giovedì 15 marzo 2018

La Stampa 15.3.18
Le grandi manovre degli imperi
Ecco come Mosca e Pechino sfidano le democrazie in difficoltà
L’autoritarismo illuminato di Xi Jinping e quello ottuso di Putin incalzano l’Occidente alle prese con la crisi del modello liberale
di Robert Kaplan


Da migliaia di anni la tragedia della politica è che l’impero offre una soluzione al caos. L’imperialismo, come afferma lo storico di Oxford John Darwin, «è stato storicamente quasi sempre l’organizzazione politica predefinita», perché le capacità necessarie per costruire Stati forti, per ragioni geografiche, non erano mai equamente distribuite, così che di solito emergeva un gruppo etnico dominante.
Tuttavia, poiché la conquista contempla arroganza, militarismo, espansionismo e calcificazione burocratica, l’atto stesso di costruire un impero porta in sé, secondo il filosofo tedesco Oswald Spengler, la decadenza e il declino culturale. Gli imperi (in particolare quello britannico e quello francese) non furono mai così scontati come prima del loro crollo. Ma se l’impero è la norma, anche se destinato a finire tragicamente, si può sostituire all’impero qualcosa che sia duraturo? La «Nuova via della seta» cinese, la campagna di sovversione russa nell’Europa Centrale e Orientale, l’Unione europea e l’ordine mondiale liberale a guida americana sono tutti tentativi di risolvere il problema. La strategia globale, un argomento che ossessiona le élite politiche, è essenzialmente questo, la ricerca di un modo per evitare la trappola dell’impero.
Cina: autoritarismo illuminato su base geografica
A grandi linee la Cina e la Russia rappresentano un modo per affrontare il problema; l’Unione europea e gli Stati Uniti un altro. Entrambi i modelli hanno i loro punti di forza e di debolezza. La Cina e la Russia sono eredi di tradizioni imperiali anti-democratiche legate alla terra. I loro tentativi di espansione affondano le radici nella geografia e non negli ideali.
I leader cinesi vivono con la consapevolezza che l’Asia, all’inizio dell’età moderna, durante le dinastie Ming e Qing (dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo), era più stabile con un sistema di tributi imperiali di quanto lo fosse l’Europa. Poiché l’imperialismo cinese garantì all’Asia una relativa pace per diversi secoli con un sistema per lo più accettato, i leader cinesi oggi non vedono nulla di sbagliato nel loro tentativo di essere ancora una volta i supervisori della regione, cosa che intendono semplicemente come il ripristino dell’armonia regionale sotto una nuova e molto più sfumata versione dell’ordine imperiale.
La Cina non è una democrazia, ma non è nemmeno totalitarista. Questo è esattamente il suo fascino. Il suo autoritarismo - in cui l’ordine è garantito, la politica è prevedibile, e i dibattiti si svolgono tra la leadership, i think thank di Pechino e la popolazione nel suo insieme - dà vita a un regime che etichettiamo semplicisticamente in termini manichei come dittatura.
Inoltre, l’idea del leader cinese Xi Jinping di ripristinare l’armonia regionale rappresenta il genere di fine superiore che ha tradizionalmente definito gli imperi di successo e le loro varianti. La «Nuova via della seta», che segue i percorsi delle dinastie cinesi medievali e collega la Cina con l’Iran e l’Europa, offre all’Asia Centrale e al Medio Oriente una visione di speranza, che potrebbe mitigare il loro isolamento geografico, la povertà e l’instabilità.
Noi pensiamo che la Cina rappresenti una sfida economica. È qualcosa di più. È una sfida filosofica perché il suo sistema unico, almeno in questo frangente, assicura al proprio popolo e ai vicini politiche di sviluppo affidabili e concrete. Xi non è esattamente un dittatore: è una specie di dittatore, che può ancora offrire al suo popolo una certa dose di libertà personale e di crescita economica evitando l’anarchia. Questa è la seduzione dell’autoritarismo con cui abbiamo a che fare. Ed è così anche se Xi ha abolito i limiti temporali del suo mandato. La Cina ha ancora punti di forza istituzionali che mancano alla Russia, e il governo di Xi è ancora lontano dall’assolutismo di Saddam Hussein o degli Assad in Siria.
La Cina non può farci nulla. Il suo dinamismo in questo decennio potrebbe portare il sistema della «Nuova via della seta» ad espandersi nel prossimo decennio a un ritmo insostenibile per un’economia cinese in decelerazione. La Cina potrebbe assomigliare ancora troppo a un regime imperiale tradizionale per sopravvivere.
Russia: un autoritarismo ottuso su base geografica
I russi possono ben avere la mano pesante con i loro teppisti mascherati e armati in Ucraina, ma fanno affidamento sul dominio cibernetico per sovvertire i governi democratici, un metodo poco costoso e facilmente negabile. Inoltre, non stanno cercando di ricreare nell’Europa Centrale e Orientale il Patto di Varsavia, che aveva tutta l’arroganza e gli altri inconvenienti dell’imperialismo tradizionale; concentrano solo lì la loro forza distruttiva.
In Siria sono stati attenti a non introdurre truppe di terra in numeri significativi. Si sono dimostrati aggressivi con i loro vicini più prossimi; ma ugualmente cauti. Mirano a recuperare l’intera geografia sovietica, ma senza i rischi e le spese dell’impero. Cercano influenza; non conquista diretta. Questa è una strategia post-imperiale intelligente. Ma il progetto post-imperiale di sovversione nell’Europa Centrale e Orientale del presidente russo Vladimir Putin, benché rispettoso dei confini, rivela l’ossessione di abbattere le democrazie liberali senza alcuna superiore finalità - cosa che non gli permette di vedere la minaccia messa in atto dalla Cina alle porte di casa - come se le sue campagne di guerra cibernetica fossero guidate da poco di più del risentimento per il modo in cui è finita la Guerra Fredda.
E senza uno scopo superiore a guidarlo, il suo imperialismo a basso contenuto calorico sarà alla fine sconfitto. La storia ci ha ripetutamente dimostrato che, affinché l’imperialismo duri, deve, almeno nelle intenzioni, avere un obiettivo più alto, civilizzatore. La Cina resta saldamente in questa tradizione; La Russia no. La Russia non è sostenuta da istituzioni forti, come la Cina; e non offre la speranza di uno sviluppo economico come la «Nuova via della seta» cinese. Ecco perché, a differenza della Russia, la Cina ci pone una sfida. La differenza tra un tipo di autoritarismo e un altro a volte può essere tanto grande quanto la differenza tra autoritarismo e democrazia.
Ue, impero virtuale
L’Unione europea è la risposta più innovativa all’impero. L’enfasi sulla legalità e sui piccoli Stati la libera dall’imperialismo tradizionale, osserva lo storico di Yale Timothy Snyder. Eppure, aggiunge, il passato dell’Europa è quasi interamente imperiale e quindi molti Stati in Europa, in particolare nell’Est, non hanno futuro se non sotto l’egida dell’Unione europea, le cui dimensioni e diversità sono comunque di grandezza imperiale.
In effetti, l’Unione europea è il vero successore del cosmopolitismo degli imperi asburgico e ottomano, e quindi ha il potenziale per adempiere alla funzione dell’impero in tutto il Continente senza necessariamente cadere preda delle sue debolezze. Ma di fronte alla versione russa del post-imperialismo, l’Ue non può provvedere interamente alla propria sicurezza. Questo è in definitiva il lavoro degli Stati Uniti.
Eppure l’Unione europea, a causa della crisi del debito seguita dall’ondata di nazionalismo populista, ha imparato una certa umiltà, meglio evidenziata dal primo ministro italiano Paolo Gentiloni a Davos, che ha messo in guardia i colleghi europei dall’«arroganza di un’élite digitale cosmopolita». E, pur denunciando il nazionalismo, i suoi colleghi Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno entrambi parlato a Davos di lavorare per dare una risposta a chi ne è attratto. Adesso si rendono conto che solo rendendo Bruxelles meno remota e burocratica, la sovrastruttura quasi imperiale dell’Unione europea può sopravvivere. L’Unione europea potrebbe trovarsi in una posizione migliore per padroneggiare il futuro a causa della sua esperienza di pre-morte.
Là dove l’autoritarismo russo è inseparabile dal gangsterismo e quindi non è un modello per il futuro, e il sistema cinese funziona proprio grazie al suo originale mix di libertà personali e repressione politica, l’Unione europea può sopravvivere solo diventando una democrazia non elitaria, pur mantenendo il suo forte elemento burocratico.
Sono cruciali a questo punto mirati aggiustamenti. Questo nuovo secolo di geopolitica che è seguito a un secolo di ideologia richiede che le differenze tra i vari sistemi in competizione siano più sottili che durante la Seconda guerra mondiale e la Guerra Fredda.
Usa destinati a guidare?
L’ordine mondiale liberale a guida americana, almeno fino all’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, è rimasto ben saldo nei suoi valori universali. Ma questo non lo rende automaticamente post-imperiale. Perché nelle menti dei suoi praticanti, l’imperialismo è stato spesso una missione edificante e civilizzatrice. In effetti, la Guerra Fredda era una lotta tra due imperi, sebbene si definissero altrimenti. L’ordine americano, inoltre, proprio perché attraversa gli oceani, richiede grandi spese militari. E questo, secondo molti storici, porta al declino dell’impero. Le invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan e le operazioni delle forze speciali in Siria hanno avuto tutte le caratteristiche delle spedizioni imperiali, perché invadere un territorio significa governarlo.
Naturalmente, l’America deve difendere i suoi valori in luoghi remoti, ma deve farlo in modo da non appesantire il fronte interno con spese militari e morti. Questo è più difficile di quanto sembri, dal momento che le guerre per scelta possono apparire inizialmente come guerre di necessità.
Negli Stati Uniti, il presidente Trump ha de-enfatizzato le guerre di stampo imperiale in Medio Oriente, preferendo sconfiggere l’Isis senza cercare di rovesciare il dittatore siriano Bashar al-Assad. Nondimeno, con i suoi richiami al protezionismo e una definizione molto stretta degli interessi americani, ha svuotato la politica estera americana di qualsiasi scopo reale ed edificante - un altro sicuro segno di declino. Inoltre, la sua adorazione per l’esercito unita alla decimazione del corpo diplomatico ricorda il destino di tutti gli imperi militari, facendo tornare alla mente la descrizione dell’antica Assiria dello storico britannico Arnold Toynbee: un «cadavere con l’armatura».
Gli Stati Uniti sono a un bivio, solo se riescono a trovare la propria personale declinazione del quasi-imperialismo, saranno ancora destinati ad avere un ruolo di guida. Eppure, per la prima volta in tre quarti di secolo, l’America sembra priva di una grande idea capace di motivare il mondo. Questo, più di ogni altra cosa, mette gli Stati Uniti in pericolo.
Conclusioni
Non dovremmo dare per scontato che la democrazia liberale rappresenti l’ultima parola nello sviluppo politico-umano. Il sistema che trionferà sarà quello che saprà offrire più dignità ai suoi cittadini e più speranza per i soggetti e gli alleati esterni. In effetti, viviamo un momento di autoritarismo non tanto per la Russia quanto per la Cina, il cui successo economico e la strategia globale ben orchestrata - così reminiscente dell’impero - non si basano sul suffragio universale. Ma la domanda più profonda si trova dentro di noi.
L’America era una democrazia ispiratrice nell’era della stampa e della macchina per scrivere. Lo stile autoritario di Trump è un’aberrazione - o il prodotto di una nuova e volgare età del video digitale, la cui enfasi su diverse narrazioni incoraggia la divisione e aggira la verità oggettiva? Se è questo il caso, allora il modello cinese di severa repressione interna potrebbe rivelarsi il naturale successore dell’impero. Eppure, con tutto il suo fascino, questa è una trappola che preannuncia sia un’epoca illiberale che il declino non solo dell’America, ma dell’Occidente in generale. Quindi dovremmo considerare l’autoritarismo illuminato come una sfida; non come un destino.
traduzione di Carla Reschia

Il Fatto 15.3.17
Scuola, la catena del sapere spezzata
I professori. Negli ultimi decenni è passato il principio in base al quale si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa. Così i contenuti si perdono, l’insegnamento diventa un rituale burocratico
di Salvatore Settis


Fra i tanti vaccini in giro, manca proprio quello oggi più urgente: il vaccino contro la politica personalistica, una peste berluscon-renziana. Se lo avessimo (e in dosi massicce) potremmo salvarci, tra l’altro, dal frivolo gioco di società detto “toto-ministri”. Quasi che, trovato il ministro, si risolvessero d’incanto i problemi dell’economia, della cultura, dell’ambiente, della sanità.
Ma anche i migliori esperti non hanno virtù taumaturgiche, e nulla potranno fare senza un progetto complessivo, un’idea di futuro. Dovremmo dunque concentrare l’attenzione non sulle persone ma sui problemi, sulle cose da fare. Per esempio, la scuola. Funestata, nei discorsi correnti, da un bivio paradossale: da un lato, c’è chi sostiene che la scuola italiana è arretrata, sotto le medie Ocse e così via; dall’altro, chi pensa che la scuola italiana, per la formazione ad ampio ventaglio che offre nei licei, sia la migliore del mondo, e che le recenti riforme l’abbiano solo peggiorata. Confrontare le ragioni degli uni e degli altri sarebbe dunque indispensabile. Ma proviamo a prendere il discorso da un terzo punto di vista, quello delle generazioni future. Quale Italia ci aspettiamo da loro (o meglio: loro da noi), e da quale scuola?
Per millenni, tutte le culture umane hanno elaborato e trasmesso conoscenze. Lo hanno fatto nelle famiglie, nelle botteghe artigiane, nei templi, nelle caserme, negli ospedali, per le strade, nelle scuole. Il cuore di questo meccanismo di trasmissione della conoscenza è sempre stato il rapporto fra le generazioni: i più giovani hanno imparato qualcosa dai meno giovani. Ci sono sempre stati buoni maestri, quelli che praticano con passione e impegno il proprio mestiere e sanno comunicare ai giovani curiosità, interesse, entusiasmo; e ci sono sempre stati cattivi maestri, scontenti di sé, insicuri, incapaci di dialogare e di suscitare attenzione. Ma quel che stimola ogni trasmissione di conoscenza è l’appassionata pratica di un sapere e il conseguente desiderio di trasmetterlo ai più giovani. La conoscenza si propaga per contatto fra esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso da una generazione all’altra.
Questa catena millenaria sembra essersi spezzata. Da alcuni decenni è di moda credere che per insegnare, poniamo, la matematica o la storia non basta conoscere bene queste discipline, ma è indispensabile praticare qualcos’altro, che le supera e le contiene: la didattica della matematica, la didattica della storia. Questa perniciosa petitio principii ha infettato le nostre menti, ma anche le circolari ministeriali, i meccanismi di reclutamento e di valutazione. La didattica, o pedagogia che dir si voglia, tende così a diventare non un sapere fra gli altri, bensì una sorta di super-disciplina che pretende di superare o contenere tutte le altre. Di conseguenza, si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa. Principio, questo, che non vale nei saperi più elementari e indispensabili che pratichiamo (l’agricoltura, la cucina…), ma che si ritiene debba valere per la scuola. Di sofisma in sofisma, potremmo allora chiederci : ma per insegnare la didattica della matematica, non ci vorrà, “a monte”, un insegnamento di didattica della didattica della matematica? E così via rinculando, finché a furia di parlare del come e non del che cosa si deve insegnare a scuola, i contenuti si perdono nel nulla, e quel che resta è il burocratico rituale di un insegnamento-scatola vuota. La sapienza specifica dell’insegnante diventa un bagaglio ingombrante, se “sapere la matematica” (o la storia) conta poco o niente, se vale solo una tecnica dell’insegnare che è parente stretta della “scienza della comunicazione” e della pubblicità commerciale.
Concentrarsi sulle modalità dell’insegnamento e non sui suoi contenuti. Questa sembra essere la parola d’ordine della nuova scuola, “buona” o cattiva che sia. Si viene così a creare una perversa simmetria: agli insegnanti si chiede di spostare l’accento, nella loro preparazione e nel loro lavoro, dai contenuti ai metodi d’insegnamento. Agli studenti si chiede di spostare l’accento dalla elaborazione della conoscenza all’acquisizione di abilità, competenze, skills. La scuola così intesa può forse ancora (stancamente) trasmettere nozioni, ma non la passione di sapere. Le nozioni, una volta acquisite, non serviranno a pensare il futuro creativamente, ma a eseguire questo o quel lavoro lungo binari prestabiliti. Da una scuola così concepita resta ovviamente fuori lo spirito critico, il senso del dubbio, la vigilanza intellettuale sulle informazioni ricevute e sulle nozioni correnti, il desiderio di controllare quel che ci vien detto, la capacità di ragionarne con indipendenza di giudizio, la creatività. Restano fuori le virtù essenziali di un buon cittadino.
Ma in verità l’insegnante ideale è chi sa benissimo la storia o la matematica, vi dedica la miglior parte del suo tempo, e ha elaborato la passione di trasmetterla perché la considera non solo utile, ma “bella” da coltivare, da conoscere e da far conoscere. Solo un insegnante come questo (e per nostra fortuna nella scuola italiana ce ne sono ancora migliaia) saprà davvero trasmettere, attraverso la storia o la matematica, la capacità di ragionare con rigore che è la dote più preziosa di ogni essere umano. Questo insegnare con passione (per i contenuti, non per i metodi) presuppone una concezione della scuola come luogo dove si insegna a pensare, non a “fare cose” che appaiano immediatamente produttive, secondo gli indecenti equivoci della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”.
E prima di scegliere da che parte stare, pensate un momento: salireste mai su un aereo sapendo che ai comandi non c’è un bravissimo pilota, ma un esperto in didattica del pilotaggio?

