico, gli indipendentisti diventeranno maggioranza in tutta la regione. La guerra si può vincere anche nelle culle. La seconda motivazione affonda nella storia.
Per i suoi detrattori, Gerry Adams è il capo occulto di un’organizzazione terroristica che ha giustificato omicidi, bombe e sangue per oltre 30 anni in accordo con l’Ira. Per i suoi estimatori, è l’uomo di pace che ha saputo guidare faticosamente il movimento repubblicano verso la rinuncia alla lotta armata e la ricerca di una soluzione politica. «Vorrei che nessuno fosse mai stato ucciso», dice nell’ora del suo ritiro. «Ma è importante ricordare che un movimento popolare di liberazione nazionale come il nostro è stato capace di trovare un’alternativa alla guerra». Sulla questione se lui sia stato o meno un capo dell’Ira, non solo dello Sinn Fein, taglia corto: «Non ho mai preso le distanze dall’Ira. L’ho sempre difesa, anche se talvolta l’ho criticata: per esempio condannai l’attentato nel pub di Birmingham (nel 1974: causò 21 morti e 186 feriti, ndr.), quello fu un errore. Ma puoi criticare, dare giudizi morali, solo quando ti metti nelle scarpe di chi critichi». È come riconoscere che quelle scarpe le indossava a sua volta. « Adams si è guadagnato il mio rispetto » , ricorda a Londra Jonathan Powell, capo di gabinetto a Downing Street negli anni di Tony Blair e capo negoziatore britannico nella lunga trattativa per arrivare all’accordo del Venerdì Santo, «perché ha portato soprattutto sulle sue spalle l’onere di persuadere i duri dell’Ira a deporre le armi. Sapendo che, se avesse sbagliato una mossa, avrebbe potuto pagare con la vita». Per descrivere il leader dello Sinn Fein, l’ex consigliere di Blair rammenta uno scambio di battute nei giorni più intensi del negoziato. «La cosa che mi piace di te, Jonathan, è che arrossisci quando menti», gli disse Gerry. «A differenza di te», rispose Powell. Tutti scoppiarono a ridere. Tuttavia c’era poco da scherzare. Quando Adams e il suo partner Martin McGuinness invitarono Powell a trattare nel cuore della notte in un’isolata fattoria lungo il confine tra repubblica irlandese e Irlanda del Nord britannica, con un trattore che andava su e giù per i campi allo scopo di coprire le voci e disturbare eventua li ascolti indesiderati, l’inviato di Blair replicò: « Vengo, a patto che non mi uccidiate». Non era una spiritosaggine. Arrivando da solo all’aeroporto di Belfast, caricato su un’auto da due tizi taciturni dall’aria losca, portato a destinazione con un lungo giro nella campagna per fargli perdere l’orientamento, Powell temeva che da un momento all’altro il veicolo si arrestasse in un viottolo buio, sbucasse fuori un commando dell’Ira e lo fucilasse su due piedi. Quando viceversa fu Adams a fargli visita per la prima volta a Downing Street, il leader dello Sinn Fein lasciò i presenti interdetti commentando: « E così questo è il posto dove è cominciato tutto » . Powell fraintese. «Sì, il colpo di mortaio cadde nel giardino dietro di lei», osservò cupo. «La finestra andò in frantumi. I ministri si gettarono sotto il tavolo per mettersi al riparo. C’era anche mio fratello. Si salvò per un pelo ». Nelle sua visione a breve termine, il capo dello staff pensava che il leader nord-irlandese si riferisse allo spregiudicato attacco dell’Ira del 1991, uno dei tanti tentativi di assassinare il primo ministro britannico. Ma il suo interlocutore scosse la testa. « Non ha capito. Intendevo che qui cominciò la guerra civile irlandese, perché in questo edificio Michael Collins firmò il trattato del 1921 che diede l’indipendenza all’Irlanda. Al prezzo di dividerla in due». Occorre una visione a lungo termine per comprendere la questione irlandese. A lungo termine verso il futuro, così come verso il passato.
Grande meno di un terzo dell’Italia, con una popolazione totale di neanche 7 milioni fra la repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord (anche detta Ulster) britannica, l’Isola di Smeraldo – come è soprannominata per il colore dei suoi prati perennemente bagnati dalla pioggia – rimase abitata per secoli da un gruppo di origine celtica, i gaelici, dai quali deriva tuttora la sua lingua ufficiale (l’inglese è soltanto il secondo idioma nazionale: non per nulla la denominazione ufficiale dello stato è Eire, richiamo a una dea mitologica che aiutò i gaelici; e primo ministro si dice Taoiseach). Dal 400 dopo Cristo iniziò l’opera di evangelizzazione da parte dei primi missionari cristiani, tra cui il monaco Patrizio, diventato in seguito il santo patrono dell’isola. Dopo il crollo dell’Impero romano furono proprio i monaci irlandesi a rivitalizzare monasteri dalla Scozia alla Puglia, ricopiando instancabilmente a mano antichi libri e codici che altrimenti sarebbero andati perduti e perciò giudicati i salvatori dello scibile greco-romano, come racconta il saggio di un teologo americano, “ How the Irish saved civilization”. Ma nel dodicesimo secolo in Irlanda iniziarono le invasioni degli inglesi. Nel 1541 Enrico VIII, il re d’Inghilterra con sei mogli, autore dello scisma anglicano dalla chiesa di Roma per potersi risposare a suo piacimento, si proclamò anche re d’Irlanda. Da allora ci vollero 400 anni perché la lotta per l’autonomia irlandese sfociasse nel Trattato firmato a Downing Street da Michael Collins, uno dei leader dell’insurrezione contro la Gran Bretagna e poi presidente del governo provvisorio irlandese, l’atto a cui si riferiva Adams nella conversazione con Powell a Downing Street. Da quella firma grondò altro sangue. Una parte degli insorti irlandesi, contraria a lasciare una parte dell’isola al Regno Unito, non riconobbe l’accordo. Ne seguì una guerra civile fratricida, nel corso della quale Collins venne assassinato dai suoi avversari, tragico episodio che ha ricevuto una notorietà mondiale grazie a un bel film del 1996, “Michael Collins”, con Liam Neeson nel ruolo del protagonista.
