La Stampa 1.3.18
Nella Slovacchia che ha scoperto la mafia
“Ora abbiamo paura”
I colleghi del cronista ucciso per le inchieste: “In molti lasciano”
Tre arresti, dimissioni nel governo. Giallo su un italiano in fuga
di Monica Perosino
«Talian»,
l’italiano, vive in una piccola cittadina slovacca quasi al confine con
l’Ungheria. La villetta di «Nino, l’italiano» pare una fortezza
piantata in un’altrimenti tranquilla e borghese area residenziale.
Circondata da un alto muro intonacato di giallo, protetta da cancellate
in ferro e telecamere, si può solo intuire la Lamborghini bianca
parcheggiata oltre la staccionata. Da tre giorni la casa sembra
disabitata. Nessuno risponde al telefono, né al citofono. Le luci sono
spente.
È di fronte a questo cancello chiuso, quello della villa
di Antonio Vadalà, che è partita e si è fermata l’inchiesta del
giornalista Ján Kuciak, 27 anni, ucciso con un colpo di pistola al petto
mentre era in casa sua, assieme alla fidanzata, Martina Kusnirova, tra
giovedì e domenica sera. I corpi sono stati trovati lunedì mattina.
L’inchiesta di Ján, mai finita, è stata pubblicata ieri da Aktuyality.sk
e dai suoi affiliati. «Più persone sanno - dicono i colleghi di Jan -
più al sicuro siamo. Non possono ucciderci tutti». Con la redazione
presidiata dalla polizia, la scrivania vuota del collega ucciso, tra
fiori, candele e messaggi, c’è chi non ce la fatta: «Alcuni hanno avuto
paura, si sono dimessi dal gruppo d’inchiesta». Più delle vendette degli
oligarchi, della mafia russa, della turbolente vicina Ucraina, quello
che gli slovacchi non credevano di dover temere era la ‘ndrangheta
italiana. Ma ecco che un giornalista viene ucciso. È la prima volta
nella storia del Paese. E la polizia, scartate le prime ipotesi di
omicidio-suicidio (impossibile per la dinamica balistica) o che il vero
obiettivo fosse la fidanzata Martina (archeologa), ha ribadito ieri sera
che il giornalista è stato ucciso a causa del suo lavoro, e la «pista
italiana» è quella più credibile. Ed è così che, la Slovacchia, il
giovane Paese nato dalla Rivoluzione di velluto, si è riscoperta terra
di conquista dei clan.
Ieri è arrivata la notizia che tutti
aspettavano, una prima traccia dopo 72 ore: tre persone sono state
fermate dalla polizia. Sono spacciatori che, in un’intercettazione,
parlano di «prendere le armi per andare a Velká Maca», il paese dove
abitava Ján Kuciak. E sempre ieri sono cadute le prime teste a
Bratislava: oltre alle dimissioni del ministro della Cultura, hanno
fatto un passo indietro dall’ufficio del governo i due coinvolti
nell’inchiesta del giovane reporter: Maria Troskova, e il segretario del
consiglio di sicurezza Vilian Jasan, anche lui indicato come vicino
all’imprenditore italiano che farebbe parte dell’orbita `ndranghetista. I
due negano: «Si sta facendo abuso dei nostri nomi nella lotta contro il
primo ministro Fico». Quanto al ministro della Cultura Marek Madaric,
le sue dimissioni poggiano su altri motivi: «Dopo quello che è successo
non posso rimanere calmo seduto nella mia poltrona». A Bratislava in
molti sono scesi in piazza, manifestazioni commosse con accuse al
governo.
I fondi europei
Fino a poche ore prima della morte
Ján Kuciak stava lavorando a una corposa inchiesta sul pagamento
fraudolento di fondi Ue a italiani residenti in Slovacchia con presunti
legami con la ’ndrangheta calabrese. Di favori e affari tra persone
vicine al governo e imprenditori dalle attività quantomeno sospette, di
sostegni elettorali garantiti in cambio di protezione. Sul piatto, tra
l’altro, i fondi europei per l’agricoltura e le energie rinnovabili: 2
miliardi Ue per lo sviluppo rurale (2014-2020), 6 milioni per le energie
alternative, e oltre 8 milioni di euro slovacchi «dissolti» nelle mani
delle famiglie nel 2015-2016. Un bottino ghiotto per i calabresi, che
improvvisamente diventano imprenditori agricoli e businessmen devoti al
fotovoltaico. Ján Kuciak punta il dito su quattro famiglie nell’orbita
della criminalità calabrese, con le mani in pasta soprattutto
nell’agricoltura, nel fotovoltaico, nel biogas e nell’immobiliare.
Decine e decine di società, aperte e poi chiuse e centinaia di
certificati di proprietà di terreni agricoli per i quali avrebbero
ricevuto fraudolentemente sussidi.
Le famiglie
Alla testa
sempre gli stessi nomi: Vadalà, Rodà, Catroppa e Cinnante. Vicini, più o
meno strettamente, ai clan calabresi. E vicini, chi più chi meno, al
mondo politico slovacco.
Dopo anni di affari passati inosservati
in Slovacchia, è Antonio Vadalà a «mettersi più in luce». In passato,
confermano fonti investigative di Bratislava, era stato coinvolto in
episodi «minimi» e mai appurati. Una frode immobiliare che aveva fatto
svanire 80 mila euro di Iva. Alcuni dipendenti di una ditta agricola di
Trebisov, concorrente di Vadalà, che subiscono minacce «particolari»:
corone mortuarie e proiettili di fronte ai cancelli. Vadalà compare
anche nelle carte di un’altra inchiesta, questa volta in Italia, nel
2003, che si apre proprio nel periodo del suo trasferimento in
Slovacchia e che proverebbe i suoi legami più che stretti con il clan. È
solo nel 2011 che Vadalà fa il salto e diventa socio di Maria Troskova,
ex modella, e oggi consigliera del premier Fico. Con lei fonda
un’azienda, una delle 40 elencate nel registro delle imprese di
Bratislava, e di cui risulta titolare l’italiano.
Ma è la famiglia
Rodà che i piedi in Slovacchia li mette per prima, con Pietro Rodà
coinvolto già nel 2007 nell’operazione «Ramo spezzato», che aveva
smantellato un commercio fraudolento di bestiame tra Italia e
Slovacchia. Oggi, è un altro Rodà, il fratello Diego, a prendersi la
ribalta, oltre che per le sue attività come «imprenditore agricolo» per
la sua collezione di Ferrari e per la mania di parcheggiarne una in
salotto.