Il Fatto 15.3.17
Al solito: perdono le elezioni e vogliono riformare la Carta
di Silvia Truzzi


L’intervista di Dario Franceschini ieri al Corriere della Sera spiega che non è la connessione sentimentale del Pd con gli elettori a essersi rotta, è che proprio non funziona più nemmeno l’apparecchio acustico. Il ministro comincia statuendo che “siamo in un’impasse”. Poco conta che siano passati solo dieci giorni dal voto (in Germania, per dire, ci hanno messo mesi a formare un governo). Siccome però loro hanno perso, siamo in un’impasse. E come se ne esce? Ribaltando lo schema: “La maggioranza non ce l’ha nessuno” e allora facciamo le riforme istituzionali. “È un grave errore politico pensare che la vittoria del No al referendum abbia voluto dire che le riforme non si faranno mai più”. Mica si possono lasciare irrisolti “i nodi di un sistema che non funziona”, signora mia. La strada è “monocameralismo e legge elettorale”: “Da una situazione che pare perduta può nascere un meccanismo virtuoso. Questa può essere la legislatura perfetta”. I governi di cui si parla in questi giorni “sono tutti governi contro natura”. Invece non sarebbe contro natura un governo che non solo scavalca un chiarissimo segnale del corpo elettorale, ma addirittura si ostina a riproporre una riforma che i cittadini hanno bocciato e che serve esclusivamente a garantire la sopravvivenza alle pseudo élite.
E dire che il passato dovrebbe aver insegnato ai Franceschini che i problemi politici non si risolvono con alchimie costituzionali che assomigliano al gioco delle tre carte fatto nella stanza dei bottoni. E quali sono i problemi politici su cui hanno votato gli italiani? Negli ultimi due giorni sono uscite un paio di ricerche che, pubblicate prima del 4 marzo, avrebbero aiutato parecchio i sondaggisti (e i commentatori). Bankitalia ci spiega che aumentano povertà e disuguaglianze: i cittadini a rischio povertà, quelli che secondo i parametri Eurostat possono contare su un reddito di meno di 830 euro mensili, sono il 23%. Al Nord le famiglie a rischio passano dall’8,3% di dieci anni fa al 15%; al Sud il 40% è a rischio di povertà. L’indice di diseguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentato di 1,5 punti dal 2008. La quota di ricchezza netta detenuta dal 5% delle famiglie più ricco è pari al 30% del totale, mentre il 30% più povero delle famiglie possiede appena l’1% della ricchezza. Poi ci sono i dati sul lavoro, propagandati ieri come il viatico delle nuove sorti progressive del Paese (il tasso di disoccupazione è il più basso degli ultimi quattro anni). Il punto però non è la quantità del lavoro, su cui pure c’è da discutere, ma la qualità. Aumenta il lavoro povero (persone che lavorano e non sono in grado di mantenersi), il lavoro precario, il lavoro in affitto senza diritti. Ieri Marta Fana, ricercatrice in Economia e autrice di un libro importante (Non è lavoro è sfruttamento, Laterza), ha analizzato i numeri dell’Istat per Il Fatto: “Nel 2017, il nuovo che avanza è fatto principalmente di lavoro a termine e in affitto, cioè in somministrazione. Si registra un aumento di 279 mila occupati, dovuto alla componente dipendente di cui il 90% e a termine. A oggi, l’incidenza degli occupati con contratto a termine raggiunge il 12,4% dall’11% di fine 2016. L’analisi dei flussi mostra che a fine 2017, il tasso di transizione dall’occupazione dipendente a termine verso l’occupazione a tempo indeterminato, si ferma al 16%, cinque punti percentuali in meno rispetto allo stesso periodo 2016. I lavoratori in somministrazione salgono del 25%, raggiungendo il valore più elevato degli ultimi 15 anni”. Sovrapponendo le cartine dell’indagine di Bankitalia e quella dell’Istat alle mappe del voto si vedrà che i luoghi di maggiore povertà e disoccupazione sono quelli in cui la protesta ha dilagato. Di questo bisogna occuparsi con urgenza, altro che legislatura costituente.

Il Fatto 15.3.18
Pier Luigi Bersani
“I 5 Stelle si sveglino o al prossimo giro la destra fa il pieno”
“La mucca in corridoio? Era un toro e ci ha travolti. Di Maio dica con chi vuole un’intesa e si ricordi: alla fine decide il Nord”
intervista di Paola Zanca


L’ufficio al quinto piano di Montecitorio è spoglio e dubita che ci sarà un gran agio per riempirlo: “Questo è solo il primo tempo. La legislatura sarà breve”. Il protagonista della non-vittoria del 2013 parla della non-vittoria del 2018. Non è più tra gli attori principali: in Parlamento, con Liberi e Uguali al 3,4%, è tornato per il rotto della cuffia. Eppure, giura che si metterà l’elmetto: “Combattere per una nuova forza progressista”, ripete. Che sia guerra, lo dicono le macerie attorno. E siccome rivendica di essere “uno che nel breve inciampa, ma ci vede lungo”, annuncia che “il secondo tempo” rischia di essere peggio del primo. Tradotto dal bersanese: alle prossime elezioni, la destra fa il pieno.
In mezzo alle macerie ci siete anche voi. Perché LeU non ha funzionato?
Quando vedevo le assemblee piene, in campagna elettorale, mi domandavo: sta scattando una cinghia di trasmissione o è solo una rimpatriata? Ecco, è stata soprattutto una rimpatriata, pur con una presenza insolita di giovani e una passione che non va dispersa. Abbiamo visto l’onda, non l’abbiamo intercettata.
Non ha pesato la scelta di Grasso? La sua candidatura, quella dei D’Alema, degli Epifani?
Sono sfumature, giustificazionismo di superficie. Avremmo preso qualche decimale in più? Possiamo anche cazzeggiare sulle increspature, ma significa non vedere il punto di fondo.
Sarebbe?
Che vedere il problema, non significa aver trovato la soluzione. Sono quattro anni che batto lo stesso chiodo: il ripiegamento della globalizzazione, le disuguaglianze, l’ascesa della destra protezionista, il centrosinistra che va dietro all’establishment. L’ho detto per primo che c’era la mucca nel corridoio. Solo che abbiamo scoperto che la mucca era un toro e ci è passato sopra. La gente ci ha percepito come una variante del sistema.
Il sistema ha perso. Vincono gli “anti”.
Ma i cinquestelle non possono dire ‘bussate e vi sarà aperto’. Devono dire dove girano la testa. Se non fosse blasfemo, bisognerebbe ricordare che quarant’anni fa ci fu uno che ci lasciò le penne per dire da che parte la girava.
Quello era Aldo Moro, qui c’è Luigi Di Maio.
Devono farci la cortesia di uscire dal loro sistema tolemaico: chi fa girare i pianeti è il Parlamento, non i 5Stelle.
È ancora arrabbiato?
Avanti così, saranno quelli che sbaraccano il tavolo, la testa d’ariete per ribaltare il sistema. Ma poi la poltrona se la prende il toro, la destra. Devono stare attenti o finisce che diventano gli amici del giaguaro. Va bene l’exploit al Sud ma, da appassionato di storia, li avverto: al dunque, decide sempre il Nord.
Cinque anni fa, in estrema sintesi, finì così: tra Arcore e Firenze.
Me li ricordo ancora, nell’assemblea in cui Roberto Speranza si dimise da capogruppo, tutti in erezione per l’Italicum. Io dissi: ‘Guardate che rischiamo di non esserci, al ballottaggio’.
Sarebbe andata così.
Il Patto del Nazareno è vittima delle sue macchinazioni: insieme fecero l’Italicum pensando di essere i due sfidanti, insieme il Rosatellum credendo di fare l’inciucio.
Ora il ministro Franceschini parla di legislatura costituente…
Non c’è il pane, mangiamo le brioche.
Dice che il Pd non ha capito la lezione?
Non mi pare. Li sento parlare di ‘reggenze’, ma il Pd è paralizzato: non può dire di aver sbagliato e non può dire di aver fatto bene. Stanno scegliendo di continuare a balbettare. Do un giudizio tecnico: per chiudere col renzismo bisognerebbe cambiare lo Statuto, togliere le primarie aperte almeno per una volta e fare un congresso con un dibattito autentico, che dia un giudizio su questi cinque anni e giustifichi una svolta.
Altrimenti resterà prigioniero di Renzi?
S’è voluto intercettare l’eredità del berlusconismo, fare compromessi con aree paludose. È un progetto nato con l’illusione del 40% alle Europee, ma guardare al centro ha tirato la volata agli altri.
È finito il centrosinistra?
Il centro moderato non esiste e se esiste conta quel che conta. Il centro è arrabbiato e sono i 5Stelle. Per questo dico che dobbiamo combattere per una sinistra plurale, ambientalista, cattolica, progressista. Ora serve coerenza: abbiamo detto che lo avremmo fatto, lo dobbiamo fare.
Come?
Serve subito una fase costituente di LeU come soggetto politico, ma non in forma burocratica, accompagnata da una riflessione culturale. E poi proposte concrete in Parlamento: diciamo no alla destra e alle ammucchiate, ma non siamo sull’Aventino.
Con chi dialogherete?
Parliamo con tutti ma dobbiamo permetterci di essere coerenti, visto che non siamo determinanti in nessun caso.
Lo dice con un certo sollievo. Ancora accusa il colpo di cinque anni fa?
All’epoca a me sarebbe bastato fissare il punto che il Pd non stava con l’establishment. Sarei stato disposto a fare un passo indietro, se l’ostacolo ero io. Lo dissi, ma il M5S non colse. Fuori dallo streaming, non ho potuto mai avere incontri, né formali né informali, per discutere del governo, del Colle. Altro che Ro-do-tà. Avessero detto Ber-sa-ni, non avrei accettato. Non esiste che ti rifiuti di partecipare a una riunione in Parlamento e invochi un presidente dalla piazza. Noi, senza incontri, abbiamo votato Di Maio vicepresidente della Camera…
Le ha provate tutte, dice?
Feci sapere che ero disponibile ad andare a Genova da Grillo. Non ebbi risposta.

Corriere 15.3.18
La crisi della sinistra
Politica della migrazione una mancanza che pesa
di Donatella Di Cesare


Il voto in Italia è la conferma della crisi che da tempo affligge la sinistra europea. Così viene giudicato dai media e dall’opinione pubblica all’estero. Numerose sono le analisi che interpretano l’esito delle elezioni mettendo l’accento sul travaso dei voti dal Pd ai 5 Stelle (che segue peraltro quello degli ex Pci passati alla Lega). La questione riguarda anche Leu e in generale tutta l’area della sinistra. Le cause indicate sono molteplici. Per lo più prevale l’idea, senz’altro vera, ma troppo sbrigativa, che la sinistra abbia abbandonato «i propri territori», che non sia stata capace di dare voce a scontenti, disoccupati, disagiati. In breve: l’emancipazione si sarebbe arrestata. Ecco il motivo — si dice — della crisi, anzi dello spegnimento della sinistra.
Sennonché lo scenario è ben più complesso. Lo dimostra il ruolo giocato dal tema della migrazione prima e durante la campagna elettorale. I toni accesi, gli episodi violenti — come dimenticare Macerata? — vanno ricondotti a tale contesto. Per le strade e nel web non si parlava d’altro. O quasi. Perciò nelle analisi politiche sarebbe un grave errore non riconoscere che la migrazione è stata un punto dirimente. Contro questa frontiera della democrazia ha urtato arenandosi una sinistra che non ha saputo intervenire per tempo. Una questione globale ha potuto così essere letta nei termini di un sovranismo provinciale. È mancata una narrazione alternativa in grado di delineare la complessità in modo semplice e non semplicistico, comprensibile a tutti. Nel migliore dei casi è stata fornita quella lettura economicistica dell’immigrazione che trasforma i cittadini-lavoratori in utili risorse umane: «lasciamoli entrare, perché ci servono». Come se non fosse proprio questo il dispositivo del mercato neoliberista che, se da un canto attrae, dall’altro respinge i migranti che sono voluti, ma non benvenuti, richiesti come lavoratori, ma indesiderati come stranieri, vittime perciò di una duplice discriminazione, di «razza» e di «classe».
Il problema, che ha investito, tutta la sinistra, non solo quella italiana, si può riassumere così: la giustizia sociale funziona unicamente all’interno dei confini nazionali? Occorre farsi carico solo del benessere economico degli autoctoni, salvaguardare e incrementare i diritti dei cittadini, in particolare — è ovvio — dei più poveri? Se è cosi, si accetta la frontiera fra cittadini e stranieri. Ma proprio questa frontiera è inaccettabile per la sinistra che finisce per tradire la sua provenienza e la sua vocazione: l’ideale della solidarietà. La giustizia sociale non può fermarsi ai confini nazionali.
Non è un caso che nel contesto tedesco dove, malgrado la crisi economico-finanziaria, il welfare ha tenuto, il tema della migrazione sia stato affrontato diversamente. Perché non si tratta di addossarsi la miseria del mondo, bensì di accettare una sfida epocale e inaggirabile. «Ce la faremo», sono le parole pronunciate nell’estate del 2015 da Angela Merkel che passerà alla storia per essere stata l’unico leader europeo ad aver richiamato i cittadini a una solidarietà responsabile. Ha fallito? Difficile dirlo. Tanto più che ha spiazzato il partito socialdemocratico. Ma certo ha avuto il coraggio di tentare.
Purtroppo in Italia il tema della migrazione è stato affrontato in modo schizofrenico, da una parte consegnandolo alla pur decisiva carità etico-religiosa del volontariato, dall’altra facendone una questione di sicurezza e di ordine pubblico. È mancata e manca una politica della migrazione. Ed è grave che non sia stata sviluppata dalla sinistra con categorie nuove, che non riducano la politica a governance, a mera amministrazione. Proprio il tema della migrazione prova la necessità di una cultura politica in grado di sollevare lo sguardo di chi è ripiegato su di sé e rischia di non vedere quello che avviene oltreconfine.

La Stampa 15.3.18
Il Movimento cresce ancora
E ora quasi un italiano su due vuole dare la guida al M5S
Il sondaggio di Piepoli: il 50% scontento dei risultati Per un terzo bene anche un esecutivo del Presidente
di Nicola Piepoli


Cosa pensano gli italiani a dieci giorni dalle elezioni? Ripeterebbero il loro voto o sono pentiti? E quale alleanza vorrebbero al governo?
Dalla ricerca che abbiamo svolto emerge che quasi un italiano su due (49%) è poco o per nulla soddisfatto dell’esito del voto. Mentre il 46% della popolazione è abbastanza o molto contenta del risultato.
Quella che è emersa dalle urne è un’Italia frammentata e tocca al Presidente della Repubblica riunirla. Ma come? Varie sono le ipotesi di alleanze presentate al campione di italiani intervistato. Due sono quelle che più delle altre potrebbero essere accettate come possibile nuovo governo: al primo posto, con il 44% di gradimento, abbiamo l’ipotesi di un esecutivo guidato dal Movimento 5 Stelle. Il partito che ha vinto, aiutato da alcune altre forze, è per l’opinione pubblica la prima scelta. Quasi metà degli italiani si aspetta che Mattarella decida per questa opzione.
Al secondo posto abbiamo, però, con il 32% di preferenze, la possibilità di un governo di «concordia nazionale». In questo caso ci si aspetterebbe che il Presidente della Repubblica scegliesse un «eroe nazionale» a cui affidare la guida del governo. La sentenza degli elettori coinciderà con la decisione del Presidente della Repubblica? Viene in mente, in questo caso, ciò che diceva Charles De Gaulle: compito di un presidente è sapere e meditare su ciò che l’opinione pubblica pensa ma, suo supremo compito, è agire solo ed esclusivamente nell’interesse del Paese.
Non abbiamo però ancora risposto a tutte le domande: come si sono mosse le intenzioni di voto nei giorni successivi alle elezioni? Se si votasse oggi, quale sarebbe il risultato? Come dopo qualsiasi consultazione elettorale ci troviamo di fronte a un «voto pietroso», che conferma l’esito delle urne quasi come una fotocopia: rivediamo la sconfitta del Pd e del centrosinistra nel suo complesso e la vittoria della coalizione di centrodestra, in cui i partiti mantengono le posizioni conquistate il 4 marzo. Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle possiamo notare un lieve effetto «bandwagon»: il Movimento sembra arrivato al massimo della sua parabola; se avesse ancora un bacino di utenza da alimentare nelle intenzioni di voto di questa settimana sarebbe arrivato a sfiorare il 40%, mentre nelle nostre rilevazioni conquista soltanto un punto percentuale in più.
Anche la fiducia nei leader è rimasta a grandi linee invariata. Si può notare un «ringraziamento» all’operato del premier Paolo Gentiloni, che acquista un punto. L’indice di gradimento degli altri capi di partito resta stabile. A perdere punti è soprattutto Silvio Berlusconi: se si andasse alle elezioni oggi, nonostante la stabilità nelle intenzioni di voto dichiarate, Forza Italia conquisterebbe meno voti proprio a causa della perdita di fiducia degli elettori nel suo leader.