Dopo la fatale firma di Collins, la piena indipendenza dell’Irlanda richiese altri vent’anni, passando attraverso la neutralità irlandese nella seconda guerra mondiale, l’abolizione della monarchia (fino a quel momento il re britannico restava capo dello Stato, come avviene ancora oggi in Canada e Australia), la proclamazione della repubblica e l’uscita dal Commonwealth. La rottura con l’organizzazione che riuniva (e riunisce tuttora) le ex colonie britanniche aveva un significato fortemente simbolico. Gli odierni unionisti protestanti dell’Irlanda del Nord sono i discendenti dei coloni inglesi mandati a espropriare le terre degli irlandesi, ribattezzandole contea dell’Ulster. La lotta per riunificare l’Irlanda del Nord britannica con la repubblica d’Irlanda è vista da Gerry Adams e i suoi seguaci alla stregua dell’ultimo capitolo della decolonizzazione post- imperiale. Ancora prima del Trattato del 1921 che concesse l’indipendenza a tre quarti dell’isola, i coloni inglesi iniziarono a formare una milizia armata, l’Ulster Volunteer Force (Uvf), un corpo paramilitare che crebbe fino ad avere 90mila uomini, un arsenale di armi acquistate clandestinamente dalla Germania e l’appoggio a Londra di personaggi come lo scrittore Rudyard Kipling. Due fazioni in armi, in un territorio così piccolo che si attraversa in auto dalla mattina alla sera, erano la ricetta per un’altra guerra civile: nord- irlandese stavolta. Da una parte, i cattolici che volevano l’indipendenza in tutta l’isola, non soltanto in tre quarti, rappresentati dall’Ira e dal suo braccio politico, lo Sinn Fein, oltre che da vari gruppi armati dissidenti; dall’altra i protestanti lealisti fedeli alla monarchia britannica e ben decisi a rimanerci attaccati, rappresentanti dall’Uvf e da una pletora di partiti e gruppuscoli non meno armati dei cattolici. La contrapposizione ribollì per qualche decennio come un conflitto a bassa intensità. Quindi, nel 1969, esplose in una vera e propria guerra, con attentati (non limitati all’Irlanda del Nord ma anche in casa dell’invasore originale, il nemico ultimo, l’Inghilterra: molto prima di conoscere il terrorismo di al Qaeda e dell’Isis, Londra imparò a convivere con la costante minaccia delle bombe dell’Ira) e repressioni, omicidi e vendette, marce di protesta e sparatorie nelle strade. I “ Troubles”, come sono stati chiamati i trent’anni successivi: classico understatement inglese, perché quei “problemi” o “guai” che dir si voglia hanno provocato decine di migliaia di morti e di feriti, facendo diventare Belfast simile a Beirut o Bagdad: la città più violenta e pericolosa d’Europa.
« La cosa che so bene di Gesù è che perdonava, non condannava » , ammonisce Gerry Adams. «Tratta la gente con dignità e ti risponderà con dignità. Trattala male e ti risponderà male». Come formula per riassumere i Troubles è riduttiva, ma non sbagliata. I cattolici dell’Irlanda del Nord si sono sentiti a lungo maltrattati e hanno risposto trattando male, talvolta molto male, la controparte. Naturalmente la religione in questo trentennale conflitto non c’entra, almeno non direttamente: era e rimane una disputa etnico- nazionale, territoriale. Ma sono stati i diritti calpestati dei cattolici ad alimentare la rabbia poi sfociata nella guerra civile: discriminazioni sul lavoro, sull’accesso a case popolari, sulle ripartizioni elettorali. Non c’è un momento esatto in cui cominciarono le ostilità: fu un progressivo surriscaldamento fatto di scontri, dimostrazioni, disordini. Come in altri conflitti della stessa epoca, a partire dalla guerra in Vietnam, la presenza militare britannica continuò a crescere, provocando in parallelo un aumento delle operazioni clandestine per contrastarla. Il primo tratto di muro fu eretto a Belfast nel 1969: era lungo poche centinaia di metri e doveva servire soltanto per sei mesi. Alla fine la barriera si è estesa per 34 chilometri, fuori e dentro il perimetro cittadino, separando Falls Road, la strada principale del quartiere cattolico, da Shankill Road, la strada principale del quartiere protestante. Barricate e divisioni si moltiplicavano in tutta la regione. La frontiera con la repubblica d’Irlanda, costellata di torrette, filo spinato, meticolosi controlli, era a sua volta una specie di muraglia. Trent’anni di guerra, costellati di atrocità. Bloody Sunday, il massacro di 13 civili disarmati da parte dell’esercito britannico a Derry, il 30 gennaio 1972, tramutato molto tempo dopo in un inno rock dalla band irlandese U2. L’assassinio nel 1979 di lord Mountbatten, zio del principe Filippo, il marito della regina Elisabetta, ucciso insieme a un nipote e altre due persone da una bomba piazzata nella sua barca. La morte per sciopero della fame di dieci detenuti, il primo dei quali fu Bobby Sands, nel famigerato carcere di Belfast, nel 1981. La bomba del 1982 a Hyde Park che uccise 11 soldati del reggimento a cavallo della regina durante una parata. L’attentato del 1984 al Grand Hotel di Brighton, durante l’annuale congresso del partito conservatore, che uccise cinque persone, incluso