mercoledì 14 marzo 2018

Corriere Fiorentino 14.3.18
Le nove cupole di Balkh
Archeologia L’Università di Firenze dal 2007 sta partecipando a un progetto di recuperodi una moschea unica al mondo. Domani la presentazione di un volume sui lavori
di Ugo Tonietti


Dalla mia priva volta a Balkh — era la primavera del 2007 — a oggi sono cambiate molte cose in quella regione dell’Afghanistan. Oramai da anni stiamo lavorando al recupero delle vestigia della moschea di Noh-Gumbad, ma ogni volta l’arrivo prima a Kabul e poi nella provincia di Balkh (nel Nord) è fonte di un’emozione che non riesce a tener conto della familiarità in parte acquisita con questo tormentato Paese.
Immergersi nell’Afghanistan profondo, che per fortuna non è quello straniante dei quartieri delle ambasciate scanditi da cavalli di Frisia, autoblindo e filo spinato, è incontrare un dinamismo e una confusione, permeata dell’immanente pulviscolo, che lasciano sempre sorpresi per l’ostinazione a vivere un presente così instabile e rischioso. Può apparire paradossale ma rispetto a 11 anni fa le condizioni di sicurezza sono peggiorate, tanto che non è più consigliabile effettuare lunghi spostamenti in auto (soprattutto di notte).
Ci siamo trovati a Balkh in più occasioni per partecipare a vari incontri di studio e di indagini sul campo, riguardo la possibilità di recupero di un’architettura unica al mondo. Promotori gli instancabili membri della Delegazione Archeologica Francese in Afghanistan (DAFA), che hanno per primi «adottato» il monumento e hanno proposto, ora con l’indispensabile guida dell’Aga Khan Trust for Culture, assieme all’Unesco, al World Monument Found ed al Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, il consolidamento, la protezione e il restauro dell’antico tempio. Partner italiano in questa operazione, l’Associazione Giovanni Secco Suardo, nota a livello internazionale per progetti di salvaguardia e restauro di alto interesse socio culturale.
La fabbrica, evidentemente da sempre nota agli abitanti di Balkh, è stata «svelata» agli esperti (e non ancora al grande pubblico) solo con la fine degli anni ’60 del secolo scorso grazie a due articoli delle ricercatrici L. Golombek e A. Pougatchenkova. La sua storia è tuttora oggetto di ricostruzione grazie a un dibattito in progress cui ha dato un contributo decisivo l’archeologo irano-francese, consulente DAFA e membro del CNRS di Parigi, Charhyar Adle. La datazione presumibile, secondo l’opinione di Adle, fa riferimento alla fine dell’VIII secolo dopo Cristo (quindi a circa 150 anni dall’Egira, quando la regione era ancora sotto l’influenza Sasanide, cioè della grande Persia). Si tratta di un monumento dall’impianto semplice: una sorta di quadrato (di circa venti metri per venti) chiuso su tre lati, suddiviso ordinatamente in tre campate su ciascun lato, tutte scandite da un sistema di ampi archi che generano in sommità lo spazio poi chiuso da nove identiche cupole (e questa caratteristica darà il nome al tempio: noh-gonbad in lingua dari, afghana, che è poi una declinazione locale del persiano farsi ), che dovevano arrampicarsi fino a una altezza vicina ai 15 metri.
L’immagine originaria, perché ahimè tutte le cupole sono crollate, è comunque assai particolare, forse più vicina a un caravanserraglio, a un edificio essenziale e aristocratico insieme, che all’idea che abbiamo oggi di una moschea. Arricchisce, fino a stordire, la percezione generale della forma, quella finissima, ripetuta, affascinante decorazione a intaglio che ricopre, come una glassa (di gesso), la superficie delle quattro colossali (quasi 5 metri di circonferenza) colonne centrali (altre due sono rovinate), di quelle (sdoppiate) inserite nelle pareti laterali, dei relativi capitelli, degli archi ancora presenti. Proprio l’esistenza di una tale ricchezza ornamentale, con disegni geometrici morbidi e stilizzati (trasformazione di qualche motivo ispiratore floreale o di semplici ed essenziali geometrie) consente ad Adle di stabilire un confronto con lo stile decorativo del II e III periodo di Samarra (caposaldo e riferimento interpretativo dell’arte del bacino che va dalla Mesopotamia all’Asia Centrale) per dedurne la probabile precedenza del tempio di Balkh (e quindi l’originalità dell’impronta stilistica). Particolare suggestivo la colorazione originale delle parti incavate con il blu intenso ricavato dal lapislazzulo, tuttora presente nelle zone protette, e che fa rivivere nell’immaginazione la visione del cielo attraverso le ricche fioriture di un giardino (l’eden?).
Attualmente la moschea emerge da un sottofondo di detriti e macerie, ora diventati suolo calpestabile, il che conferisce all’insieme un sapore molto romantico, di rudere evocativo. Questo assetto è però fragilissimo e il nostro compito consiste nel cercare di fermare il processo di distruzione (connesso tra l’altro ai forti terremoti). Problema di difficile soluzione quando si ha a che fare con una pluralità di materiali impiegati nella costruzione. Essi testimoniano le varie fasi edificative della moschea: il primo perimetro esterno, ormai degradato e consunto, in terra cruda pressata a mano, lo strato adiacente, appena più interno, in muratura di mattoni crudi e infine tutto il sistema con maggior responsabilità strutturale (colonne centrali e laterali, arconi, e, quando c’erano, le nove cupole) in mattoni cotti. Un capolavoro delicatissimo ed emozionante. Dalle sabbie della steppa centroasiatica emerge un messaggio di grande rilievo culturale e storico, perché nello scambio delle influenze (stiamo parlando di come Zoroastro e Budda hanno influenzato l’iconografia islamica delle origini), si conferma la sempiterna ibridazione delle culture e dei linguaggi che è la caratteristica vera e insopprimibile del genere umano.