Corriere 15.3.18
Sinistra e accordi quel balzo sul carro dei 5 stelle
Gli europarlamentari Barbara Spinelli e Pascal Durand hanno dato la più robusta spinta in direzione dell’abbraccio al M5S
Tomaso Montanari
di Paolo Mieli


Ora che la sbornia è passata, si impone una riflessione in merito all’incredibile corsa del ceto medio riflessivo della sinistra italiana in vista di un balzo sul carro dei Cinque Stelle nei minuti successivi alla proclamazione dei risultati delle elezioni politiche. Minuti? Diciamo pure frazioni di secondo. Non era stato neanche ultimato lo spoglio delle schede che, appena sono state chiare le dimensioni della débâcle del Pd, si è prodotta una ressa di propugnatori d’un rapido sposalizio tra il partito che era stato di Matteo Renzi e il movimento che è ancora di Beppe Grillo. Elementari criteri di stile oltreché di prudenza avrebbero imposto quantomeno qualche giorno di silenziosa riflessione. Tra l’altro anche sotto il profilo tattico era stravagante che un partito (il quale, ancorché in grave crisi, è pur sempre la seconda formazione politica italiana) si andasse ad offrire così s guaiatamente ai vincitori. Vincitori che, per di più, sapientemente si sono ben guardati dal calare le scialuppe per accogliere quei naufraghi accomunati dall’esclusivo desiderio di riprendere il loro viaggio verso l’avvenire, nel mentre imputavano al solo capitano la malasorte delle loro imbarcazioni. Comunque, a futura memoria, gioverà ricordare l’accaduto escludendo in partenza ogni menzione dei «coerenti», cioè di coloro che già da tempo si erano pronunciati a favore dell’incontro tra la sinistra italiana e il movimento di Grillo .
Gli europarlamentari Barbara Spinelli e Pascal Durand hanno dato la più robusta spinta in direzione dell’abbraccio al M5S nel nome dei loro illustri familiari: «Noi», hanno scritto in un appello al Pd, «figli di militanti antifascisti, di chi ha resistito all’oppressione e all’odio, noi che ricordiamo ciò che i nostri genitori ci hanno raccontato», vi diciamo che «compiacersi in una confortevole opposizione, rinunciare a sporcarsi le mani col pretesto che i vostri alleati potenziali non sono di vostra convenienza, non è un comportamento all’altezza della sfida di oggi». Attenti — ammonivano da Bruxelles — che «ci sono scenari ben peggiori di quello, indicato da Renzi, di divenire la stampella di un governo antisistema»: se non cercate un’alleanza con Luigi Di Maio, «potreste diventare il predellino di un governo neofascista». Oltretutto, garantiva Barbara Spinelli, «la stessa idea del reddito di cittadinanza, criticata e svilita dall’establishment italiano, è molto europea». A dare poi la linea in senso più concreto ci hanno pensato il conduttore televisivo Pierfrancesco Diliberto (con uno specifico manifesto che ha ottenuto grande consenso tra cantanti, attori, registi, appena un po’ meno tra gli scrittori) e l’intera sinistra pugliese capitanata da Michele Emiliano, Massimo D’Alema e da un, pur più cauto, Francesco Boccia.
Massimo Cacciari ha avuto fin dall’inizio pochi dubbi: «Da questa disfatta il Pd potrebbe uscirne bene soltanto se ammettesse la sconfitta, riconoscesse la vittoria del Movimento 5 Stelle e si rendesse disponibile a sostenere un governo monocolore dei grillini». Non dovrebbero però le sinistre «condividere responsabilità di governo», ha aggiunto il filosofo, dal momento che, se alcuni di loro andassero ad occupare qualche poltrona, sarebbe «un suicidio». Piero Ignazi, esperto in politica comparata, ha assicurato che «i 5 Stelle hanno cambiato pelle». Il politologo Gianfranco Pasquino — in un tweet da lui stesso certificato come «ricco di consensi e critiche» — è giunto alle conclusioni che sottrarsi all’incontro con i seguaci di Di Maio andrebbe considerato «eversivo» («sovversivo», lo ha corretto la Spinelli). Questo perché «rifiutarsi di fare un governo nel Parlamento di una democrazia parlamentare, è non solo ignoranza ma protervia nei confronti dei cittadini elettori». L’ex presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta si è mostrato dell’identico avviso: «Il Pd dichiari la disponibilità a supportare, anche dall’esterno, un governo a guida M5S». Anche Antonio Di Pietro non ha avuto esitazioni: «Il Pd si metta a disposizione» del partito di Grillo. «Non assuma il volto di un nume irato», ha suggerito in tv lo studioso di populismi Marco Revelli. La vicepresidente dem dell’Emilia Romagna Elisabetta Gualmini ha previsto però che questo matrimonio si realizzerà solo «tra alcune settimane». L’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha concordato sulla prospettiva di «tempi lunghi» ma ha benedetto fin d’ora le nozze con i pentastellati: «Non ci troverei niente di strano, la direzione è quella».
Tomaso Montanari prima di pronunciarsi ha tenuto a definire «penosa» oltre a quella del Pd anche l’esperienza elettorale del partitino di Pietro Grasso: un «episodio grave» prodotto, a suo avviso, da un «ceto politico che ha dirottato la richiesta di una sinistra diversa per garantire la propria perpetuazione». Poi, però, è tornato sul punto all’ordine del giorno per annunciare: «Se il M5S mi contatta per il ministero dei Beni culturali (e non si capisce se si tratta di qualcosa che è già accaduto o soltanto di un auspicio, ndr ) evidentemente pensa che il mio nome parli a quel pezzo di elettorato che oggi sceglie i 5 Stelle venendo da sinistra». Il direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais — a seguito di queste ultime due dichiarazioni — ha optato all’istante per un governo con i grillini guidato dal costituzionalista di cui sopra e, ove mai si ponessero problemi d’anagrafe, ha promosso lo storico dell’arte da semplice ministro a presidente del Consiglio: il Pd, ha dichiarato Flores, dovrebbe votare per «un governo che abbia come asse prioritario la legalità e l’uguaglianza, guidato da una grande personalità (penso a uno Zagrebelsky nella mia generazione o a un Montanari per la successiva)». E se il Pd non accettasse il suggerimento? La pagherebbe con il dimezzamento dei voti: «Nelle inevitabili elezioni che sarebbero convocate a breve», ha previsto lo stesso Flores, il partito che fu di Renzi «andrebbe sotto al 10 per cento».
In nessun Paese d’Europa (forse del mondo) si è mai assistito ad uno spettacolo del genere, per di più in tempi così ravvicinati ad un esito elettorale. Mai. Non fosse per l’autorevolezza e la notorietà delle persone che hanno ritenuto di pronunciarsi nei modi di cui s’è detto, si potrebbe pensare ad una gigantesca gaffe collettiva. Ma è probabile che i partecipanti a questa euforica festa per l’annuncio di matrimonio tra quel che resta della sinistra — di tutta la sinistra, non, si badi, del solo Pd — e un assai recalcitrante Movimento 5 Stelle, abbiano voluto comunicare al mondo qualcosa di più. Cosa? Che per loro la partita del movimento operaio e del socialismo riformista italiano è definitivamente chiusa, che non hanno intenzione di ricominciare a entusiasmarsi per un nuovo Pd guidato da Maurizio Martina, Graziano Delrio, Nicola Zingaretti o di chi andrà a prender posto al Nazareno. La nostra è solo un’impressione, ma riteniamo che quella prodottasi a ridosso delle elezioni del 4 marzo non sia stata soltanto una sbandata di donne e uomini in preda alla disperazione, bensì una disposizione d’animo che si ripresenterà quanto prima. Non necessariamente adesso, in tempi di formazione (?) del governo. Ma sicuramente a ridosso delle elezioni che verranno. Forse presto.

Corriere 15.3.18
Rileggendo Karl Popper
L’effetto (stressante) del voto
Gioie (e paure) di una società più aperta
di Antonio Polito


Capire cosa sta accadendo dopo le elezioni? Ce lo spiega il filosofo Karl Popper: il collasso della società chiusa e gli errori dei democratici.

«Si cominciò a sentire l‘effetto stressante della civiltà». Per spiegare che cosa sta accadendo in Italia, perché tanta gente vuole buttare via quello che c’è anche se non sa bene quello che verrà, basta leggere Karl Popper. «La società aperta e i suoi nemici» è un testo del 1944; eppure contiene, quasi alla lettera, tutto ciò che ci serve per capire.
«Questo effetto stressante, questo disagio», che i cittadini italiani avvertono come e più che altrove in Europa, forse altrettanto acutamente che negli Usa di Trump, «è una conseguenza del collasso della società chiusa». È «lo spavento della dissoluzione del mondo naturale», in cui le norme e le convenzioni sociali apparivano in accordo con la natura e con l’origine della comunità. «Una società chiusa può essere paragonata a un organismo, è un’unità semi-organica i cui membri sono tenuti insieme da vincoli semi-biologici: parentela, vita in comune, pericoli comuni». Nella società chiusa si sapeva chi siamo noi e chi sono loro, e noi non eravamo costretti a fare troppe scelte razionali e indipendenti (niente è più stressante che esercitare la libertà di scelta personale, o essere costretti alla competizione con chi non è unito a noi dagli stessi «vincoli spirituali, biologici e fisici»). Un tempo a scegliere per me ci pensava l’azienda, dove entravo a 18 anni e ne uscivo a 60 con la pensione; a proteggermi ci pensava il mio sindacato o il mio deputato; la televisione mi spiegava tutto; e per strada erano tutti uguali a me.
L’Eden intaccato
E poi, che cosa è successo in questo Eden? «Forse la causa più potente della dissoluzione della società chiusa fu lo sviluppo delle comunicazioni marittime e del commercio», scriveva Popper prendendo ad esempio Atene, dove ebbe origine la società aperta, e con essa l’individualismo e la democrazia. E infatti la «destra» ateniese considerava il «commercialismo monetario» e la «politica navale» della città come il suo peggior nemico. Di nuovo oggi il «pericolo» arriva via mare, con le merci e gli immigrati «che rubano lavoro agli italiani»; e con l’euro, la moneta dei commerci. Di nuovo oggi chi teme la società aperta propone protezionismo e chiusura dei confini per preservare ciò che resta delle rassicurazioni e dei conforti di una società chiusa .
Il bivio
È evidente che, proseguendo nella metafora, Cinquestelle e Lega sono le forze politiche che più hanno raccolto il voto delle vittime di quell’”effetto stressante”. Ma si può da questo dedurre che Popper, grande fautore della società aperta, avrebbe votato per il Pd o per Forza Italia il 4 marzo? Un attimo, Popper va letto fino in fondo. «Una società aperta», scrive infatti, «può diventare gradualmente quella che amo definire una società astratta o depersonalizzata, una società nella quale gli uomini non si incontrano mai faccia a faccia, nella quale tutte le attività sono svolte da individui completamente isolati che comunicano tra loro per mezzo di lettere dattiloscritte e di telegrammi e che vanno in giro in automobili chiuse (la fecondazione artificiale consentirebbe anche la riproduzione senza la componente personale)». Va segnalato che Popper scrive prima del boom dell’auto, prima dell’informatica e del computer, prima dei social, prima della provetta. Ma ci aveva visto giusto. Le forze che hanno perso le elezioni sono apparse come portatrici della corruzione di un ideale: non più la «società aperta», ma la «società astratta». La foto che ritrae l’intera direzione Pd che invece di ascoltare la relazione di Martina sta china sullo smartphone, e la giustificazione addotta dall’onorevole Fiano, «siamo multitasking», dicono più di ogni altra cosa quanto il Pd abbia incarnato agli occhi del popolo la modernità depersonalizzata, fondata sull’individualismo e sulla retorica delle «opportunità», che agli esclusi suona come una provocazione.
La retorica di Pericle
Anche la «società aperta» — che, sia chiaro, resta il sistema migliore per il benessere dei popoli, e che dobbiamo preservare a ogni costo anche da chi vince di volta in volta le elezioni — richiede infatti una fede, seppur razionale, su cui fondarsi. Ha bisogno della retorica di un Pericle, che nella sua celebe orazione si sforzava di legare «l’individualismo con l’altruismo», perché «ci è stato insegnato di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere gli umili». Invece i democratici dei nostri tempi hanno spesso finito per prendere in prestito idee e senso comune degli antichi movimenti oligarchici: come il mito del «filosofo-re», della competenza al governo, da opporre ai «nuovi barbari» che vogliono governare senza sapere, mito che in democrazia di solito il popolo spazza via.
Bisogna insomma che i fautori della «società aperta» diventino più consapevoli della tensione che essa crea, «dovuta al fatto che tutti noi diventiamo sempre più dolorosamente consapevoli delle gravi imperfezioni della nostra vita, sia personale che istituzionale, della sofferenza evitabile… della necessità di portare la croce di essere umano». Rileggendo Popper forse potrebbero aiutarsi a capire perché, questa volta, hanno perso le elezioni.

La Stampa 15.3.18
L’intellettuale Settis: “Il M5S abbandoni l’alibi del web”
“I dem e il Movimento convergano senza fare l’errore del 2013
Di Maio non è stato eletto premier”
di Giuseppe Salvaggiulo


Salvatore Settis, già presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e direttore della Normale di Pisa, intellettuale tra i più ascoltati sia tra gli elettori di sinistra che tra quelli grillini, offre una chiave di lettura del risultato elettorale e si schiera a favore di una convergenza di governo tra Pd e M5S.
Professore, che lettura dà del risultato elettorale?
«Due cose mi paiono chiare: la forte discontinuità con gli assetti tradizionali, che denuncia la crisi di una classe dirigente che tende a rifugiarsi nel privilegio di casta anziché a fare da motore al Paese; e una mappa del voto che allontana il Sud dal Nord, confermando che il Mezzogiorno è stato marginalizzato dall’agenda di governo, e deve tornare al suo centro».
La somma dei voti di Lega, M5S e Fratelli d’Italia supera abbondantemente il 50 per cento: siamo diventati anti-europei?
«A me pare che gli italiani non dicano “no” all’Europa, ma siano molto insoddisfatti di come l’Unione sta gestendo se stessa, e in particolare le questioni del debito pubblico e della spesa sociale. A questi interrogativi non si risponde con slogan generici tipo “più Europa” o “meno Europa”, ma chiedendosi quale è l’Europa che vorremmo. Passata la febbre delle elezioni, è sul merito di questa domanda che si giocherà la capacità progettuale dei partiti».
Come mai la sinistra non ha raccolto questo disagio?
«Lacerata da contrasti interni, la “sinistra” ha passato questi anni a guardarsi l’ombelico perdendo il contatto con il Paese. Anziché ricostruire la forma-partito come luogo di discussione e di elaborazione di progetti, si è chiusa in scontri di potere, in cui la competenza specifica (sulla Costituzione, sulla scuola, sull’ambiente, sul lavoro) era meno importante di una vuota retorica delle riforme. Questa “sinistra” ha ignorato le tensioni e le sofferenze del Paese, cercando di tenerle a bada con slogan e successi effimeri. Non ci è riuscita».
Lei non è entrato nella squadra di Di Maio prima delle elezioni. È una chiusura definitiva?
«Il gioco di società del “toto-ministri” non mi interessa. Se anche Galileo fosse ministro dell’Università e della ricerca, ma in un governo che non ponga questi temi in assoluta priorità, non potrebbe fare nulla di buono. E poi: secondo la Costituzione, di nomi ha senso parlare solo quando vi sarà un presidente incaricato. Ed è facile profezia che si arriverà a questo punto fra svariate settimane, se non mesi».
A cosa attribuisce il successo della Lega?
«Cancellando dal proprio nome la parola Nord, ha raccolto consensi anche a Sud, ma resta un partito imperniato su una concezione chiusa della società, e senza nessun vero progetto che non sia la difesa di piccoli e grandi privilegi e una dannosa xenofobia. Ma ha saputo canalizzare quella parte di protesta che ieri si identificava in un Berlusconi ormai in caduta libera».
Come legge il declino parallelo di Berlusconi e di Renzi?
«Un punto in comune ce l’hanno, ed è la cieca personalizzazione della politica, una sorta di egolatria da grande leader. Ma che qualcuno sia “grande”, per verità, dovrebbero essere gli altri a dirlo. O la Storia».
Cosa pensa del M5S: movimento populista o nuova sinistra?
«“Populisti”, nel linguaggio politico italiano, sono sempre gli altri, finché vengono sdoganati arrivando al potere (come è successo alla Lega). Nei 5 Stelle c’è dentro di tutto, una metà più o meno di sinistra ma anche una componente centrista o di destra. Per diventare forza di governo, tali contraddizioni dovrebbero essere affrontate accrescendo la democrazia interna senza rifugiarsi nel facile alibi della piattaforma web».
Pd e M5S dovrebbero convergere per formare un governo?
«Dopo le elezioni del 2013 firmai gli appelli di Barbara Spinelli e Michele Serra per un governo di scopo M5S-Pd. Nonostante duecentomila firme, tutto si risolse in niente, anzi da Beppe Grillo arrivarono solo sberleffi per “gli intellettuali”. Guardando i numeri di questo Parlamento, un esperimento di alleanza di questo tipo mi pare comunque preferibile a ogni altro».
Su quale piattaforma e con quale tipo di compromesso?
«L’elaborazione programmatica di entrambi è insufficiente. Questa debolezza può diventare un punto di forza, se si avrà il coraggio di costituire un tavolo di discussione in cui tener conto non solo di quel che dicono i partiti, ma del confronto fra l’Italia e gli altri Paesi (ad esempio, lo scarso investimento in cultura), nonché delle istanze che nascono “dal basso”: dalle associazioni, dai movimenti per i beni comuni, dai cittadini».
Per favorire una simile soluzione, sarebbe auspicabile un passo di lato di Di Maio in favore di una personalità terza che non sia il leader di un partito avversario, invotabile per il Pd?
«I progetti per il futuro del Paese sono più importanti dei nomi. La Costituzione non prevede che il presidente del Consiglio esca dalle urne, ma che venga nominato dal Capo dello Stato (art. 92). Nel costume italiano sta prevalendo una specie di “presidenzialismo debole”, coi nomi dei leader indicati talvolta già sulla scheda. Io credo che dovremmo optare per un “costituzionalismo forte”».
Nei prossimi giorni parteciperà al convegno torinese dedicato a Stefano Rodotà: com’era il vostro rapporto?
«Il suo insegnamento non era solo di Diritto, ma di etica e di vita civile. Non sono un giurista, e l’ho conosciuto relativamente tardi. Vorrei cercare di dire perché e come il suo modo di affrontare il rapporto fra diritti della persona e forma della società mi abbiano affascinato e convinto».
Qual è oggi il valore della sua lezione?
«Ne scelgo fra tanti solo uno, il nesso forte, anzi necessario, fra due idee o principi: da un lato un’idea di cittadinanza inclusiva, intesa non solo come il corredo di diritti e doveri del singolo ma come tessitura della fabbrica sociale; dall’altro lato, la responsabilità individuale e collettiva di tradurre i più alti principi giuridici in azione politica».