un deputato, mancando però l’obiettivo, che era colpire Margaret Thatcher. «Nell’ultimo quarto del ventesimo secolo», sintetizza l’ex capo negoziatore britannico Powell, «l’Irlanda del Nord poneva la più grande minaccia terroristica che il nostro Paese avesse mai confrontato e il maggiore timore per l’esercito britannico » . Almeno quattro primi ministri dedicarono considerevole tempo a cercare di fermare o almeno attenuare questa minaccia: Edward Heath, Harold Wilson, la “ lady di ferro” e John Major. Nessuno ottenne risultati. Poi, nel 1997, a Downing Street arrivò un certo Tony Blair e un anno dopo ci fu la firma del Good Friday Agreement. «Non era la fine della guerra civile, come speravamo, bensì soltanto l’inizio  del processo di pace», riconosce Powell. In effetti ci vollero altri dieci anni per completare il processo con l’insediamento a Belfast di un governo autonomo congiunto, che apriva la strada non solo alla devolution promessa da Blair anche a Scozia e Galles, ma in primo luogo alla pacifica convivenza al governo tra acerrimi nemici. Qualcosa di inconcepibile fino a non molto tempo prima. «Vedere Ian Paisley, nel ruolo di premier protestante, e Martin McGuinness, in quello di vice-premier cattolico, il primo meglio conosciuto come Dottor No perché non sapeva dire altro che no a ogni offerta di compromesso, il secondo come il comandante e autore materiale di innumerevoli azioni dell’Ira, costituiva ai miei occhi niente di meno di un miracolo», riconosce l’ex capo di gabinetto di Blair. Il leader laburista, sottolinea Powell, ebbe un merito non indifferente nella realizzazione della pace. «Ho perso il conto delle volte in cui sono tornato esausto da una sessione di negoziati inconclusivi per dire a Tony che era finita e lui si rifiutava di arrendersi, ordinandomi di riprendere i contatti con le due parti, di riprovarci».
Eletto primo ministro con una maggioranza schiacciante, sulle ali di un entusiasmo popolare e di aspettative di rinnovamento epocali, ammantato dallo slogan della “ Cool Britannia” che avrebbe effettivamente trasformato e modernizzato la Gran Bretagna, fino alla guerra in Iraq, che gli costò la popolarità e il potere, Blair ebbe un’intuizione in fondo semplice: per raggiungere un accordo, ciascuna delle due parti doveva sacrificare qualcosa. Il suo compito era convincerle che quel sacrificio fosse vantaggioso nel lungo termine. «Il mio scopo non è un’Irlanda unita», disse a David Trimble, leader dei lealisti protestanti al tavolo dei negoziati. « L’Irlanda del Nord fa parte del Regno Unito quanto l’Inghilterra, la Scozia e il Galles. Io credo nel Regno Unito. Voglio preservarlo». Ma l’unico modo di mettere fine al conflitto era portare i repubblicani dello Sinn Fein al disarmo, al dialogo e a una contesa politica anziché militare: dunque non trattarli più da terroristi, riconoscerli, coinvolgerli, mettersi d’accordo con loro invece di combatterli. Sia pure con estrema riluttanza, alla fine Trimble si lasciò persuadere. Era una posizione nuova per il Labour, che in passato, specie dalle file dell’opposizione, aveva espresso simpatie per “l’unità irlandese”. Ma il premier britannico aveva una promessa, in cambio del disarmo, anche per i repubblicani: « L’Irlanda del Nord fa parte del Regno Unito perché questo è il desiderio della maggioranza dei suoi abitanti. Resterà parte del Regno Unito finché le cose stanno così. Il principio del consenso è alla base della politica del mio governo in Irlanda del Nord. E’ la chiave di tutto. Non c’è possibilità di cambiare lo status dell’Irlanda del Nord senza il chiaro e formale consenso della maggioranza dei suoi abitanti». E anche Gerry Adams si lasciò convincere da questo concetto. Sembrava escludere la riunificazione. In realtà aveva un secondo significato, che lui colse subito: rendeva la riunificazione irlandese possibile per stessa ammissione di Londra. A una sola condizione: che fosse la maggioranza a volerla e che avvenisse pacificamente. E anche questo rappresentava una svolta. «L’Irlanda del Nord è un problema politico, non una questione di sicurezza » , gli rispose il leader dello Sinn Fein, «perciò può essere risolto soltanto politicamente». Ma esisteva anche un problema di sicurezza. “ Decommissionare” le armi, l’eufemismo usato dai negoziatori per intendere che gli arsenali andavano smantellati, era una richiesta difficile da porre all’Ira, in cambio soltanto di belle parole sul consenso. «Non voglio creare un Hamas irlandese», ammoniva Adams di continuo, rivolto agli interlocutori inglesi. Non voleva firmare una pace che gli irriducibili dell’Ira avrebbero rifiutato, scavalcandolo e continuando la guerra: come era successo pochi anni prima ad Arafat nella pace con Israele, mai accettata dai fondamentalisti di Hamas. Le faide intestine nel fronte repubblicano erano antiche come la lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. L’assassinio di Michael Collins, liberatore dell’Irlanda per alcuni, traditore dell’Irlanda per chi gli sparò, bastava a testimoniare il rischio che correva anche Adams.