La Stampa 15.3.18
Convegno dedicato a Rodotà


Da oggi a domenica si svolge a Torino “Legacy. Giornate in memoria di Stefano Rodotà”. Decine dei più autorevoli giuristi italiani chiamati a raccolta dallo Iuc (International University College of Turin), Collegio Carlo Alberto e università di Torino per interrogarsi su come ripensare i capisaldi del diritto civile alla luce della trasformazione tecnologica del capitalismo e sull’esigenza di una rilettura evoluta, anche in chiave sociale ed ecologica, dei rapporti tra privati e dello sviluppo urbano. Domani relazione introduttiva di Ugo Mattei, docente a Torino e Berkeley, che di Rodotà fu stretto collaboratore. Nel weekend le riflessioni di intellettuali, alte cariche dello Stato e docenti di diverse discipline sul futuro delle città. Conclusione domenica con una lectio magistralis di Paolo Grossi, storico del diritto e fino a un mese fa presidente della Corte costituzionale. In mezzo seminari e tavole rotonde e un fuori-programma, sabato al circolo dei lettori: un “concerto per Stefano” con il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky al pianoforte e il primo violoncellista del teatro Regio Relja Lukic.

La Stampa 15.3.18
Francesco Piccolo
“La sinistra riparta dai suoi temi e abbandoni le primarie”
Lo scrittore: “Non si possono trattare gli elettori come cretini”
di Massimo Vincenzi


Nel 2013 Francesco Piccolo ha scritto il romanzo premio Strega “Il desiderio di essere come tutti”, a cavallo tra l’autobiografia e la politica, che in lui spesso coincidono. Il riferimento è al titolo apparso sull’Unità nel giorno dei funerali di Berlinguer. E dentro «quel tutti non erano compresi solo i militanti del Pci, ma tutti gli italiani, tutti gli uomini che al tempo si riconoscevano, al di là delle differenze ideologiche, in una certa idea di Paese», spiega. Ora lo stesso Paese, dopo il voto del 4 marzo, è un mosaico frantumato in mille pezzi, con la Sinistra ridotta ai minimi storici, e con rabbia e paura come parole d’ordine della nostra quotidianità. Da qui parte lo scrittore per cercare di interpretare il terremoto delle elezioni.
Cosa è successo al Pd e in più generale alla Sinistra?
«Intanto durante i governi Berlusconi ci siamo estraniati dal Paese, non l’abbiamo voluto riconoscere più, e questo è stato il primo degli errori. Poi il Partito democratico è andato a Palazzo Chigi, sempre con numeri stentati, ma ci è andato. Andare al potere rende sospettosi gli elettori di sinistra, si sentono a disagio, cercano subito i motivi di dissenso. Il guaio è che in Italia non c’è una cultura riformista, ma prevale l’elitarismo e un’anima apocalittica. Tutte queste cose insieme ci hanno resi reazionari e senza voglia di responsabilità. Per fare politica serve una speranza di migliorare, se si parte dall’idea che il mondo è orribile, non c’è motivo per impegnarsi».
Ho letto che lei cita tra le calamità anche l’introduzione delle primarie. È così?
«Penso che siano le maggiori colpevoli dell’autodistruzione. Tutto parte da lì. Le primarie hanno fatto nascere dispute feroci, i dirigenti si sono impegnati di più nel distruggere l’amico che nel combattere i nemici esterni, seguendo l’esempio di un campione della specialità come D’Alema che ha concentrato nella lotta intestina una intera vita politica. Dentro il partito sono nati muri, steccati. Chi ha vinto, ogni volta, ha occupato il partito con le proprie idee, usando la mannaia contro gli altri, portando così gli sconfitti a odiare chi aveva prevalso. Sono stati fatti Congressi di mezz’ora, in questo modo è impossibile sintetizzare il pensiero di tutti: come invece dovrebbe permettere un buon segretario che ha il compito principale di avere una linea, ma di non perdere pezzi per strada. È inutile girarci intorno, o noi le primarie non le sappiamo fare, oppure sono il vero male della Sinistra».
Queste lotte poi si sono riflesse sugli elettori. Con quali effetti?
«La base si è sentita lontana da tutto questo, abbandonata. E anche le altre persone non hanno più trovato nella Sinistra le risposte ai loro problemi. Invece un partito riformista serio si deve caricare sulle spalle anche le cose che non gli piacciono, i difetti che non capisce e provare a dare risposte di Sinistra».
In mezzo poi ci sono gli intellettuali che rispetto al passato sono stati abbastanza defilati. Non trova?
«Ci sono ragioni quasi antropologiche alla base di questo silenzio. L’intellettuale di sinistra si sente in imbarazzo più di tutti, quando la Sinistra è al Governo. Nonostante siano state fatte leggi civili storiche, ci si sente come imbavagliati. Ora, anche se può sembrare una battuta, siamo finalmente nel posto giusto: possiamo tornare a criticare, a dire quello che non ci piace, mentre eravamo a disagio a stare in difesa. Il referendum ne è un esempio lampante».
In che senso?
«Io l’ho votato anche se magari non era perfetto, ma gli intellettuali di sinistra, certi padri della patria hanno reagito in maniera scomposta andando persino contro quelle che erano le loro convinzioni sino al giorno prima. Per anni ho sentito urlare contro il bicameralismo (vecchia battaglia del Pci), poi all’improvviso è diventato il valore imprescindibile della democrazia. Questo dimostra che alle élite piace parlare di rivoluzione, ma non vogliono farla perché dopo non saprebbero più vivere senza invocarla».
In quest’ottica c’è stato anche un atteggiamento elitario nei confronti degli elettori di 5Stelle e Lega?
«Non si può dire agli elettori che sono cretini, atteggiamento che da Sinistra abbiamo dal 1994. O la pensate come noi che siamo nel GIUSTO, scritto tutto maiuscolo, o siete degli ignoranti. Il compito della politica è spiegare con pazienza quello che accade e i rimedi che si possono adottare. Prendiamo l’immigrazione: avere paura è un diritto, e anche se non fosse un diritto, è un fatto. Allora bisogna mettere regole, norme, produrre idee chiare e moderne, prima che vincano quelle sbagliate e cattive. Non basta dire: accogliere è giusto e questo può bastare. E lo stesso vale per l’enorme problema del lavoro, per i giovani che si sentono esclusi. La Sinistra si è limitata a dire siamo nel giusto e se non ci votate peggio per voi. Poi si sono fatte scissioni per dire cose ancora più giuste ed essere sicuri di perdere per non metterle in atto».
Lei è stato un sostenitore di Renzi, come ha potuto l’ex premier dilapidare un consenso così grande in così poco tempo?
«Ha sbagliato a insistere sul referendum anche quando era ormai chiaro che aveva contro tutto l’arco parlamentare e buona parte del suo partito. Ha sbagliato subito dopo a concentrarsi sulla battaglia nel Pd, andando avanti a testa bassa, con la scusa di aver rivinto le maledette primarie. Avrebbe dovuto accogliere tutti, facendo una politica condivisa. C’è da dire anche che da un certo punto in poi l’unico interesse nel suo partito era quello di farlo fuori. E ci sono riusciti».
Da dove si può ripartire oggi?
«Si deve ricostruire il partito a partire dai temi storici della Sinistra. Devono rientrare quelli di LeU, e il Pd deve accogliere tutte le idee, farne una sintesi riformista e progressista con un segretario che sia garante di tutti. Quindi un segretario eletto in un congresso vero, di idee, e che rappresenti tutti».
E forse recuperare anche quel po’ di autoironia che lei racconta bene nel suo libro e che è andata perduta. Non trova?
«Quando si combatte tra fratelli, il sorriso diventa ghigno, anche la satira diventa di parte per sbeffeggiare il tuo nemico interno. Ma ora sono convinto andrà meglio».
Come?
«Dal 5 marzo siamo tutti più sereni, la sconfitta è nel nostro Dna e finalmente ci sentiamo a nostro agio e torneremo a sorridere».

Corriere 15.3.17
Il flop costa al Pd 19 milioni. Sede del Nazareno a rischio
di Claudio Bozza


Con gli eletti più che dimezzati crollano i contributi al partito
Milano Il crollo dei voti alle elezioni, oltre che la leadership al segretario Matteo Renzi, costerà al Pd 19 milioni. È questo, calcolatrice alla mano, il mancato incasso nel forziere del Nazareno per la legislatura che sta per iniziare, la prima con l’azzeramento dei rimborsi elettorali dallo Stato. Ogni parlamentare eletto, come impone lo statuto del Pd, ogni mese deve versare al partito un contributo di 1.500 euro. Il Pd chiude questa legislatura con 378 tra deputati e senatori, i cui contributi, moltiplicati per i cinque anni della legislatura, hanno superato i 34 milioni. La batosta del 4 marzo, però, ha fatto precipitare il numero degli eletti a 165, con una proiezione sui 5 anni di circa 14,8 milioni di contributi. Il Pd non potrà quindi contare su un sostegno di ben 19 milioni.
Così, oltre alla profonda crisi politica, i traghettatori del post Renzi stanno per far scattare una nuova raffica di tagli. E il primo passo, in autunno, potrebbe essere l’addio alla sede del Nazareno: l’affitto da mezzo milione di euro dell’immobile da tremila metri quadri in via Sant’Andrea delle Fratte non è più sostenibile. Il Palazzo del Collegio del Nazareno, costruzione del Seicento che ospitava la più antica scuola di Roma, è la casa del Pd dal 2009, cioè da quando Dario Franceschini prese le redini del partito, perché il loft affacciato sul Circo Massimo e scelto da Veltroni era troppo scomodo rispetto ai palazzi del potere.
Oltre alla ricerca di una sede con affitto più economico, sempre in autunno scadrà la cassa integrazione a rotazione per i 180 dipendenti. Il tesoriere Francesco Bonifazi dovrebbe sì riuscire a chiudere il bilancio 2017 con un attivo di circa un milione e mezzo (nel 2016 il rosso fu di 9,5 milioni, anche a causa della campagna monstre per il Sì al referendum), ma sempre con quell’orizzonte dei 19 milioni in meno di «incasso», seppur potendo contare su circa 6,5 milioni in arrivo dal 2 per mille, il partito dovrà affrontare una radicale riduzione del personale. E per rimettere i conti strutturalmente in pari, per i commercialisti, il numero dei dipendenti dovrebbe essere quasi dimezzato.
La dieta imposta dalla sconfitta cambierà anche gli assetti dei gruppi parlamentari. Alla Camera il Pd aveva 135 dipendenti tra giornalisti, funzionari e segretari, che a fine legislatura per prassi escono con il licenziamento collettivo. Di questi potrà riassumerne una settantina o poco più, perché il contributo che la Camera assegna ai gruppi è di 49 mila euro a deputato e dunque il «tesoro» che tocca alle forze politiche è proporzionale al numero di eletti. Il pattuglione dem ha perso oltre 180 deputati rispetto al 2013, che in soldoni sono 8,5 milioni di euro in meno. E lo stesso doloroso calcolo, che mette in gioco la metà dei posti di lavoro, va fatto per il Senato.
Ieri, intanto, sono partiti i decreti ingiuntivi da parte del tesoriere Bonifazi, che, tra i morosi del Pd e gli scissionisti passati a Leu, dovrebbe recuperare tramite il tribunale oltre un milione e mezzo. Tra i destinatari della richiesta c’è anche Pietro Grasso, che deve al Pd circa 85 mila euro: «Per lui abbiamo pensato a una rateizzazione: 15 rate da 4.162,50 euro e la maxirata finale da 20.812,50 euro — scrive sarcastico Bonifazi sui social —. Un’offerta imperdibile».
Intanto, languono anche i conti della Fondazione Open: nel forziere e braccio operativo di Renzi i contributi si sono ridotti al lumicino rispetto a quando i finanziatori più importanti staccavano assegni anche da 100 mila euro a volta.

Repubblica 15.3.18
Intervista a Domenico De Masi
“Toccata la capacità massima ormai si può solo decrescere”
di Barbara Ardù


ROMA Professor Domenico De Masi, ha letto Beppe Grillo? Propone una «società senza lavoro» e «un reddito per diritto di nascita»?
Va oltre quello di cittadinanza.
«Grillo ha il suo modo di parlare alla gente - precisa il sociologo del lavoro, «ma non sbaglia quando dice che si è “raggiunta la capacità produttiva”. Siamo l’ottava potenza mondiale per Pil. Ogni italiano ha in media 34mila euro pro capite...».
Sì, ma questa è la media di Trilussa...
«Certo, perché il problema è come redistribuire il reddito. I comunisti erano molto bravi a redistribuirlo, ma non a produrlo. I liberisti sono bravi a produrlo ma non a redistribuirlo».
E allora ci vuole una terza via.
«Terza via... Ci vuole la socialdemocrazia. Quella che esprimevano personaggi come Pietro Nenni o Enrico Berlinguer.
Solo che Matteo Renzi haspostato il Pd verso il neoliberismo».
Non è il primo né l’unico ad averlo fatto.
«L’Italia in questi anni è cresciuta, ma il reddito è andato solo ai piani alti della società. Non a caso abbiamo 6 milioni di poveri.
Dunque va affrontato il tema della distribuzione di reddito e ricchezza. E dico di più. Non va redistribuita solo la ricchezza, va fatto lo stesso con il lavoro, che è quanto sostiene anche Grillo. Va redistribuito, perché la tecnologia sottrae lavoro e non sono l’unico a dirlo ormai. Guardi la Germania: lì si lavora 1.400 ore l’anno, da noi 1.800, ma produciamo molto meno».
La nostra produttività è notoriamente bassa.
«Certo perché i nostri imprenditori e manager non sono all’altezza e redistribuiscono poco».
E il reddito per diritto di nascita sarebbe la strada? Ma chi lo finanzia?
«Il bilancio dello Stato è ampio. È lì che bisogna cercare. Se si vuole fare si fa. È un discorso di voci di spesa.
La redistribuzione deve diventare una priorità in un mondo in cui è difficile creare nuovo lavoro, siamo al massimo della capacità produttiva e la tecnologia sottrae lavoro. Un tempo a 18 anni andavi a lavorare e poi andavi in pensione.
Non funziona più così. Bisogna trovare dei correttivi. I Cinque Stelle con il reddito di cittadinanza hanno impedito che milioni di poveri prendessero il fucile e facessero un rivoluzione».
Addirittura! Grillo nega anche che ci sia una crisi in atto.
«Ha ragione. Una crisi che dura dieci anni è impensabile. È una decrescita del Paese, che non essendo stata programmata è subita dai poveri e dai giovani».
Cosa dice lei ai suoi studenti?
«Che studino per arricchire le loro conoscenze. Trovare un lavoro è un altro capitolo».

Corriere 15.3.18
Napoli, rissa sfiorata all’assemblea dei dem


Momenti di tensione all’assemblea pubblica del Pd di Napoli a Ercolano. Protagonisti Nicola Oddati, candidato alla segreteria metropolitana, il segretario Massimo Costa, il presidente del Pd di Napoli, Tommaso Ederoclite. I presenti in sala si sono scambiati accuse reciproche e insulti, mentre davanti al palco si è sfiorata la rissa. È intervenuta la polizia.

Il Fatto 15.3.18
I Br e l’occasione di “non” parlare
di Pino Corrias


Annosa è la questione: se i brigatisti con mani e chiacchiere insanguinate siano autorizzati oppure no (e non solo dalla buona creanza) a pronunciarsi su quello che combinarono lungo l’asfalto di via Fani, quel 16 marzo 1978, fucilando sei uomini in tutto, l’ultimo con morte differita di 55 giorni, in nome di una rivoluzione che era ridicola se non fosse stata tragica.
È semmai in nome di quel tragico che dovrebbero ascoltare anziché parlare. O parlare il meno possibile. E qualche volta leggere. Per esempio le 86 lettere scritte in quei giorni da Aldo Moro, il più struggente diario umano che un politico di quegli anni abbia scritto, segregato nel solo territorio italiano che i brigatisti hanno mai governato, i 90 centimetri di larghezza e i 200 di lunghezza della sua prigione di via Montalcini.
Con Prospero Gallinari che si era comprato una “Storia della democrazia cristiana” per capire qualcosa dei labirinti verbali di Moro. Dentro ai quali rilucevano notizie su Gladio che neanche Mario Moretti – il grande capo – capì in tempo, sebbene viaggiasse sui treni della Stato Imperialista delle Multinazionali, leggendo, per sommo addestramento d’astuzia, la Settimana enigmistica.

Corriere 15.3.18
Il buio oltre via Fani Indagine sui retroscena del sequestro Moro
di Giovanni Bianconi


Domani in edicola con il quotidiano un saggio di Giovanni Bianconi
Come morì il leader democristiano
Il testo che segue è una sintesi della nuova introduzione scritta da Giovanni Bianconi per la riedizione del suo libro «Eseguendo la sentenza», in edicola domani con il «Corriere della Sera» in collaborazione con Giulio Einaudi editore.

Sono passati quarant’anni, e più che in altre occasioni le celebrazioni per l’anniversario del sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta — i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci, insieme ai poliziotti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi — assumono un significato particolare. Non solo perché è una ricorrenza «a cifra tonda» e dunque considerata più evocativa, ma per l’atmosfera in cui cade. È l’inizio di una nuova legislatura, caratterizzata da incognite e fermenti che, in tutt’altre condizioni, ricorda quella del 1978, quando il presidente della Democrazia cristiana cercava soluzioni a una situazione politica ugualmente ingarbugliata. E individuò una difficile via d’uscita che apriva nuove prospettive.
La «solidarietà nazionale», che per un biennio aveva tenuto in vita il governo monocolore Dc grazie all’astensione degli altri partiti, si trasformò in «unità nazionale», con il voto favorevole di tutti gli alleati, comunisti compresi. Era la prima volta, dal 1947. Ma la mattina del 16 marzo 1978, quando il Parlamento doveva sancire questa svolta storica, le Brigate rosse tolsero dalla scena il protagonista principale della trama, e la via d’uscita si trasformò in un vicolo cieco. Destinato ad esaurirsi in pochi mesi, dopo l’omicidio di Moro, con una retromarcia che riportò le maggioranze di governo su percorsi più tradizionali.
Rispetto ad allora tutto è cambiato, ma la politica italiana è sempre alla ricerca di qualche via d’uscita. Non ci sono più i partiti di allora e — soprattutto — non ci sono più le formazioni armate che condizionarono in maniera decisiva quel lungo tratto di strada, dalle Br in giù; e prima ancora le sigle neofasciste che con le bombe e le coperture degli apparati statali avevano alimentato la «strategia della tensione». Ciò nonostante la violenza politica, seppure con forme e prospettive nemmeno paragonabili, resta un fantasma sempre pronto ad agitarsi e ad agitare i contrasti che viviamo. Oggi non solo l’Italia, ma le società occidentali in genere sono chiamate a misurarsi con altre forme di terrorismo che quarant’anni fa non erano contemplate, seppure già covassero sotto i conflitti dell’epoca, in Medio Oriente e non solo.
Rievocare i drammatici cinquantacinque giorni della primavera 1978 può servire a conoscere meglio la storia di ieri e quello che siamo diventati, fino ad oggi. In questo libro pubblicato nel 2008, a trent’anni dai fatti, ho cercato di ricostruire l’intera vicenda vista da tre angolazioni differenti, tutte essenziali: i brigatisti che sferrarono l’attacco, con il loro carico di ideologia e di morte; lo Stato che lo subì, nelle sue diverse articolazioni: la magistratura e le forze dell’ordine, il governo, i partiti e la Dc in primo luogo; Moro e la sua famiglia che inizialmente, in qualità di vittime, erano al fianco delle istituzioni ma da un certo momento in poi, quando l’ostaggio cominciò a scrivere le sue lettere dalla «prigione del popolo», divennero a loro volta antagonisti dello Stato e della «linea della fermezza» ufficialmente adottata. Ho cercato di scavare tra tanti episodi più o meno conosciuti, che si sono susseguiti e spesso accavallati in quei due mesi frenetici e drammatici, per portare alla luce sensazioni personali, stati d’animo, speranze, delusioni, ragioni e torti dei diversi protagonisti, per provare a meglio comprendere la storia più grande attraverso piccoli frammenti.
Dalla prima edizione sono trascorsi altri dieci anni, ma la sostanza del racconto che si potrebbe fare oggi non è dissimile da quella di allora. Le ulteriori indagini di magistratura e commissione parlamentare d’inchiesta non hanno cambiato il quadro complessivo. Il mosaico che si può intravedere mettendo insieme le tessere dei tre punti di vista, resta sostanzialmente lo stesso. Con le ombre, i chiaroscuri, i rilievi e i vuoti che pure ci sono, ma non impediscono di vedere il disegno che s’è realizzato: un’azione politico-criminale, di stampo rivoluzionario, lanciata all’assalto di un sistema che per resistere all’urto ha scelto di sacrificare un suo illustre rappresentante finito «sotto processo» per conto di tutti gli altri, e condannato a morte. Schierandosi contro gli assassini che avevano trucidato la scorta e avrebbero ucciso il prigioniero, ma anche contro un uomo che fino all’ultimo ha cercato di salvare la propria vita e una certa idea dello Stato e delle istituzioni. Inutilmente.

Corriere 15.3.18
Era il grande tessitore della vita politica italiana
Artefice del centrosinistra, più volte capo del governo, dialogava anche con i comunisti
di Antonio Carioti


Quando fu rapito, Aldo Moro era la personalità più influente della politica italiana. Nato nel 1916 a Maglie, in provincia di Lecce, sotto il fascismo era stato presidente degli universitari cattolici e nel 1946 venne eletto alla Costituente, dove si mise subito in luce.
Giurista, ministro della Giustizia e poi della Pubblica istruzione negli anni Cinquanta, nel 1959 era diventato segretario della Dc: in seguito, con grande cautela e altrettanta capacità di convinzione, aveva pilotato lo Scudo crociato verso l’incontro con i socialisti, nonostante l’opposizione di vasti settori imprenditoriali ed ecclesiastici. Quando nel 1963 si era arrivati al primo governo con la partecipazione diretta del Psi, Moro ne aveva assunto la guida.
Presidente del Consiglio fino al 1968, aveva poi pagato il prezzo della sconfitta elettorale subita in quell’anno dalla Dc ed era stato emarginato nel partito, pur ricoprendo per diverso tempo l’incarico di ministro degli Esteri. Dopo l’insuccesso cattolico nel referendum sul divorzio, era tornato a Palazzo Chigi nell’autunno 1974 e poi di fatto aveva assunto anche la leadership della Dc, della quale divenne segretario nel 1975 un esponente a lui legato, Benigno Zaccagnini.
Dopo aver intrattenuto un rapporto positivo con l’opposizione di sinistra già da capo del governo, in seguito alle elezioni del 1976, che videro la Dc recuperare e il Pci raggiungere il suo massimo storico, Moro divenne, da presidente del suo partito, il grande tessitore degli accordi di solidarietà nazionale, che consentirono a Giulio Andreotti di guidare un governo monocolore che si reggeva sulla non sfiducia dei partiti del cosiddetto «arco costituzionale», comunisti compresi. Tale soluzione resse fino alla fine del 1977, quando il Pci reclamò l’ingresso nel governo. Moro ottenne che i comunisti si accontentassero di entrare nella maggioranza e convinse il suo partito ad accettare la svolta.
Era un’intesa precaria, che però probabilmente avrebbe consentito a Moro di essere eletto presidente della Repubblica, se il 16 marzo 1978 non fossero intervenute le Brigate rosse.

il manifesto 15.3.18
In Pennsylvania, la nuova mobilitazione democratica
American Psycho. Tradizionalmente il partito che controlla la Casa bianca ha risultati negativi nelle elezioni di metà mandato. Per di più in alcuni stati quest’anno i confini delle circoscrizioni saranno diversi da quelli del 2016 e i democratici sembrano in grado di portare a votare tutti i loro elettori, insieme a un discreto numero di repubblicani delusi (la percentuale di americani che approvano il modo in cui Trump esercita il suo mandato rimane inchiodato attorno a quota 40%)
di Fabrizio Tonello


Due visite di Donald Trump in persona, una del vicepresidente Mike Pence, due dei figli Ivanka e Donald Trump junior, più 10 milioni di dollari spesi in propaganda televisiva non sono bastati per consegnare la 18° circoscrizione della Pennsylvania al candidato repubblicano Rick Saccone: al momento in cui scriviamo il candidato democratico Conor Lamb aveva 641 voti di vantaggio su oltre 228mila, mentre restavano ancora da scrutinare alcune centinaia di voti per corrispondenza.
Gli esperti, però, danno per certa la vittoria di Lamb, che già nella notte tra martedì e mercoledì, ha festeggiato con i suoi. L’elemento curioso di questa elezione parziale, provocata dalle dimissioni del deputato repubblicano in carica, è che il vincitore resterà in carica solo pochi mesi perché la 18° circoscrizione, disegnata su misura per i candidati repubblicani, sparirà grazie a una sentenza della Corte suprema della Pennsylvania, che l’ha dichiarata incostituzionale.
A novembre, quindi, si voterà in distretti elettorali differenti. Il titanico sforzo dei repubblicani per mantenere il seggio non aveva quindi uno scopo pratico immediato (in ogni caso la loro maggioranza alla Camera rimane solida) ma solo un obiettivo psicologico: prevenire la Blue Wave che si annuncia per le elezioni per il Congresso del prossimo novembre, quando si voterà per 435 deputati e 35 senatori, dimostrando che la mobilitazione degli elettori democratici contro Trump non è sufficiente per rovesciare gli equilibri politici del paese. Obiettivo fallito.
Nelle elezioni di metà mandato, quelle che si tengono negli anni in cui non si vota per il presidente gli americani votano poco: il 35% degli aventi diritto è normale, contro il 60% degli anni in cui è in gioco la presidenza.
Martedì, i democratici hanno raccolto 113.813 voti, contro i 142.000 di Hillary Clinton nel 2016, mostrando quindi una forte capacità di mobilitazione: l’80% dei loro elettori sono andati ai seggi. Al contrario, i repubblicani hanno ottenuto solo 113.186 voti, contro i 213.000 di Trump: appena il 53% dei loro elettori del 2016 hanno sostenuto il candidato del partito.
Questa asimmetria viene dallo spostamento dei voti nei sobborghi residenziali, dove per decenni le promesse dei repubblicani di tagliare le tasse hanno fatto presa.
Guardando la mappa della circoscrizione si nota immediatamente che in Allegheny County, i sobborghi residenziali a sud di Pittsburgh, il candidato democratico Conor Lamb ha fatto il pieno dei voti, con punte del 75-78% in alcuni seggi.
Il candidato repubblicano Rick Saccone ha quasi colmato il divario grazie alle zone rurali della circoscrizione, ma non a sufficienza.
Una dinamica che conferma quanto è avvenuto nei mesi scorsi in Alabama (dove, a sorpresa, i democratici hanno strappato un seggio di senatore), in Kansas, in Montana, nello Utah: ovunque i portabandiera democratici hanno migliorato in modo spettacolare le performance del partito nel 2016 (confermando, se ce ne fosse stato bisogno, che Hillary Clinton era un pessimo candidato).
In media, da quando Trump è in carica, nelle numerose elezioni parziali che si sono tenute i democratici hanno ottenuto 17 punti percentuali in più di quanto avessero ottenuto nel 2016, il che rafforza le loro speranze di riconquistare la maggioranza alla Camera in novembre.
Attualmente i repubblicani hanno 24 seggi di maggioranza e sono in grado di mantenere il controllo della Camera anche perdendo molti voti, grazie al disegno delle circoscrizioni, il famoso gerrymandering, che li favorisce. Tuttavia, tradizionalmente il partito che controlla la Casa bianca ha risultati negativi nelle elezioni di metà mandato. Per di più in alcuni stati quest’anno i confini delle circoscrizioni saranno diversi da quelli del 2016 e i democratici sembrano in grado di portare a votare tutti i loro elettori, insieme a un discreto numero di repubblicani delusi (la percentuale di americani che approvano il modo in cui Trump esercita il suo mandato rimane inchiodato attorno a quota 40%).
Il loro obiettivo è conquistare qualche decina di seggi, rovesciando i risultati del 2010 quando i repubblicani conquistarono 63 seggi grazie a una forte mobilitazione anti-Obama.

La Stampa 15.3.18
Trump battuto in Pennsylvania ora teme l’onda democratica
Lamb a un passo dalla conquista del seggio alla Camera I repubblicani: campanello d’allarme per il voto di midterm
di Paolo Mastrolilli


L’ondata democratica, che minaccia di togliere ai repubblicani la maggioranza alla Camera nelle elezioni midterm di novembre, sta diventando un’ipotesi sempre più realistica, dopo il voto di martedì in Pennsylvania.
Una manciata di consensi, 641 per la precisione, separa Conor Lamb da Rick Saccone, il candidato democratico e repubblicano che si contendono il seggio del distretto 18, lasciato vacante dal deputato del Gop Tim Murphy dopo che la sua amante lo ha accusato di averla istigata ad abortire. Il democratico è in vantaggio, ma comunque vada a finire il risultato è allarmante per il partito del presidente, perché nel 2016 Trump aveva battuto Hillary Clinton in questo distretto con uno scarto del 20%. Il messaggio degli elettori è quindi negativo per i repubblicani, perché qui erano così forti che nelle ultime due elezioni i democratici non avevano neppure presentato un candidato.
Conor Lamb, ex marine e procuratore di 33 anni, ha condotto una campagna molto energica, prendendo le distanze dall’ala più liberal del suo partito. Ha detto che non appoggerebbe Nancy Pelosi come Speaker, ed è contro l’aborto. In pratica ha corso come un repubblicano travestito da democratico.
Rick Saccone, 60 anni, si è invece appoggiato a Trump, che sabato è venuto a sostenerlo nei comizi, e in precedenza aveva inviato il vice Pence e il figlio Don ad aiutarlo. Gli analisti pensano che il capo della Casa Bianca abbia annunciato i dazi sulle importazioni di acciaio anche per favorire il candidato repubblicano nella sua sfida, perché questa industria è molto importante nel distretto. Il Gop alla fine è stato costretto ad investire 10 milioni di dollari nella campagna, dove secondo un operativo «avremmo dovuto vincere anche presentando il cane di Saccone».
Lamb ha un vantaggio di 641 voti, ma restano ancora da contare oltre mille schede inviate per posta prima dell’apertura dei seggi. Il problema però è che per colmare lo svantaggio, Saccone dovrebbe conquistare oltre il 70% di questi consensi, in contee dove non ha mai raggiunto il 60%.
Al di là del risultato finale, l’allarme per i repubblicani è doppio: primo, perché il vantaggio del 20% ottenuto da Trump nel 2016 è svanito; secondo, perché lo stesso impegno del presidente e della sua famiglia nella campagna elettorale non sono bastati a invertire la tendenza negativa. Questo è dipeso in parte dalla bravura di Lamb, candidato più abile di Saccone, ma anche da una reazione negativa al capo della Casa Bianca, che ad esempio ha consentito ai sindacati di riportare molti colletti blu nell’ovile democratico. I tagli alle tasse e i dazi, in sostanza, non sono bastati a convincere gli elettori.
Lo Speaker della Camera Ryan, durante una riunione d’emergenza del partito, ha detto che il risultato «è un campanello d’allarme. Però non è detto che costituisca un precedente, perché altrove i democratici non potranno presentare candidati così conservatori». Questo è vero, ma fino ad un certo punto. Lamb infatti appartiene alla corrente strutturata dei «blue dogs», che a novembre spingerà il partito verso il centro in tutto il paese.
Negli Stati Uniti ci sono 119 distretti in cui sono stati eletti deputati repubblicani, con un margine inferiore al 20% ottenuto dal presidente qui in Pennsylvania. Questo li rende vulnerabili, aumentando il rischio che perdano i 24 seggi necessari ai democratici per riprendere la maggioranza alla Camera.
Se ciò succedesse, l’agenda legislativa di Trump verrebbe paralizzata, e i suoi oppositori potrebbero avviare il processo di impeachment per il «Russiagate».

Corriere 15.3.18
Basta stragi, i ragazzi fermano l’America
Studenti contro le armi da New York alla California, in vista della grande marcia su Washington
di G. Sar


WASHINGTON I ragazzi d’America di nuovo in strada. Ieri alle 10 sono usciti dalle scuole e hanno marciato per 17 minuti: uno per ogni studente e insegnante ucciso il 14 febbraio nel liceo di Parkland, in Florida, dal fucile semiautomatico di Nikolas Cruz.
Da New York a Chicago, da Atlanta a Santa Monica. Più le cittadine delle stragi ormai storiche, come Colombine in Colorado, 13 morti nel 1999.
E’ il movimento «#neveragain», sempre più poderoso, collegato dai fili invisibili e robusti di Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat. Tante correnti pronte a confluire da ogni Stato nella grande manifestazione di Washington, il 24 marzo, la «March for our lives» che si annuncia imponente come le «Women march» del gennaio 2017 e 2018. Gli slogan sono semplici come l’urlo, «Mai più»; oppure drammatici e musicali come: «Ehi Ehi, Nra, How many kids have you killed today?» che viene scandito più o meno così: «ei ei ennarei/ hau meni kids/ ev iu killd tudei?». E che significa: «Nra quanti ragazzi hai ucciso oggi?».
La Nra è la National Rifle Association, l’associazione dei produttori, venditori e possessori di armi. Ha 5 milioni di associati, un bilancio annuale di 300 milioni di dollari e decine di parlamentari a libro paga, quasi tutti repubblicani. Questo è lo scontro: studenti, genitori e insegnanti opposti alla lobby più influente del Paese. E tanto per mettere le cose in chiaro la Nra ieri ha twittato l’immagine di una mitraglietta Ar-15 con il messaggio: «Controlleremo le nostre armi grazie». Ma sulla rete una delle ragazze di Parlkand, Emma Gonzalez in un solo mese ha raccolto 1 milione e 125 follower su Twitter, superando gli 827 mila di Dana Loesch, la portavoce, con abbondante visibilità televisiva, della Nra. In mezzo c’è la politica. Subito dopo la sparatoria di San Valentino, Donald Trump aveva annunciato «misure importanti». Oggi, arrivati al dunque, nel Congresso si discute di come rafforzare i controlli sugli acquirenti, di mettere guardie armate a protezione delle scuole e, infine, di aumentare da 18 a 21 anni l’età di chi compra un’arma, fingendo di dimenticare che Stephan Paddock, il killer di Las Vegas, 58 morti tra i fan di un concerto, di anni ne aveva 64.
Palliativi, secondo gli studenti. Nel pacchetto legislativo non c’è per esempio alcuna limitazione allo smercio dei fucili d’assalto. Ieri i leader del Partito democratico, Nancy Pelosi e Chuck Schumer, sono usciti da Capitol Hill per andare a salutare i giovani. Ma i democratici non sembrano in grado di spezzare la resistenza dei repubblicani. Senza contare che anche i progressisti hanno le loro contraddizioni. Un esempio: un personaggio nuovo come Conor Lamb, il trentatreenne vincitore del seggio alla Camera in palio in Pennsylvania, aveva «rassicurato» gli elettori dichiarandosi contrario alla stretta sulle armi.
Sul prato davanti a Capitol Hill settemila paia di scarpe sistemate dagli attivisti di Avaaz ricordano il numero dei bambini e ragazzi sotto i 18 anni uccisi dalle armi negli Stati Uniti dal 14 dicembre 2012, giorno della carneficina nella scuola elementare di Sandy Hook, nel Connecticut.