A sua volta, pure Blair rischiava qualcosa. Ai primi incontri pubblici con Adams e con la delegazione dello Sinn Fein, il primo ministro britannico doveva sopportare i cori di una folla di “ infernali nonnine”, come vennero chiamate dai media, che gli gridavano «traditore» e gli tiravano guanti di gomma, affermando che avrebbe dovuto indossarli prima di «stringere la mano a un assassino come Gerry Adams». Non potevano credere che il loro premier negoziasse con “dei terroristi”. Non poteva crederci, effettivamente, nemmeno il protestante Trimble. Le collusioni fra unionisti ed esercito britannico erano state tali e tante, nei trent’anni dei Troubles, che le due forze venivano considerate più che alleati o complici: una cosa sola. L’idea che il premier del Regno Unito si atteggiasse ad arbitro imparziale sembrava inconcepibile al capo degli unionisti. Ai primi incontri con Adams, Trimble nemmeno gli rivolgeva la parola: parlava solo a Blair o a Powell, come se Adams non fosse nemmeno nella stanza. E quando Adams rispondeva, se Trimble aveva qualcosa da obiettare si rivolgeva di nuovo a Blair o a Powell. «Era una pantomima», ricorda il negoziatore britannico. Con momenti di pura comicità, come la volta in cui Trimble andò al gabinetto e si ritrovò a urinare di fianco ad Adams. Questi provò ad attaccare discorso con i calzoni aperti. «Non facciamo i bam bini » , fu la secca risposta dell’altro: il leader unionista terminò le sue funzioni, lavò le mani e uscì dalla toilette senza aggiungere altro. Vent’anni più tardi, insignito del Nobel e del titolo di lord, Trimble non sembra affatto ammorbidito. «La vera ragione per cui lo Sinn Fein e in ultima analisi l’Ira vennero al tavolo del negoziato era che li avevamo battuti sul campo », afferma convinto. «Si sentivano militarmente sconfitti. Non avevano altra scelta che implorare la pace » . Le molte ore trascorse insieme ad Adams, con cui alla fine parlò senza intermediari, non gli hanno fatto cambiare impressione sul suo conto: «Oh, certo, anche Gerry avrebbe voluto ricevere il Nobel. Smaniava per averlo. Ma sarebbe stato vergognoso condividere il premio con il capo di un’organizzazione terrorista». Gli si può far notare che lo stesso pensava probabilmente il premier israeliano Rabin di Arafat, eppure il Nobel andò a entrambi dopo la stretta di mano sul prato della Casa Bianca nel 1993. Trimble alza le spalle. Il paragone non lo tocca. Rabin pagò con la vita la pace – per quanto effimera – con i palestinesi. Anche Trimble ha pagato per quella con l’Ira. Alle successive elezioni nord-irlandesi, il suo partito ha perso la maggioranza. Oggi è politicamente irrilevante. Gli unionisti protestanti preferiscono farsi rappresentare da altri. Non gli hanno perdonato di avere stretto la mano al nemico. Trimble condivise il Nobel con John Hume, leader dei socialdemocratici nord-irlandesi, primo repubblicano a indicare il dialogo come via d’uscita dal conflitto, anche lui coinvolto nel negoziato, ma con un ruolo infinitamente meno importante di Adams.
L’accordo del Venerdì Santo fu preceduto da giornate convulse. Il 7 aprile Blair presiedette un summit dei leader della sinistra europea a Londra: nove primi ministri progressisti ( altri tempi), tra cui Romano Prodi per l’Italia. Ma il premier britannico entrava e usciva di continuo dalla sala per telefonare a Powell a Belfast e sapere a che punto era il negoziato. «Tutti gli sconsigliavano di raggiungerci», ricorda Powell. «C’era il timore che, se la trattativa si fosse complicata, Tony ne sarebbe divenuto ostaggio: non avrebbe potuto andarsene con in mano un fallimento, ma restare lo avrebbe costretto a fare concessioni che non poteva permettersi » . Blair ignorò il parere dei suoi collaboratori e partì per l’Irlanda del Nord. Distratto da pensieri più importanti, dimenticò di preparare un discorso per i giornalisti al suo arrivo: «Aveva l’abitudine di ripeterlo due o tre volte a se stesso, per pronunciarlo con completa sicurezza quando veniva il momento, ma fu costretto a improvvisare » , ricorda Powell. L’istinto del grande comunicatore lo sorresse: «Un giorno come questo», esordì, «non è un giorno per gli slogan». Poi ne confezionò uno perfetto: «Le mani della storia sono sulle nostre spalle». Nelle cinquantasei ore successive, nessuno dormì, a eccezione di qualche pisolino sui divani. «Adams e McGuinness avevano passato talmente tanto tempo insieme che erano come una vecchia coppia » , ricorda Powell. « Recitarono sino alla fine la sceneggiata del poliziotto buono, Gerry, e del poliziotto cattivo, Martin. Facevano di tutto per farci credere che il capo vero fosse McGuinness. Ma al momento cruciale di decidere, McGuinness aspettava l’imbeccata da Adams. Il vero capo era Gerry » . Adams cerebrale e McGuinness emotivo, il primo capo politico, il secondo militare: qualcuno li definiva lo yin e yang del movimento repubblicano nord- irlandese. Ma l’ultima spinta all’accordo arrivò per telefono, dall’America. Blair pregò Bill Clinton di chiamare Adams. Il presidente degli Stati Uniti aveva già il suo rappresentante sul campo, il senatore George Mitchell, uno dei più esperti politici di Washington. Ma Clinton, rodato dalla maratona negoziale fra israeliani e palestinesi, sapeva quanto la persuasione personale contasse in queste situazioni. Chiamò Adams ben tre volte, all’ 1, alle 2: 30 e alle 4: 45 di notte, ora di Belfast. Da sempre gli Usa, la nazione che aveva accolto milioni di immigrati irlandesi quando in Irlanda c’era la fame, erano stati vicini alla causa dell’indipendenza irlandese. Intanto Blair si lavorava Trimble e la delegazione unionista. All’alba del 10 aprile, Venerdì Santo pasquale, l’accordo era pronto. Più tardi, quando Blair e Powell montarono su un elicottero militare per il volo fino all’aeroporto di Belfast dove li attendeva un aereo per riportarli a Londra, il capo di gabinetto ricevette una telefonata da Buckingham Palace: la regina voleva parlare con il primo ministro. Forse per complimentarsi, oppure perché ansiosa anche lei di sapere, come e più di tutti, cosa c’era esattamente dentro quell’accordo su un pezzo del suo regno. Powell rispose che Blair in quel momento non poteva parlare con Sua Maestà. «In effetti eravamo già in elicottero, c’era un frastuono assordante». Sfiniti, fisicamente e psicologicamente, il funzionario, il premier e il portavoce Alastair Campbell che li accompagnava, furono presi da un riso isterico per la breve durata del viaggio in elicottero. « Anche se per tutto il tempo un militare con le gambe a penzoloni fuori dal portello aperto del velivolo teneva un cannoncino mitragliatore puntato sulla città sotto di noi». L’accordo era stato firmato. Ma era ancora presto per celebrare la pace. Per escludere che qualche fazione repubblicana dissidente provasse ad abbattere l’elicottero con il primo ministro britannico a bordo.