Corriere 15.3.18
La Cia, le torture e l’azzardo di Trump
di Giuseppe Sarcina


A Donald Trump è bastato un «tweet» per nominare il nuovo Segretario di Stato, Mike Pompeo, e la prima donna, Gina Haspel, alla direzione della Cia. Ma per ottenere la ratifica del Senato, servono i voti, non i telefonini.
Non sarà affatto semplice per Gina Haspel, 61 anni, l’attuale numero due su cui pesa l’ombra delle torture. Nel 2002 era a capo dell’operazione «Cat’s eye», occhio di gatto, in una prigione occulta in Thailandia. Erano gli anni della guerra ad Al Qaeda, scatenata dopo l’11 settembre 2001. I terroristi catturati dalla Cia venivano sottoposti al «waterboarding»: testa coperta con un cappuccio e immersa nell’acqua. Un trattamento riservato ad almeno un qaedista, Abu Zubayda, nel carcere segreto thailandese, con la supervisione di Gina Haspel.
Ieri il senatore repubblicano John McCain, seviziato quando era prigioniero in Vietnam, ha avvisato: «E’ necessario che la signora Haspel spieghi la natura e l’estensione del suo ruolo nel programma di interrogatori della Cia; così come dovrà chiarire che cosa pensi oggi della tortura e qual è il suo approccio alla legislazione corrente». Un altro conservatore, l’outsider Randy Paul, ha già fatto sapere che voterà contro la conferma sia di Pompeo che di Haspel. La maggioranza dei repubblicani è già di per sé precaria: 51 a 49.
La procedura rischia di trasformarsi in un processo al passato. Certamente non aiuterà l’atteggiamento di Trump, che ha più volte giustificato, «se necessario», l’utilizzo della tortura e che, concretamente, ha deciso di mantenere aperta la prigione di Guantanamo.

Haspel proverà a difendersi ricordando il contesto di quegli anni. E poi con il suo percorso professionale, sempre in crescita anche sotto la presidenza di Barack Obama.

Il Fatto 15.3.18
L’orgoglio dei moscoviti: “Per fortuna c’è Vladi”
“Provocazioni” - Le accuse anglosassoni sono un ulteriore aiuto al presidente-candidato alla vigilia delle elezioni per il 4° mandato
di Michela A. G. Iaccarino


“Djadja Vova, zio Vladimir ci difenderà”. Oleg, designer, 33 anni, è davanti alla tv da ore. “Ci attaccano di nuovo, è una scusa. Senza Putin faremmo la fine dell’Ucraina”. Sullo schermo la parola “provokazija” lampeggia nella striscia verde senza interruzione. “La Britannia è uscita dall’Unione europea, ha paura di rimanere una malenkaja, severnaja strana”. Un piccolo paese del nord. “Nella stampa estera non hanno dokosatelstvo, prove del nostro coinvolgimento nell’avvelenamento”. Le voci dei talk show sul caso Serghey Skripal fanno eco da una stanza all’altra, da un appartamento all’altro, su ogni piano, in tutto il palazzo, qui a due passi dalla metro Tverskaja. Dopo provocazione, la parola cambia: sulla striscia si legge “ultimatum” in cirillico. Accade in ogni casa, alla stessa ora, in questa Mosca sotto zero.
“Guardate le foto sui giornali occidentali: ci sono i chimici con gli scafandri, ma i soldati dietro senza nemmeno le maschere antigas. Che cos’è questo circo? Questa è una provocazione” dice il presentatore di Ntv. Anche Andrej Lugovoi è in tv. L’ex membro del Kgb, poi Fsb (i servizi di sicurezza russi, ndr), sospettato di aver ucciso l’ex agente russo Aleksandr Litvinenko insieme a Dmitry Kovtun a Londra con il plutonio radioattivo, ora è membro del comitato di Sicurezza della Duma per volere del presidente: “Vogliono demonizzare Mosca”, che non ha alcun coinvolgimento nella faccenda.
La Nato ha appena chiesto che la Russia risponda all’ultimatum della May sul programma del “novicok”, il gas nervino soprannominato “pivello”, usato per avvelenare Skripal e sua figlia Yulia su una panchina del parco di Salisbury. Lo scienziato Vil Mirzayanov, scappato dai laboratori sovietici verso gli Stati Uniti nel 1990, ne ha rivelato l’esistenza. Ma per il giornale Argumenty e Fakty è “propaganda dell’ovest”. Per il quotidiano Kommersant è “un’azione politica nervosa, la Britannia e i suoi alleati preparano nuove sanzioni contro la Russia”.
E la radio informa che Mosca è già pronta a rispondere alle sanzioni “in maniera simmetrica”.
Skripal entra nella campagna elettorale sul Pervij Kanal: per il candidato ultanazionalista Vladimir Zhirinovsky la spia doppiogiochista “non era più di alcun uso per loro”, sono stati i servizi segreti inglesi a organizzare tutto, con quella sostanza “misteriosa e rara” usata per accusare di nuovo Mosca. Sono le due di notte, ma la mattina dopo al programma Vremja Pokazhet, “il tempo dimostra”, la notizia è sempre uguale, con nuovi esperti ed analisi.
“Non possediamo alcuna informazione su quella che possa essere stata la causa della malattia di Skripal”. Il portavoce del presidente e del Cremlino, Dimitry Peskov, ha detto che Mosca non sa niente ma è sempre “pronta alla cooperazione su questo tragico incidente”. Altre parole, di qualche anno fa, per la città risuonano già come un proverbio. “I traditori finiscono sempre male, i servizi segreti vivono secondo le loro leggi e queste leggi sono molto ben conosciute per chi lavora nei servizi segreti” ha detto un altro ex agente del Kgb nel 2010. Domenica prossima diventerà di nuovo presidente della Russia.

il manifesto 15.3.18
È scontro Fatah-Hamas mentre Gaza affonda
Striscia di Gaza. Restano molto tesi i rapporti tra il partito del presidente Abu Mazen e gli islamisti dopo l'attentato, senza conseguenze, di due giorni fa contro il convoglio del premier dell'Anp Rami Hamdallah. La popolazione di Gaza guarda ai suoi problemi quotidiani
Gaza, il cratere provocato dall'esplosione della bomba contro il convoglio del premier
di Michele Giorgio


GAZA Fatah e Hamas si scambiano nuove accuse dopo l’attentato di martedì, senza conseguenze, avvenuto all’ingresso di Gaza contro il convoglio del premier dell’Anp Rami Hamdallah e il capo dell’intelligence Majd Faraj. Il presidente Abu Mazen attribuisce al movimento islamico, che controlla Gaza, tutta la responsabilità dell’accaduto. Hamas, per bocca di uno dei suoi fondatori, Mahmud Zahar, respinge l’accusa di coinvolgimento. «Se Hamas fosse stato interessato all’assassino di Hamdallah allora il primo ministro non sarebbe rimasto vivo», ha spiegato con lapidaria sincerità Zahar, riferimento nella direzione politica del braccio armato di Hamas. Le indagini sull’attentato continuano, assicura il capo delle forze di sicurezza di Gaza Tawfiq Abu Naim. Per ora non si sa nulla se non che sono stati fermati alcuni sospetti. Nessuno ha rivendicato l’attacco.
Comunque sia andata la popolazione di Gaza in poche ore ha metabolizzato l’accaduto e ieri appariva di nuovo immersa nei suoi problemi. Nessuna curiosità per il piccolo cratere aperto nell’asfalto dall’esplosione dell’ordigno nascosto ai margini della strada tra il valico di Erez e il capoluogo Gaza city. Sono troppi e sempre più difficili da risolvere i problemi di questo piccolo pezzo di terra palestinese causati soprattutto dal blocco attuato da oltre dieci anni da Israele (e dall’Egitto). Non sorprende che dei 540 milioni di dollari che le Nazioni Unite chiedono ai Paesi donatori per gli aiuti umanitari nei Territori palestinesi occupati, il 75% sia destinato proprio alla Striscia di Gaza. Oggi a Roma è prevista una conferenza internazionale in sostegno dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi colpita dal taglio di 300 milioni di dollari nelle donazioni Usa. «L’elettricità è scarsa, l’acqua è in gran parte non potabile, l’economia è ferma, la disoccupazione sfiora il 50% tra gli adulti – ci dice Basem Abu Jrai, un ricercatore del Al Mezan for Human Rights – e le poche imprese che lavorano poi non riescono a vendere i loro prodotti fuori da Gaza. Lo scorso anno le esportazioni sono state appena il 2% rispetto al totale delle importazioni. Israele non lascia uscire nulla dalla Striscia».
Ed è paradossale che per parlare di Gaza e dei suoi problemi due giorni fa si siano incontrati alla Casa Bianca, su invito dell’Amministrazione Trump, i rappresentanti di Israele, Bahrain, Egitto, Oman, Qatar, Arabia Saudita e di vari Paesi europei in assenza dei principali interessati: i palestinesi. L’Anp ha respinto l’invito Usa non tanto, o non solo, per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto da Trump, ma perché vi ha scorto il tentativo di promuovere il “piano di pace” Usa che non prevede la nascita dello Stato di Palestina. L’inviato americano per il Medio Oriente Jason Greenblatt ha presentato una serie di misure per Gaza senza affrontare il blocco israeliano, storica causa della crisi. Alla fine l’iniziativa Usa si è rivelata per quello che era: un pretesto per far incontrare i delegati israeliani con quelli dei Paesi del blocco sunnita del Golfo.
A Washington nessuno ha affrontato le critiche che il Controllore israeliano dello Stato ha rivolto all’Esercito e al governo Netanyahu per come ha gestito l’ultima guerra contro Gaza. In particolare per la cosiddetta direttiva “Annibale” che all’inizio di agosto 2014 vide le forze armate israeliane bombardare massicciamente i quartieri orientali di Rafah in reazione alla cattura di un ufficiale dello Stato ebraico da parte di combattenti palestinesi. I civili uccisi furono oltre 100.

La Stampa 15.3.18
L’origine della vita
di Stephen Hawking


Secondo il popolo Boshongo dell’Africa Centrale, all’inizio c’era solo oscurità, acqua e il grande dio Bumba.
Un giorno Bumba, afflitto da un mal di pancia, ha vomitato il sole. Il sole ha prosciugato l’acqua producendo la terra. Ancora dolente, Bumba ha vomitato la luna, le stelle e poi alcuni animali. Il leopardo, il coccodrillo, la tartaruga, e finalmente l’uomo. Questo mito della creazione, come molti altri, tenta di rispondere alla domanda che ci poniamo tutti: perché siamo qui? Da dove veniamo?
...
Supponiamo che l’inizio dell’Universo sia come il Polo Sud sulla Terra, con i gradi di latitudine che giocano il ruolo del tempo. L’Universo inizierebbe in un punto al Polo Sud. Mentre ci si muove verso Nord, i cerchi di latitudine costante che rappresentano la dimensione dell’Universo si espandono. Chiedersi cosa accade prima dell’inizio dell’Universo diventa una questione senza senso, poiché non c’è niente a Sud del Polo Sud.
Il tempo, misurato in gradi di latitudine, dovrebbe iniziare al Polo Sud, ma il Polo Sud è simile ad ogni altro punto. Almeno così mi è stato detto. Sono stato in Antartide ma non al Polo Sud. Le stesse leggi della natura avvengono al Polo Sud come in altri posti. Questo rimuoverebbe la vecchia obiezione che l’Universo abbia un inizio che sarebbe il posto in cui le leggi normali si interrompono. L’inizio dell’universo sarebbe invece governato dalle leggi della scienza.
Lo schema che Jim Hurtle e io abbiamo sviluppato, della creazione spontanea quantistica dell’Universo, è simile alla formazione di bolle di vapore nell’acqua bollente. Le storie più probabili dell’Universo sono come le superfici delle bolle. Parecchie bollicine apparirebbero e scomparirebbero, come mini-Universi che si espandono e collassano immediatamente, mentre sono ancora microscopici... Alcune bollicine crescerebbero fino ad una grandezza tale da non collassare. Esse continuerebbero ad espandersi ad una velocità sempre maggiore e formerebbero le bolle che vediamo, che corrispondono agli Universi in espansione perenne. Questa è chiamata inflazione, come il meccanismo dei prezzi, che vanno sempre su.
...
Noi siamo il prodotto di fluttuazioni casuali quantistiche dell’Universo primordiale. Davvero Dio gioca a dadi.
Abbiamo fatto un tremendo progresso in cosmologia. Quando ho iniziato le mie ricerche, la cosmologia era vista come una pseudoscienza in cui speculazioni libere non erano verificate da nessun osservazione. La situazione ha iniziato a cambiare in fretta, sia perché la nuova tecnologia ha permesso le osservazioni sia per l’avanzamento delle teorie... Ma non tutto è stato risolto. Non abbiamo ancora una buona comprensione teorica del fatto che l’espansione dell’Universo stia accelerando di nuovo, dopo un lungo periodo di rallentamento. Continuerà ad espandersi per sempre? Oppure collasserà di nuovo?
La cosmologia è un argomento molto eccitante. Siamo vicini a rispondere alle antiche domande: perché siamo qui e da dove proveniamo?

il manifesto 15.3.18
Stephen Hawking
Il signore delle stelle sulle orme visionarie di Einstein
Scompare all’età di 76, l’astrofisico che ha dedicato le sue ricerche ai buchi neri e agli effetti della gravità sullo spazio e sul tempo. Autoironico, colpito dalla sla all’età di 21 anni, visionario. Nato lo stesso giorno di Galileo e morto in quello del padre della relatività, le sue teorie sono state spinte al limite
di Andrea Capocci


La morte del fisico Stephen W. Hawking ha avuto una risonanza mediatica straordinaria. La sua eccezionale vicenda umana ha raggiunto un pubblico molto più ampio della comunità accademica. Pochi, tuttavia, conoscono il contributo scientifico dello scienziato inglese.
Hawking, nato il giorno del compleanno di Galileo e morto in coincidenza di quello di Einstein, ha compiuto ricerche di eccezionale valore nel loro stesso settore: lo studio degli effetti della gravità sullo spazio e sul tempo. Mentre per Galileo il tempo era assoluto e indipendente dalle forze, secondo la teoria di Einstein la gravità deforma sia lo spazio che il tempo.
LE IMPLICAZIONI, osservabili solo su scala astronomica o negli acceleratori di particelle, sono notevoli: per esempio, la gravità delle stelle devia la luce dalla traiettoria rettilinea. Hawking si è dedicato allo studio di condizioni ancora più estreme, in cui le teorie di Einstein sono spinte al limite. Cosa succede, infatti, quando una stella collassa su se stessa e, secondo le equazioni di Einstein, curva lo spazio-tempo al punto da risucchiare anche la luce? In queste condizioni, dette «singolarità», la teoria della relatività potrebbe non bastare. Fino agli anni ‘60 sembrava solo una possibilità teorica. Per fortuna di Hawking, tutto è cambiato con la scoperta delle stelle di neutroni ad altissima densità e, più recentemente, degli stessi buchi neri, rivelati indirettamente dall’attrazione esercitata sulle stelle circostanti. Confrontando le osservazioni astrofisiche con le previsioni teoriche, si poteva verificare la teoria della relatività di Einstein e, eventualmente, superarla.
Hawking, poco più che ventenne, è stato uno dei pionieri di questo campo di ricerca e oggi dobbiamo a lui molte previsioni sui buchi neri. Per esempio, nel 1974 Hawking teorizzò che sul limite esterno di un buco nero dovesse emettere una radiazione di origine quantistica che oggi prende il suo nome. Infatti, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg nemmeno nel vuoto l’energia vale esattamente zero, e piccole quantità di energia nascono e muoiono continuamente. Perciò, il vuoto cosmico in realtà è pieno di coppie di particelle dalla vita brevissima. Secondo Hawking, il buco nero dovrebbe risucchiare una particella di ogni coppia e l’altra potrebbe essere rilevata dagli astronomi, rendendo il buco nero un po’ meno «nero». Secondo i calcoli, la radiazione di Hawking è troppo debole per essere misurata. Se però nel Big Bang furono creati molti buchi neri di piccole dimensioni, come ipotizzava lui, la somma delle radiazioni potrebbe aver generato un segnale osservabile. Purtroppo, i dati non hanno confermato questa ipotesi.
NEGLI ANNI ‘70, Hawking riuscì a stimare altre caratteristiche fisiche dei buchi neri, come la temperatura e l’entropia. Sulle sue teorie ha spesso cambiato idea, stimolato dai colleghi con cui scommetteva volentieri. La scoperta del bosone di Higgs gli costò cento dollari, ma lì giocava in trasferta perché non era il suo settore. Anche sui buchi neri si ricredette. Inizialmente, la sua teoria generava paradossi inconciliabili con la meccanica quantistica. Un buco nero avrebbe cancellato ogni informazione su un oggetto risucchiato mentre, secondo la teoria quantistica, l’informazione non si crea né si distrugge – come l’energia. Nel 2004, lo stesso Hawking ammise di aver torto: quella volta aveva scommesso un’enciclopedia, «da cui ogni informazione si può sempre recuperare».
Hawking sapeva fare lo spiritoso e amava i paradossi. Per dimostrare che i viaggi nel tempo non sono possibili, nel 2009 organizzò una grande festa a Cambridge, a cui erano tutti invitati. Ma spedì gli inviti solo all’indomani della festa, in modo che i partecipanti dovessero viaggiare all’indietro nel tempo. «Ho aspettato a lungo, ma non è venuto nessuno». Aveva ragione lui.
Grazie a lui, oggi i buchi neri e il Big Bang sono oggetti meno misteriosi e rappresentano dei laboratori naturali per mettere alla prova le nuove teorie. Da queste ricerche potrebbe nascere una teoria quantistica della gravità a cui lo stesso Hawking si è dedicato negli ultimi anni della carriera. Le sue ultime pubblicazioni scientifiche in materia sono datate 2017. È un’età in cui molti scienziati in ottima salute si godono i nipotini. Hawking invece non ha mai smesso di assistere allievi, tenere conferenze e girare il mondo, malgrado le limitazioni fisiche. Per la sua fama, è diventato un commentatore molto (troppo?) ascoltato sulle tematiche più diverse.
L’ULTIMA SUA PASSIONE riguardava il futuro dell’umanità, assediata da mutamento climatico, robotizzazione e sovrappopolazione. La sua fiducia nella tecnologia talvolta sfociava nel tecno-utopismo, come quando promuoveva la colonizzazione di nuovi pianeti per salvare il genere Homo o decretava la fine della filosofia superata dalle scoperte della fisica. Però invitava alla cautela nei confronti dell’intelligenza artificiale e richiamava alla necessità politica di coniugare innovazione e progresso sociale, difendendo i diritti sociali a sanità e istruzione.
Nonostante gli onori, o forse proprio a causa loro, la figura di Hawking ha generato anche una schiera di detrattori. Qualcuno, nei corridoi dei laboratori, ritiene la sua fama sproporzionata rispetto al contributo scientifico. Il suo nome non compare quasi mai nelle liste dei «grandi» della fisica, soprattutto se a stilarle sono gli scienziati. D’altronde, le sue ricerche hanno generato congetture brillantissime e matematicamente complesse, ma ancora prive di conferme sperimentali. Per questo motivo Hawking non è mai andato vicino a vincere un premio Nobel. Nemmeno Einstein fu premiato per la teoria della relatività generale, che aveva il difetto di essere «solo una teoria». Ma la scoperta delle onde gravitazionali, che ha vinto il Nobel cento anni dopo, gli ha reso infine giustizia. Per giudicare Hawking, dunque, risentiamoci un po’ più in là.