Quanto fosse prematuro celebrare, sarebbe diventato chiaro in seguito: da quel giorno ci sono voluti quasi altri dieci anni perché il processo di pace si completasse con la formazione nel 2007 del primo governo congiunto tra cattolici e protestanti, tra repubblicani e unionisti, in Irlanda del Nord. «Il Good Friday Agreement consisteva nel riconoscere e accettare un disaccordo», ammette Powell. Nessuna delle due parti rinunciava alle proprie aspirazioni. Ma entrambe – ecco la storica novità – accettavano di provare a realizzarle politicamente, non con la violenza. Un duplice referendum sancì il patto: approvato con il 94 per cento nella repubblica d’Irlanda, con il 71 per cento in Irlanda del Nord. Un 71 per cento costituito dal 96 per cento dei cattolici e dal 55 per cento dei protestanti: anche fra questi, seppure meno largamente, la maggioranza si espresse a favore dell’accordo. Le parole più belle le trovò Clinton. «Quando vado in Israele e in Palestina, dico: guardate l’Irlanda del Nord. Quando vado in India e in Pakistan che cercano di risolvere la crisi in Kashmir, dico: guardate l’Irlanda del Nord. Quando vado nello Sri Lanka e in tutte le altre regioni problematiche del mondo, dico: guardate l’Irlanda del Nord. La pace è possibile ». Lezione che l’ex negoziatore britannico Powell traduce con un motto: «Se vuoi mettere fine a un conflitto, devi parlare con i tuoi nemici, non con i tuoi amici » . Lo stesso dell’israeliano Rabin per giustificare la sua stretta di mano con Arafat.
Per un altro decennio, dal 2007 al 2017, la pace nord-irlandese ha sostanzialmente funzionato. Gli irriducibili nemici hanno governato insieme a Belfast, imparando non solo a parlarsi senza intermediari ma persino a ridere e scherzare insieme. L’Unione europea ha inondato di soldi l’Irlanda, quella repubblicana del Sud e lo spicchio ancora monarchico e britannico del Nord. Pace e benessere hanno gradualmente cambiato l’isola. Questa piccola nazione di emigranti ha cominciato ad attirare immigrati. Dublino si è riempita di grattacieli e – con l’incentivo dei benefici fiscali – di quartier generali dei giganti della rivoluzione digitale: Facebook, Google, Apple, Amazon. Il Paese che aveva la fama di essere il più tradizionalmente cattolico d’Europa non va più in chiesa con la frequenza del passato, mette sotto accusa cardinali e prelati per lo scandalo degli abusi negli orfanatrofi, approva commosso la legge sul matrimonio gay, si accinge a votare in maggio in un referendum per abrogare il divieto di aborto: con un nuovo primo ministro, Leo Varadkar, giovane, gay e figlio di un immigrato indiano. Chi avrebbe immaginato tutto questo?
La stessa Belfast, una volta sinonimo di barricate, oggi somiglia a un quartiere globalizzato di Londra. Autobus rossi a due piani e “black cab” identici ai taxi della capitale britannica portano carovane di turisti a fotografare i truci murales dell’ultimo muro d’Europa. L’Irlanda non sembra più quella dello stereotipo, terra di cavalli, dinamitardi, preti e scrittori. Ne ha avuti tanti e grandissimi, di scrittori, questa piccola terra abitata da un piccolo popolo: l’autore dell’Ulisse, Samuel Beckett, William Yeats, per citare tre capostipiti. E tanti contemporanei. «Dublino e Belfast distano appena un’ora e 40 di macchina», dice una di loro, Catherine Dunne. «Io abito in Irlanda, i miei parenti in Irlanda del Nord, ci facciamo visita di continuo senza nemmeno più renderci conto che c’è un confine». L’unico modo per accorgersene è badare ai cartelli stradali sui divieti di velocità, a un certo punto non più in chilometri, ma in miglia. «Certo, qualcuno può sognare un’Irlanda unificata», continua l’autrice del bestseller “La metà di niente” e molti altri romanzi, «ma quanto sangue è stato versato, quanto dolore consumato, per quel sogno? Ora a Nord e a Sud del confine è più importante per tutti avere la pace, il lavoro, un domani sicuro per i nostri figli». Sul lato opposto della frontiera, a Belfast, un altro scrittore, Sam Millar, ex guerrigliero dell’Ira, scappato  in America per fuggire alla prigione, condannato a New York per una delle più grande rapine in banca nella storia americana (la gang era tutta di irlandesi), graziato da Clinton l’ultimo giorno di presidenza e tornato in patria a scrivere thriller autobiografici, dice qualcosa di simile: «Avrei dato la vita per l’Irlanda unita. Non sono sicuro che la vedrò io, ma sono sicuro che la vedranno i miei figli. Ma la vedranno come risultato di un processo politico. Non di un’insurrezione armata, come credevo da giovane».
Quindi è giunta la Brexit. Nel nuovo ufficio della sua fondazione a Londra, a due passi dalla
l’architetto della pace nord-irlandese la ritiene un pericolo mortale. «Non c’è mai stata una situazione in cui Irlanda e Irlanda del Nord erano una dentro e una fuori dalla Ue», osserva Tony Blair. «Prima erano entrambe fuori. Poi sono state entrambe dentro. Avere l’Irlanda nella Ue e l’Irlanda del Nord fuori è una minaccia alla pace. Una miccia sotto le ceneri della guerra civile. Che può riaccenderla». La Brexit diventerà, come si augura Gerry Adams, lo strumento per realizzare l’unificazione irlandese? «Non ne sono certo», frena l’ex premier laburista, «ma ne aumenta le chances. Capisco perché Adams e i repubblicani sentono crescere questa possibilità. L’Unione europea è stata la cornice dell’accordo di pace. Deposte le armi, accresciuto il benessere, non era più così importante stabilire se un cittadino era irlandese o nord-irlandese. Era prima di tutto europeo». Il passaporto della Ue è uguale a Dublino come a Belfast. Un nord-irlandese britannico può avere doppia cittadinanza, prendendo anche quella della repubblica d’Irlanda, e viceversa. La lingua che parlano è la stessa. Il confine è invisibile. «Senza la Ue, tutto questo si modifica», afferma Blair. «Nella mente della gente ancora prima che nelle norme». Come minimo, per tenere aperta la frontiera e mantenere l’impressione o l’illusione che l’isola sia già unita, l’Irlanda del Nord dovrebbe rimanere nel mercato comune e nell’unione doganale: questo prevede in teoria l’accordo raggiunto nel dicembre scorso fra il governo britannico e i negoziatori della Ue. «Ma è un accordo volutamente ambiguo », sostiene l’ex primo ministro, «destinato a vanificarsi quando dovrà passare dalla teoria alla pratica». Non ha torto. Arlene Foster, la leader del Democratic Unionist Party (Dup), il partito unionista nord-irlandese che ha spartito il governo a Belfast insieme allo Sinn Fein (fino a un anno fa, quando la Brexit ha messo fine all’intesa), ingoia il boccone appunto perché è ambiguo. «Se l’Irlanda del Nord resta nel mercato comune e nell’unione doganale, mentre il resto della Gran Bretagna ne esce, sarebbe come riconoscere che si è riunificata con la repubblica irlandese, che l’Irlanda del Nord non è più Gran Bretagna», avverte Foster. «E noi non lo permetteremo». Ha i mezzi per impedirlo: senza il voto del suo drappello di una decina di deputati, il governo di Theresa May cadrebbe, ci sarebbero nuove elezioni nel Regno Unito e secondo i sondaggi le vincerebbe il laburista Jeremy Corbyn. Beninteso, la leader del Dup non vuole neanche questo: per gli unionisti nord-irlandesi, Corbyn è “l’amico dell’Ira”, di cui ha sempre appoggiato la causa. E d’altra parte, alleandosi con il Dup, il governo britannico ha perso il ruolo di arbitro imparziale che aveva cercato di assumere negli ultimi vent’anni in Irlanda del Nord. Dal dilemma non si intravede via d’uscita. Sembra il zugzwang degli scacchi: la posizione in cui, qualunque mossa fai, subisci scacco matto. «No, una soluzione esiste ed è l’unica che consente di avere un governo congiunto a Belfast, un’Irlanda del Nord pacificata e un Regno Unito che non rischia di perdere pezzi», insiste Blair. «È la rinuncia alla Brexit. Perciò continuo a sperare in un secondo referendum. Cambiare idea, davanti a una migliore valutazione dei fatti, non è antidemocratico, è l’essenza stessa della democrazia. E fino all’ultimo minuto possibile mi batterò affinché il popolo britannico abbia l’opportunità di tornare a votare, scongiurando il peggiore errore politico della nostra storia». Nel frattempo, ogni sera dopo il tramonto, quando in giro non si vedono più turisti, le porte metalliche del muro di Belfast vengono richiuse ermeticamente. Cattolici di qua, protestanti di là. Si riapre all’alba. Per stare nel sicuro.
Pioviggina. Sulla strada da Belfast a Dublino, la stessa che la scrittrice Catherine Dunne percorre per visitare la sorella, sorge una fattoria come tante. Non dissimile da quella in cui due militanti dell’Ira portarono Jonathan Powell a negoziare in segreto con Gerry Adams, una notte di vent’anni fa. La frontiera invisibile fra le “due Irlande” è a una manciata di chilometri. Ai lati del nastro d’asfalto, pecore brucano l’erba senza sapere se è britannica o irlandese. «Se su questa linea di confine torneranno i posti di blocco, diventeranno obiettivi per attacchi repubblicani», predice George Hamilton, il capo della polizia nord-irlandese. Nei fienili che punteggiano la campagna, l’alto ufficiale ne è consapevole, sono nascoste abbastanza armi per ricominciare la guerra civile. La stessa guerra che davanti a questa fattoria vide cadere tre fratelli cattolici all’epoca dei Troubles, come ricorda un memoriale: John, Brian e Anthony, 24, 22 e 17 anni, “massacrati dai paramilitari”, informa una targa di marmo. «Erano i miei fratelli», dice Eugene, il solo sopravvissuto, perché andò a giocare a pallone. Abita ancora da queste parti. Viene quotidianamente a lucidare il monumento ai suoi fratelli. «La pace fu firmata il Venerdì Santo della Pasqua 1998», sospira, «e noi aspettiamo ancora il sabato della Resurrezione. Ma sento che si avvicina. Sento che quel giorno si avvicina». Tutto intorno, prati verde smeraldo, placide mucche, morbide colline: l’Irlanda eternamente bagnata di pioggia. D’un tratto, l’insistente acquerugiola s’interrompe, fra le nubi sbuca il chiarore e una magica luce addolcisce l’orizzonte. «Ogni volta che attraverso il canale del Nord ed entro in Irlanda comincia a piovere», amava ripetere Tony Blair nei frequenti viaggi del negoziato. «Ma vale la pena sopportarlo. Perché poi, quando viene fuori il sole, è ancora più bello».