Il Fatto 15.3.18
Guido Tonelli
“Sul bosone Hawking perse la scommessa ma ne fu felice”
Il docente di Fisica ricorda lo scienziato scomparso: “Ci vorranno decenni per raccogliere tutti i suoi frutti”
di Lorenzo Giarelli


Genio della fisica, ma anche icona pop della divulgazione scientifica. Da quando ieri mattina si è diffusa la notizia della morte di Stephen Hawking, il mondo ha voluto rendere omaggio alle sue scoperte e al modo in cui ha saputo diffonderle, passando dai buchi neri a una puntata dei Simpson, dall’origine dell’universo a un’apparizione in Star Trek. Scienza e cultura popolare, sempre mentre lottava con quella sclerosi laterale multipla che i medici gli avevano diagnosticato a 21 anni e che lo ha accompagnato fino a ieri, quando se ne è andato pochi mesi dopo il 76esimo compleanno. “Hawking ci lascia un patrimonio enorme, ci vorranno decenni per raccoglierne a pieno i frutti”. A ricordarlo è Guido Tonelli, docente di Fisica Generale all’Università di Pisa, portavoce dell’esperimento Cms presso il Cern di Ginevra, quello che nel 2012 annunciò la scoperta del bosone di Higgs.
Professor Tonelli, qual è l’eredità di Hawking?
Dal punto di vista scientifico gli dobbiamo molto. Come tutti i grandi si è concentrato su qualcosa che gli altri trascuravano – i buchi neri – cercando di capirne il funzionamento. Ora sappiamo che queste zone ad altissima concentrazione di materia non assorbono tutto, ma piuttosto riciclano, trasformano quello che attraggono. Sappiamo che la nostra galassia è piena di buchi neri e che possono collidere, dando vita a onde gravitazionali.
Concetti complicati per i non addetti ai lavori.
La divulgazione richiede sempre un equilibrio tra un linguaggio di uso comune e la scienza, che è rigorosa per definizione. La sfida di Hawking è stata parlare di fisica al grande pubblico, mantenendo i concetti essenziali senza usare equazioni, accettando di perdere qualcosa nel racconto scientifico pur di raggiungere più persone possibili.
Spesso la gente fatica anche a cogliere l’impatto delle ricerche di questo tipo nella vita di tutti i giorni. Il lato pop di Hawking ha aiutato in questo senso?
I cellulari che abbiamo in tasca non piovono dal cielo. Non li inventano né Apple né Google, ma sono conseguenza dello studio della natura. Quando scoprirono i laser, sessanta anni fa, nessuno si immaginava ci sarebbero serviti per ascoltare musica o per leggere le etichette al supermercato. Ma la divulgazione è fondamentale anche per un altro aspetto.
Quale?
La scienza influenza anche i rapporti tra le persone, il modo in cui concepiamo l’amore, la religione, lo stare al mondo. Cito Galileo: è anche grazie a lui che l’uomo ha imparato a dubitare dei testi e confidare nella propria ragione. In questo senso la divulgazione, di cui Hawking è stato un maestro, è quasi un dovere morale, perché ci dice dove sta andando la scienza e dove stiamo andando tutti noi.
Lei ha fatto parte del team che cinque anni fa ha scoperto il bosone di Higgs. Stephen Hawking al riguardo era stato scettico.
Non credeva che l’universo potesse essere pieno di questa specie di fluido onnipresente, con il quale le particelle interagiscono e attraverso cui acquisiscono la loro massa caratteristica. Una volta disse anche di aver scommesso 100 dollari sul fatto che il bosone di Higgs non sarebbe mai stato scoperto.
Avete mai avuto modo di parlarne?
Ci siamo incontrati durante una premiazione a Ginevra, nel 2013, proprio dopo l’esperimento. Mi avvicinai e gli chiesi, scherzando, se avesse pagato quella scommessa. ‘Sono felice di aver perso’, mi rispose.
Da allora lo ha rivisto?
No, ma parlavo con chi gli era vicino e tutti mi descrivevano una persona con una gran voglia di vivere, nonostante la malattia. Vedere un genio del genere ingabbiato per così tanti anni in un corpo malato è un insegnamento per tutti noi. C’è un’immagine che forse serve a ricordarlo meglio di tutte le altre.
La può descrivere?
É la foto di Hawking dentro uno shuttle, quando si era fatto portare nello spazio per sperimentare l’assenza di gravità. Mi piace da matti: è il suo sogno di poter ancora realizzare imprese straordinarie.

La Stampa 15.3.18
Quel pensiero visionario in un corpo fragilissimo
di Roberto Battiston


Stephen Hawking è stato senza dubbio un caso unico nel mondo della fisica teorica, grande scienziato ma anche icona inconfondibile, paradosso vivente in cui un corpo fragilissimo ospitava una mente profonda e un pensiero visionario. Lo incontrai al Cern nel 2009, in occasione della sua visita al nostro esperimento Ams (Alpha Magnetic Spectrometer), il cacciatore di antimateria e materia oscura nei raggi cosmici, che dal 2012 è attivo sulla Stazione Spaziale Internazionale. Un uomo fisicamente al limite della sopravvivenza che si spostava da un continente all’altro, per vedere, studiare e capire. Ma la sua fragilità era pari alla sua curiosità e - possiamo dire - all’esuberanza che caratterizzava la sua teorizzazione scientifica. Se al Cern il nostro dialogo fu lento a causa delle protesi tecnologiche che lo aiutavano a parlare, le sue domande sull’esperimento, su come era fatto, sulle prospettive scientifiche, furono precise e incalzanti, se così possiamo definire un colloquio che avveniva con tempi marziani, con venti minuti che passavano tra ogni domanda e ogni risposta. Passammo più di un’ora ad alta tensione in una discussione surreale, ma scientificamente interessantissima. Uno degli obiettivi del lavoro di Hawking è stato la ricerca della Teoria del Tutto, in grado di realizzare il sogno di una compattazione del sapere in una limitata serie di equazioni collegate tra di loro da armoniche leggi di simmetria. Nella sua curiosità affrontò alcuni dei problemi più difficili della fisica contemporanea, con una comprensibile passione per i buchi neri e per i paradossi ad essi collegati. Problemi che lo hanno portato a sviluppare più volte le sue teorie, talvolta tornando sui suoi passi, ma lasciando la porta aperta a nuovi colpi di teatro. La sua analisi dell’ entropia dei buchi neri è magistrale. Partendo dall’intuizione - oggi data per scontata - che un buco nero può solo aumentare le sue dimensioni e non diminuirle risucchiando tutto ciò che gli passa vicino, luce inclusa, Hawking comprese che la massa di un buco nero definisce le dimensioni dello spazio che circonda la singolarità centrale e che, se si vuole rispettare il secondo principio della termodinamica, il quale afferma che il disordine può solo aumentare, i buchi neri sono obbligati ad emettere una radiazione, che ha preso il suo nome e che li fa lentamente evaporare e sparire. Fu proprio lo studio della meccanica quantistica collegata alla gravità una delle feconde intuizioni di Hawking che gli permise di studiare questa radiazione in grado di sfuggire al corpo nero. Secondo la teoria quantistica, infatti, lo spazio vuoto è riempito di coppie di particelle di materia e particelle di antimateria o antiparticelle che si creano e si annichilano spontaneamente, senza sosta. Siccome si tratta di particelle con cariche opposte che non creano un campo elettrico osservabile: esse si creano e scompaiono così rapidamente che non si possono rilevare in modo diretto e sono per questo chiamate particelle virtuali. Per Hawking queste particelle possono diventare reali se si creano vicino all’ orizzonte degli eventi di un buco nero, in modo che una delle due sia risucchiata dal buco nero, essendo quindi portatrice di energia negativa e facendone diminuire la massa mentre la sua gemella di carica opposta e con energia positiva sopravvive ed entra a far parte dell’Universo. Grazie a questo fenomeno Hawking confutava l’idea consolidata di partenza, secondo la quale i buchi neri sono in espansione continua, prevedendo l’esistenza di una radiazione in grado di fare evaporare il buco nero.
Grazie ad una serie di teoremi dovuti ad Hawking, il fisico israeliano Jacob Bekenstein riuscì a dimostrare che l’entropia di un buco nero è proporzionale all’area della sua superfice divisa per la lunghezza di Planck al quadrato, una formula bellissima che collega la relatività generale alla meccanica quantistica e che solo decenni dopo fu derivata con tecniche di meccanica statistica. Si tratta di una delle prime volte che due teorie così lontane e ancora oggi inconciliabili, la relatività generale, che descrive fenomeni su scala cosmica e la meccanica quantistica che descrive fenomeni nell’infinitamente piccolo, a livello subatomico e di particelle elementari, sono collegate in modo così profondo all’ interno della stessa formula.
Fra molte altre scoperte, Hawking intuì inoltre che un buco nero non può frantumarsi, neppure a causa di una collisione violentissima con un altro buco nero, ma che i due buchi neri si fondono emettendo onde gravitazionali, fenomeno che dal 2015 siamo in grado di osservare grazie ai sensibilissimi interferometri laser posti in Italia e negli Usa. La sua forza, la sua intelligenza ed il suo coraggio sono stati uno stimolo per tutti noi. In un certo senso nell’uomo Hawking venivano amplificati due aspetti caratteristici della nostra specie: da una parte la sua fragilità all’interno dell’immensità che ci circonda, dall’altra la sua grandezza intellettuale che gli ha permesso di esplorare e capire, tramite l’intelligenza e gli strumenti della tecnologia, l’universo fino alle sue origini.

La Stampa 15.3.18
La mente brillante che ha sconfitto il fato e la materia
È vissuto 55 anni con una malattia senza speranza
Rabbioso, ironico, ci ha messo in guardia dai robot
di Vittorio Sabadin


Stephen Hawking è morto a 76 anni nella sua casa di Cambridge, seduto sulla sedia a rotelle, il capo reclinato da un lato, le mani incrociate appoggiate alle gambe magre, come l’abbiamo sempre visto e come lo ricorderemo. Aveva trovato alcune risposte alle domande che gli esseri umani da sempre si pongono: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ma la cosa più importante che ci ha insegnato è che la vita è comunque degna di essere vissuta, e che un senso all’esistenza lo si può trovare anche se costretti per 55 anni a non muovere un solo muscolo. Non riusciva ad alzare un dito, ma la sua mente ha sconfitto la materia, continuando a vagare curiosa per l’Universo.
Hawking era nato a Oxford l’8 gennaio del 1942, esattamente tre secoli dopo la morte di Galileo. A 9 anni era l’ultimo della classe, passava il tempo a smontare orologi e radio per scoprire come funzionavano. Evitava le fatiche inutili (nella squadra di canottaggio era il timoniere) e anche le perdite di tempo: a Oxford sbrigò in tre anni la pratica della laurea e passò poi a Cambridge, dove nonostante la sua infermità avrebbe in breve conquistato la cattedra che era stata occupata da Isaac Newton.
Il primo sintomo, a 17 anni, era stato un dolore a una mano, poi all’altra: sempre più intensi, sempre più pungenti. I medici avevano diagnosticato una sclerosi laterale amiotrofica, che lascia pochi anni di vita. Si sbagliavano: era atrofia muscolare progressiva, grave e crudele allo stesso modo, solo più lenta. A 21 anni aveva interrotto una conferenza del grande cosmologo e accademico Fred Hoyle, per dirgli che si sbagliava. Tremava tutto e i suoi amici pensarono che fosse per l’emozione di quello che aveva osato fare. Ma invece non controllava più i muscoli, rovesciava il tè, parlava con difficoltà. È sorprendente quanto, nonostante tutto, sia stata normale la sua vita: nel 1965 sposò la sua fidanzata di Cambridge, Jane Wilde, dalla quale ebbe tre figli, Lucy, Robert e Tim. Divorziarono nel 1991 e Hawking sposò poi Elaine Mason, una delle sue infermiere, dalla quale divorziò nel 2007. Jane gli aveva salvato la vita nel 1985, durante una visita al Cern di Ginevra: colpito da una polmonite, era così grave che i medici gli praticarono una tracheotomia, recidendo le corde vocali. Volevano staccare gli apparecchi che lo tenevano in vita, ma la moglie si era opposta e lo aveva riportato a casa, moribondo e senza più voce.
Hawking si arrabbiava quando qualcuno voleva aiutarlo a fare qualcosa che lui poteva fare ancora da solo, fosse anche un minimo movimento. Parlava con l’aiuto di un sintetizzatore vocale dall’accento americano, poi con un dispositivo che legge le onde elettriche cerebrali. Ma apprezzava lo stesso la vita, era felice, amava i bambini e li faceva ridere con le evoluzioni della sua carrozzina. Come tutte le persone che raggiungono il vertice nella loro professione era a volte anche arrogante e non trattava bene gli studenti. Passò con le ruote sui piedi di uno che non aveva capito le brevi sentenze che lui poteva pronunciare, come un oracolo la cui parola non si discute. Non credeva in Dio. La creazione non c’è mai stata – diceva -, la religione è basata sull’autorità, la scienza su osservazione e ragionamento. Nel conflitto, la scienza alla fine vincerà.
Era l’astrofisico più celebre al mondo, e gli piaceva. Si è fatto portare al polo Sud, ha viaggiato nello spazio, è stato in fondo al mare e nel pozzo di una miniera. Nei suoi libri ha usato senso dell’umorismo e parole semplici per spiegare concetti complessi: se vi avvicinate a un buco nero, diventerete come un lungo spaghetto prima di scomparire nel nulla. Negli ultimi anni ha lanciato allarmi che dovremmo ascoltare: non cercate di incontrare gli alieni e di chiedere loro aiuto, farebbero come Colombo ha fatto con gli indios; attenti all’intelligenza artificiale, perché causerà l’estinzione dell’umanità; cercate un pianeta dove andare a vivere, avete già distrutto la Terra e non durerà altri due secoli.
Non gli hanno mai conferito il premio Nobel e ora diranno che forse non era uno scienziato così grande. Ma un grande uomo lo è stato, anche solo per avere dimostrato quello in cui credeva: per quanto difficile diventi la vita, c’è sempre qualcosa che si può fare con successo.

Corriere 15.3.18
Risponde Aldo Cazzullo
La vera lezione di Stephen Hawking


Caro Aldo,
la scorsa notte il cielo era pieno di stelle... Stephen Hawkins, il grande astrofisico è morto. Grazie a lui per le sue scoperte, per la sua allegria e, soprattutto, per averci ricordato che la vita vale la pena essere vissuta. Più che iniziative sul fine vita ci vorrebbero uomini che parlano del suo inizio, del suo svolgimento (a volte anche drammatico ma mai privo di senso) e del suo valore.
Angelica Chiara Gallo

Cara Angelica,
Stephen Hawking ha lasciato la sedia a rotelle a cui era inchiodato il suo corpo sofferente per raggiungere forse una dimensione dello spazio-tempo dove il suo spirito fluttua libero. Intuì cose non alla nostra portata. Di lui dovremmo però trattenere almeno due idee.
È importante, come Hawking ha detto, che la tecnologia continui a servire gli uomini, e non viceversa, altrimenti diventeremo schiavi dei computer. Siamo entrati nell’era grandiosa e terribile della riproducibilità tecnica della vita: l’uomo crea l’uomo, o ha l’illusione di farlo. Presto costruiremo uomini nuovi, frutto della clonazione, dell’intelligenza artificiale, della robotica, che avranno come cervello il computer e come memoria la rete: sapranno molte più cose di noi, saranno molto più intelligenti di noi; ed è fondamentale che continuino a obbedirci, che desiderino le cose che anche noi desideriamo; e non finisca come in 2001 Odissea nello spazio, dove Hal 9000 si ribella all’uomo (e alla fine viene sconfitto. Ma Kasparov, l’ex campione di scacchi divenuto dissidente anti-Putin, che ai bei tempi aveva sconfitto un computer, ha detto di recente che i computer di oggi gli darebbero scacco matto in poche mosse).
È altrettanto importante ricordare sempre che l’uomo è più forte di qualsiasi accidente possa porsi sul suo cammino, anche il più ingiusto. Vale per il grande scienziato inglese quel che scrisse di sé il poeta vittoriano William Ernest Henley, tagliato a pezzi per una crudele forma di tubercolosi: «I’m the master of my fate, I’m the captain of my soul»; sono il padrone del mio destino, sono il capitano della mia anima. Era la poesia che Nelson Mandela ripeteva dentro se stesso nei ventisette anni passati nelle carceri dell’apartheid.