La Stampa 2.3.18
Israele
Nuova inchiesta su Netanyahu, interrogato con la moglie
Sospetti favori da milioni di shekel al sito news di una compagnia telefonica
di Giordano Stabile

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La Stampa 2.3.18
Il business della cannabis che fa rinascere il Quebec
Il Paese ha legalizzato la marijuana per uso terapeutico nel 200
Il piccolo paese di Weedon ora mette a disposizione 13 acri per la coltivazione e così spera si uscire dalla crisi economica che l’ha colpito
di Stéphanie Fillion

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La Stampa 2.3.18
Belzoni, l’italiano che svelò il segreto di Cheope
Era il 2 marzo 1818 quando il protoegittologo padovano apriva la seconda piramide della piana di Giza. Giusto duecento anni fa quest’oggi. Ecco la sua storia.
di Marco Zatterin

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La Stampa 2.3.18
Parlare nel sonno: lo fanno soprattutto gli uomini e con tono rude
Studio francese: la parola più pronunciata è «no». E non sempre i destinatari degli eventuali insulti sono identificabili
Il somniloquio è la propensione a parlare nel sonno: a farlo sono soprattutto i bambini, ma anche gli adulti, specie quelli sotto stress o in preda a stati febbrili
di Angela Nanni

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Corriere 23.18
La collana Parte oggi in edicola con il quotidiano la serie sui protagonisti del primo conflitto mondiale
Il destino di Vittorio Emanuele III Successi e disastri del «re soldato»
Ebbe un ruolo importante nella Grande guerra, specie dopo Caporetto
Ma poi si condannò alla rovina facendosi complice della dittatura fascista
di Paolo Rastelli


«O Badoglio, Pietro Badoglio, ingrassato dal fascio littorio, col tuo degno compare Vittorio ci hai già rotto abbastanza i coglion…». Così cantavano nel 1944 i partigiani della brigata Carlo Rosselli (Giustizia e Libertà), mettendo nello stesso calderone ribollente di disprezzo il vecchio maresciallo d’Italia e il re Vittorio Emanuele III, colpevoli della catastrofe dell’8 settembre.
Per quanto riguarda il sovrano, allora 75enne (era nato l’11 novembre del 1869), l’ironia della sorte non avrebbe potuto essere più grande. Soprannominato il «Re soldato» per il comportamento sobrio e dedito al dovere durante la Prima guerra mondiale, era poi diventato uno dei simboli della più grande sconfitta politico-militare di tutta la storia italiana e della bancarotta di un ventennio di regime fascista, al quale aveva consentito di impadronirsi dello Stato. Bersaglio di un odio forse superiore a quello tributato al Duce, Benito Mussolini, come hanno dimostrato anche di recente le polemiche per il ritorno in patria, nel dicembre del 2017, della salma ora tumulata nel santuario di Vicoforte (Cuneo), mentre Mussolini riposa tranquillamente nella tomba di Predappio, meta di pellegrinaggi nostalgici senza che nessuno protesti più di tanto.
Un personaggio divisivo, dunque, e ancora in grado di risvegliare passioni anche violente. Appare quindi indovinata la scelta di far partire con una biografia di Vittorio Emanuele III, firmata dallo storico Pierangelo Gentile, il ciclo di volumi che il «Corriere della Sera» dedica ai personaggi, alle armi e alle tattiche della Grande guerra.
L’Italia entrò nel primo conflitto globale soprattutto per l’opera congiunta di una minoranza rumorosa di interventisti e di un partito bellicista che ebbe nel sovrano e nella corte i suoi massimi esponenti, capaci di fare sponda con le ambizioni del governo, dell’epoca guidato da Antonio Salandra e con Sidney Sonnino titolare del ministero degli Esteri. Una parte della critica storica, a proposito delle roventi giornate che vanno dal 4 maggio (denuncia della Triplice Alleanza che univa l’Italia alla Germania e all’Austria-Ungheria) al 24 maggio 1915 (inizio delle ostilità contro Vienna), ha parlato di un quasi-colpo di Stato, una specie di prova generale di quanto sarebbe poi successo nell’ottobre 1922 con la presa del potere da parte del fascismo.
Di certo ci fu una spinta da parte di governo e sovrano nei confronti di un Parlamento ancora in gran parte pacifista e neutralista. Ma non bisogna scordare che lo Statuto albertino del 1848, legge fondamentale del Piemonte risorgimentale e poi dell’Italia sabauda, all’articolo 5 assegnava solo al re il potere esecutivo e così ne delineava le competenze: «Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune».
L’articolo 5 fu forzato parecchio. Ma parlare di colpo di Stato, cioè di sovvertimento totale della legge, appare francamente eccessivo. Del resto lo stesso Giovanni Giolitti, uomo simbolo dei neutralisti, si rese conto che c’era poco da fare, come scrisse poi nelle sue memorie: «Io sono monarchico convinto e, se mi fossi messo a capo della maggioranza neutralista, sarebbe saltata la monarchia, e questo allora mi sembrava essere il guaio maggiore».
Una volta dichiarata la guerra, Vittorio Emanuele III divenne con la massima tranquillità il primo soldato del Regno. Definizione agiografica, senza dubbio, e strumentale alla sacralità di una figura regale in cui i fanti contadini, ancora in gran parte distanti dal sentirsi parte di una compagine nazionale, potessero riconoscersi. Ma sicuramente con forti agganci alla realtà, vista la vita regolata, aliena da ogni sfarzo e protagonismo, nonché rispettosa delle gerarchie e delle attribuzioni del Comando supremo in mano a Luigi Cadorna, che il sovrano decise di condurre. Lunghi giri con la macchina fotografica, ispezioni, pasti frugali, udienze, lettura dei dispacci.
Ma quando fu il momento, con l’esercito italiano sconfitto a Caporetto, Vittorio Emanuele III seppe prendere in mano le redini del Paese, risolvendo la crisi politica seguita alla sconfitta con l’incarico di formare il governo assegnato a Vittorio Emanuele Orlando e poi assicurando agli alleati, al convegno di Peschiera, che l’esercito italiano avrebbe continuato a battersi.
C’è una gustosa scenetta, descritta anche nel volume di Gentile, tra il re e il suo aiutante Solaro del Borgo, che si incontrano sul treno che riporta il sovrano da Roma al fronte: «Scortomi nel corridoio del vagone, Sua Maestà mi domandò in piemontese: “Cosa ca pensa?” (Cosa sta pensando?). Risposi: “Maestà, dop la pieuva a ven sempre el bel temp!” (Maestà, dopo la pioggia viene sempre il bel tempo). Lessi nei suoi occhi l’approvazione; ed afferratomi il braccio, disse: “A l’è parei ch’un dev pensé” (È così che si deve pensare)». Fu il suo momento più bello.

Corriere 2.3.18
Il grande albero dell’umanità
La genealogia di 5 secoli (e 13 milioni di persone) è la più ampia mai ricostruita
Lo studio grazie al Dna
di Anna Meldolesi


Antenati, che passione. Dopo un periodo di disaffezione generale per radici e legami familiari, è tornata di moda la genealogia ed è diventata digitale. Raccogliendo informazioni dai cimeli conservati in soffitta e dalla voce dei parenti più anziani, difficilmente si risale molto indietro nel tempo. Senza contare il fatto che gli alberi genealogici fai-da-te sono pieni di buchi. Per rimediare si possono consultare i registri ecclesiastici e i vecchi annunci funebri pubblicati sui giornali, ma si tratta di procedimenti laboriosi. Per fortuna oggi disponiamo di social media specializzati, in cui frotte di genealogisti amatoriali condividono la propria storia familiare, e possiamo sfruttare la computer science per ripulire e organizzare i dati. È proprio così che è stato ricostruito l’albero genealogico più grande del mondo, presentato oggi su Science .
A saperlo leggere, è capace di raccontare la storia di tredici milioni di donne e uomini vissuti negli Stati Uniti e in Europa, Italia compresa. Si tratta di un’unica enorme famiglia, più numerosa della popolazione della Lombardia. Al di là dell’exploit tecnico e delle cifre da record, è emozionante pensare di avere davanti agli occhi un compendio di tante vite, scandite da nascite, amori, migrazioni, tragedie.
Dietro alla fredda eleganza dei grafi, con tutte quelle linee colorate, ci sono miriadi di intrecci umani che coprono la bellezza di undici generazioni. Tutti insieme rappresentano un viaggio di 500 anni nel tempo e nello spazio. Dalle caravelle di Colombo alla rivoluzione industriale, dalla Guerra civile americana ai due conflitti mondiali.
L’autore principale dello studio è Yaniv Erlich, specialista di scienze informatiche alla Columbia University e direttore scientifico della società che gestisce il sito web Geni.com. Proprio questo database, che si fonda sulla condivisione volontaria di dati, è servito a scaricare 86 milioni di profili pubblici. Ne sono scaturiti alcuni alberi più piccoli e il mega albero da tredici milioni di persone. Per riunirli tutti in uno, arrivando all’ultimo antenato comune, bisognerebbe retrocedere di altre 65 generazioni.
Le vicissitudini delle persone riflettono i cambiamenti sociali e le trasformazioni economiche, oltre ai rispettivi bagagli genetici. Dall’analisi dei ricercatori emerge, ad esempio, che la recente tendenza a sposarsi poco tra parenti stretti è legata a questioni culturali, più che alla maggiore facilità degli spostamenti.
È curioso scoprire, comunque, che prima del 1750 la maggior parte degli americani trovava una sposa nel raggio di dieci chilometri dal luogo natale, mentre la distanza si è estesa a cento chilometri per i nati nel 1950. «Incontrare l’amore della vita è diventato più difficile», ha commentato Erlich scherzando. Prima del 1850 erano comuni le nozze tra cugini di quarto grado, mentre oggi di solito si arriva al settimo. È interessante notare che le donne negli ultimi 300 anni si sono spostate più degli uomini, anche se i maschi, quando emigravano, si spingevano molto più lontano.
I ricercatori hanno colto l’occasione anche per fare qualche calcolo di tipo genetico, confrontando la durata della vita e i gradi di parentela. La loro conclusione è che i geni contribuiscono solo per il 16% alla variazione della longevità osservata, mentre stime precedenti ipotizzavano un peso ben maggiore. Ereditare un buon dna, secondo gli ultimi calcoli, in media prolungherebbe il nostro soggiorno sulla Terra di circa cinque anni. Non molto, se si pensa che basta fumare per perderne dieci.