Corriere 15.3.18
Il sorriso di Stephen che ci ha insegnato il potere della libertà
di Carlo Rovelli


Moltissimi dei giovani scienziati che ho incontrato nel corso della mia vita sono arrivati alla scienza perché da ragazzi si sono fatti affascinare dai libri di Stephen Hawking. Questo, più di ogni altra cosa, è stato Stephen Hawking: un personaggio unico, la cui particolarissima traiettoria ha affascinato il mondo. È stato uno dei più brillanti fisici teorici della sua generazione, ha avuto intuizioni visionarie sulla struttura dello spazio e del tempo, sull’origine dell’Universo, e sul fato dei buchi neri; ha sofferto di una malattia che lo ha progressivamente paralizzato fino a impedirgli di parlare, e poi fino al punto in cui gli unici muscoli che controllava erano quelli degli occhi, e ciononostante ha continuato per decenni a pensare, viaggiare e scrivere; ha saputo parlare a un pubblico vastissimo nel mondo intero in un linguaggio che incanta, mostrando a tutti le meraviglie più strane dell’Universo; ha avuto la serena spregiudicatezza di dichiarare alte e forti le sue idee, come il suo deciso ateismo o la sua convinzione dell’irrilevanza della filosofia; e, forse più di ogni cosa, ha continuato a sorridere, con quel suo sorriso un po’ sornione e un po’ da ragazzetto impunito, con un implicito straordinario messaggio che anche su una sedia a rotelle, anche senza potere più muovere un muscolo, anche senza dio e senza vita eterna, la vita può essere splendida, e siamo profondamente liberi di creare, e di viverla.

Corriere 15.3.18
Vidi un ragazzo morire nel letto davanti al mio E smisi di commiserarmi
di Stephen Hawking


Mi capita spesso di sentirmi domandare: come ci si sente ad avere la sclerosi laterale amiotrofica? La risposta è: non molto bene. Io cerco di condurre una vita il più possibile normale e di non pensare alla mia condizione, o di non rimpiangere le cose che essa non mi permette di fare, che non sono poi così tante.
Per me fu un trauma molto grave quando seppi di avere la malattia dei motoneuroni. Da bambino non ho mai avuto una grande coordinazione motoria. Non ero bravo nei giochi con la palla, e forse fu proprio questa la ragione della mia mancanza di interesse per lo sport o per le attività fisiche. Le cose parvero però cambiare quando andai a Oxford. Cominciai a fare il timoniere nel canottaggio. Non ero certamente a un livello di gare ufficiali, ma me la cavavo a quello delle gare fra college.
Wagner e i brutti sogni
Nel mio terzo anno a Oxford, però, notai che mi sembrava di diventare più impacciato nei movimenti, e un paio di volte caddi senza alcuna ragione apparente. Solo dopo il mio passaggio a Cambridge, l’anno seguente, mia madre se ne accorse e mi condusse dal medico di famiglia. Egli mi mandò da uno specialista e, poco dopo il mio ventunesimo compleanno, mi ricoverarono in ospedale per esami. Vi rimasi un paio di settimane, durante le quali fui sottoposto a una grande varietà di analisi. Mi prelevarono un campione di muscolo da un braccio, mi applicarono elettrodi, mi iniettarono nella spina dorsale un liquido radio-opaco e lo osservarono ai raggi X andare su e giù mentre inclinavano variamente il letto.
Alla fine non mi dissero che cosa avevo, tranne che non era una sclerosi multipla, e che ero un caso atipico. Mi resi conto però che si attendevano che continuassi a peggiorare, e che non potevano fare altro che somministrarmi vitamine. Era chiaro anche che non si aspettavano che le vitamine potessero fare granché. Non mi sentii di domandare altri particolari, essendo già chiaro che erano decisamente sfavorevoli.
La consapevolezza di avere una malattia incurabile che mi avrebbe probabilmente ucciso in pochi anni fu per me un trauma. Com’era possibile che una cosa del genere fosse accaduta proprio a me? Perché dovevo essere stroncato in quel modo? Mentre ero in ospedale, però, avevo visto un ragazzo che conoscevo vagamente morire di leucemia nel letto di fronte al mio. Non era stato certamente un bello spettacolo. Era chiaro che c’erano persone che stavano peggio di me. Almeno, la mia condizione non mi faceva soffrire fisicamente. Ogni volta che sono incline a commiserarmi mi viene in mente quel ragazzo.
Non sapendo che cosa mi sarebbe accaduto, o quanto rapidamente avrebbe progredito la malattia, non stavo facendo nulla. I medici mi dissero di tornare a Cambridge e di proseguire la ricerca che avevo appena iniziato sulla relatività generale e la cosmologia. Io, però, non stavo facendo molti progressi perché non avevo una grande preparazione matematica, e in ogni caso non sarei vissuto abbastanza per terminare la mia tesi di dottorato. Mi vedevo come un personaggio da tragedia. Cominciai ad ascoltare Wagner, mentre è un’esagerazione che mi fossi dato al bere.
A quel tempo facevo molti brutti sogni. Prima che mi fosse diagnosticata la malattia ero piuttosto annoiato della vita. Mi sembrava che non ci fosse niente che valesse la pena di fare. Poco dopo essere uscito dall’ospedale, però, sognai che stavo per essere giustiziato. D’improvviso mi resi conto che c’era una quantità di cose importanti che avrei potuto fare se la mia condanna fosse stata sospesa. Un altro sogno che feci varie volte fu quello che sacrificavo la mia vita per salvare altri. Dopo tutto, se dovevo morire comunque, la mia vicenda poteva avere anche qualche aspetto positivo.
Le nubi si diradano
Ma non morii. Anzi, benché una grossa nube nera incombesse sul mio futuro, trovai, non senza stupirmi, che stavo apprezzando la vita più di prima. Cominciai a fare progressi nella mia ricerca, mi fidanzai e mi sposai e ottenni una borsa di studio di ricerca al Caius College di Cambridge.
La borsa di studio al Caius risolse il mio problema immediato dell’impiego. Fu una fortuna che avessi scelto di lavorare in fisica teorica perché questa era una delle poche aree in cui la mia condizione non mi avrebbe gravemente svantaggiato. E fu una fortuna che la mia reputazione scientifica crescesse al peggiorare della mia invalidità.

Repubblica 15.3.18
Ha cambiato la fisica con eleganza
Dal big bang ai buchi neri ( non così neri) ecco la sua rivoluzione della cosmologia
di Gianfranco Bertone


Stephen Hawking ha ispirato attraverso i suoi libri e le sue apparizioni sui media milioni di persone di ogni età e provenienza. Il mito di Hawking deve molto alla sua straordinaria umanità, e a quella combinazione unica di tenacia e leggerezza con cui ha affrontato la sua disabilità e il suo status di celebrità mondiale.
Ma al cuore della sua fama ci sono i suoi contributi scientifici, che hanno avuto un enorme impatto sulla fisica teorica, e di cui non abbiamo ancora finito di capire appieno le implicazioni.
Se nella vita reale Hawking è stato costretto su una sedia a rotelle, nel mondo della fisica teorica egli era un formidabile avventuriero, un esploratore di territori fino ad allora inaccessibili e inesplorati. A portarlo all’attenzione della comunità scientifica nella seconda metà degli anni 1960 sono stati i suoi lavori sulle cosiddette “singolarità”, ovvero dei punti in cui la densità di materia diventa infinita, e così anche la curvatura dello spazio e del tempo, che secondo la teoria della Relatività generale di Einstein sono fusi in una unica entità chiamata spaziotempo. In quegli anni si studiavano in particolare le proprietà dei buchi neri, singolarità prodotte dal collasso gravitazionale delle stelle. Nella sua famosa tesi di dottorato, pubblicata nel 1966, Hawking dimostrò che riavvolgendo all’indietro l’espansione del cosmo si arriva inevitabilmente ad un’altra singolarità detta “cosmologica”, mettendo così in relazione questi due argomenti apparentemente scollegati: “dal Big Bang ai buchi neri”, come recita il titolo del suo libro di divulgazione più famoso.
Ma il risultato più importante di Hawking è forse la scoperta, descritta in due articoli pubblicati nel 1974 e 1975, che i buchi neri non sono proprio “neri” ma emettono una forma di radiazione che sottrae progressivamente energia al buco nero fino a farlo possibilmente scomparire. Per ottenere questo risultato Hawking dovette mettere insieme la teoria quantistica con la teoria della relatività generale di Einstein, per dimostrare che la curvatura dello spaziotempo potesse creare nuove particelle, e che queste inevitabilmente sottraessero energia al buco nero. Nel fare questo, egli arrivò anche a stabilire un sorprendente parallelo tra la fisica dei buchi neri e la termodinamica, e ad associare a questi oggetti una definizione di temperatura e di entropia. Queste intuizioni hanno avuto un’enorme influenza sulla fisica teorica, e ne troviamo oggi traccia ovunque: dalle teorie che spiegano l’esistenza di ciò che osserviamo nel cosmo a partire da microscopiche fluttuazioni quantistiche nell’universo primordiale, a quelle più speculative secondo cui l’intero universo sarebbe una sorta di proiezione olografica di una realtà bidimensionale.
Leggere gli articoli di Hawking è per i fisici di oggi un’esperienza altamente formativa, ma anche in un certo senso straniante. Fisica quantistica, gravità, termodinamica, relatività speciale: tutta la fisica sembra fondersi insieme nelle sue dimostrazioni, per riemerge poi cristallizzata in formule elegantissime. Forse è questa l’eredità più importante di Hawking: ci ha insegnato a spingerci con coraggio, fantasia e rigore oltre la frontiera di ciò che conosciamo, e ad esplorare i misteri del cosmo, dal big bang ai buchi neri.

Repubblica 15.3.18
L’inedito
Da dove veniamo e perché qui? Presto la scienza risponderà
di Stephen Hawking


In quest’ultimo secolo la cosmologia ha fatto dei progressi enormi. La Teoria della Relatività Generale e la scoperta dell’espansione dell’universo hanno mandato in frantumi la vecchia immagine di un universo eterno che esiste da sempre. La Relatività Generale sostiene invece che l’universo e il tempo abbiano avuto inizio con il Big Bang e che il tempo terminerà con dei buchi neri.
La scoperta della Radiazione Cosmica di Fondo e le osservazioni dei buchi neri confermano queste conclusioni. Il nostro quadro dell’universo e della realtà è quindi profondamente cambiato.
Grazie alla Teoria della Relatività Generale sapevamo che l’universo doveva aver attraversato un periodo di alta curvatura nel passato, ma non potevamo dire come fosse emerso dal Big Bang.
La Relatività Generale da sola non può quindi rispondere alla domanda centrale della cosmologia: perché l’universo è così come lo vediamo? Tuttavia, combinando la Relatività Generale con la Teoria Quantistica si potrebbe giungere a una spiegazione delle origini dell’universo.
Inizialmente l’universo si sarebbe espanso a una velocità sempre crescente. In questo periodo, detto inflazionario, l’unione delle due teorie ci dice che dovrebbero svilupparsi piccole fluttuazioni in grado di dar luogo a galassie, stelle e altre strutture presenti nell’universo. Questa ipotesi è confermata dalle osservazioni di piccole non-uniformità nella Radiazione Cosmica di Fondo che hanno esattamente le proprietà previste.
Sembrerebbe quindi che siamo sulla strada giusta per comprendere l’origine dell’universo, anche se bisognerà ancora lavorare molto.
Nonostante i grandi successi, non tutto è stato ancora risolto.
Non siamo ancora giunti a una buona comprensione teorica del perché l’espansione dell’universo abbia ripreso ad accelerare, dopo un lungo periodo di rallentamento.
Finché non capiremo questo fenomeno, non potremo sapere con certezza quale sarà il futuro dell’universo. Continuerà a espandersi per sempre?
L’inflazione è una legge di natura? Oppure l’universo finirà per collassare? Nuovi dati basati sull’osservazione e progressi teorici si susseguono rapidamente. La cosmologia è una disciplina molto attiva ed entusiasmante. Perché siamo qui? Da dove veniamo? La risposta a queste domande è ormai vicina e io sono convinto che arriverà dalla scienza.

Corriere 15.3.18
Società L’uomo nuovo arriva sul web
Esce oggi il nuovo saggio di Massimo Gaggi (Laterza) sulle trasformazioni della vita e del lavoro
Dalla rivoluzione digitale emergono un’élite privilegiata e masse impoverite
di Aldo Grasso


Stiamo vivendo la più grande rivoluzione antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto e non ce ne accorgiamo. O meglio, sì qualcosa intuiamo perché lo smartphone ci fa sentire al centro del mondo, perché siamo affascinati dalle infinite possibilità offerte da Internet e dai suoi motori di ricerca, perché siamo sui social e possiamo dire finalmente la nostra, perché leggiamo dei progressi raggiunti dalle biotecnologie che modificano e allungano la vita, perché l’intelligenza artificiale viene in soccorso alla nostra, che non sempre si è dimostrata all’altezza.
Come Fabrizio del Dongo ne La certosa di Parma di Stendhal siamo nel cuore di cambiamenti epocali: il marchesino vagava intorno all’umido campo di battaglia di Waterloo senza capire bene cosa stesse succedendo. Ci sono persone (lo scrivente appartiene al gruppo) che hanno una straordinaria capacità di manifestare sempre una sorta di inadeguatezza di fronte ai grandi cambiamenti. Insomma, sono prigionieri della famosa domanda che Fabrizio rivolge al tenente degli Ussari: «Signore, ma questa è davvero una battaglia?».
Sì è una grande battaglia, un vero e proprio sconvolgimento. Per fortuna, in veste di preziosa guida, è appena uscito un libro di Massimo Gaggi, Homo premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza), che ci aiuta a fare i conti con una nuova realtà, ma soprattutto con una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica, persino sulla nostra salute. Intanto la Old Economy del petrolio è stata superata dai nerd della Silicon Valley, il mondo delle tecnologie digitali è dominato da cinque gruppi — Google, Amazon, Facebook, Microsoft e Apple — dietro i quali un numero crescente di voci denuncia la diffusione di pratiche oligopolistiche o, addirittura, la formazione di monopoli di fatto.
Tutto è connesso, tutto si tiene, tutto si smaterializza. Ma nel mondo digitale non tutto è oro quello che sberluccica e finché vivremo la tecnologia come gadget, come gratuità, come suggestione visionaria, rischiamo di essere travolti dalle macchine senza più essere in grado di dominarle. Gaggi ne è ben cosciente: «Questo libro nasce dalla convinzione — maturata in viaggi e incontri con esponenti di imprese tecnologiche negli Stati Uniti, oltre che nel confronto con esponenti politici e sociali americani, europei e anche italiani — di una generale sottovalutazione dell’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo non solo sul lavoro, ma anche sui rapporti sociali, sulla politica e, addirittura, sulla salute dell’uomo». E la sottovalutazione non può che portare alla nascita di una figura sociale, tanto nuova quanto inquietante, quella che dà il titolo al libro, l’ homo premium . Chi è quest’uomo? È un uomo molto ricco, bello, fisico da atleta e intelligenza da Ivy League, ma è un uomo che si lascia alle spalle enormi gruppi sociali svantaggiati «che già oggi non solo conducono una vita più modesta, ma vivono anche mediamente di meno, come conseguenza di una serie di fattori sanitari, sociali, alimentari e legati all’istruzione, diversamente combinati nelle varie aree del mondo».
È questo il mondo che ci attende al termine, se termine ci sarà, di questa rivoluzione continua? La favola della Silicon Valley, il mito di un mondo esteticamente migliore creato da Steve Jobs, il sogno della libertà a portata di tastiera sono finiti, esplosi come una bolla di sapone?
C’è una parola con cui dovremo fare i conti, perché è una delle chiavi del nostro domani, la parola è blockchain . L’economia del futuro potrebbe assumere le sue sembianze perché è una parola «nella quale qualche “evangelista” della rete già vede il vessillo di una riedizione, nel terzo millennio, della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, viene invocata per promuovere la democrazia diretta elettronica e una rivoluzione dell’organizzazione amministrativa dello Stato».
Più che una tecnologia, la blockchain è un paradigma che serve a interpretare il grande tema della decentralizzazione e della partecipazione, un modo destinato a rivoluzionare profondamente il sistema economico, modificando alla base i concetti di transazione, proprietà e fiducia. Per questo, com’è ovvio, esistono diverse declinazioni, diverse interpretazioni e diverse definizioni della blockchain . Per ora, si manifesta come un registro diffuso, dove si tiene traccia di ogni movimento senza possibilità di adulterazione, dato che sarebbe necessario alterare le migliaia di nodi su cui le transazioni vengono registrate. È usata, pur fra molte perplessità, per le criptovalute, tipo i bitcoin, ma alcuni sostengono che questa tecnologia cambierà la nostra vita, promette di mandare in pensione notai, servizi di cloud storage, votazioni cartacee, uffici brevetti, ecc.
Nel raccontare questi grandi cambiamenti, Gaggi non si abbandona alla tecnofobia, ma si mantiene saggiamente scettico, prudentemente sapiente. Non è come Fabrizio del Dongo. Ha ben chiara la situazione, se mai la condisce con una punta di amarezza pasoliniana. Se vivremo in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale, diventeremo schiavi dei robot? «Nelle rivoluzioni precedenti — scrive Gaggi — le braccia dell’agricoltura erano passate all’industria e quando anche qui erano arrivati i robot, quelle delle fabbriche erano emigrate verso lavori di maggior contenuto cognitivo. Ma ora l’intelligenza artificiale comincia a sostituire anche molte mansioni intellettuali degli addetti ai servizi e di varie categorie di professionisti: analisti, medici, commercialisti, agenti di viaggio, giornalisti, perfino avvocati».
C’è il grande rischio che i nuovi leader politici siano persone che proclamino il loro impegno sociale con ispirati manifesti comunitari, ma che sorvolino sul fatto che per le loro reti sociali la parola comunità è solo sinonimo di fatturato. Tutto è connesso, tutto si tiene, tutto si smaterializza: dal Lider Maximo al Leader Premium.