martedì 13 marzo 2018

La Stampa 13.3.18
Le guerre dei Savoia re d’Italia per caso
La storia degli Stati sabaudi contraddice il mito della casata che unificò il Paese: non fu un progetto
di Alessandro Barbero


Nel corso della Seconda Guerra d’Indipendenza, Vittorio Emanuele II espresse più volte il proprio fastidio nei confronti dell’ingombrante alleato, Napoleone III, che lo eclissava con la sua pompa. In una lettera privata, il re di Sardegna masticava amaro: «Chi è, dopo tutto, quest’uomo, questo bischero? L’ultimo venuto dei sovrani d’Europa, un intruso tra di noi. Farebbe meglio a ricordare chi è lui, e chi sono io: il capo della prima e più antica dinastia regnante d’Europa».
Non era una vuota vanteria: i Savoia, con la loro genealogia che risaliva all’anno Mille (quella autentica, dico: perché qualche cronista compiacente aveva provato a farli discendere da Ottaviano Augusto, e di conseguenza da Enea) erano davvero, se non la prima, certo la più antica dinastia ancora sul trono in quel momento. Ed erano i soli ad aver costruito uno Stato duraturo aggregando paesi disparati, tenuti insieme soltanto dall’appartenenza a uno stesso sovrano. Perfino gli arcinemici, gli Asburgo, avevano edificato il loro impero multietnico partendo da uno Stato che esisteva già, il Sacro Romano Impero. I Savoia no: avevano messo insieme territori in gran parte adiacenti fra loro, è vero, ma diversissimi per lingua, tradizioni e interessi, e con pazienza ne avevano fatto un regno. Non, sia chiaro, perché perseguissero un qualche nobile obiettivo di nation-building, ma per la propria gloria, vanità e ambizione, piacesse o meno ai popoli che la Provvidenza aveva reso loro sudditi.
Ancora al tempo di Vittorio Emanuele II, agli occhi di una patriota italiana quel regno appariva un insieme male assortito, «quattro province senza alcun sentimento comune», di cui il Piemonte era «la sola parte sana». Secondo la contessa Provana di Collegno, milanese di nascita, la Savoia, che votava a destra, era un paese di fanatici reazionari, la Sardegna era «solo a metà incivilita e sotto il dominio dei preti», e Genova, che votava a sinistra, era un nido di pericolosi estremisti «democratici», che all’epoca, per le contesse, era una brutta parola. Ecco perché il libro appena pubblicato da due storici torinesi, Paola Bianchi e Andrea Merlotti, s’intitola Storia degli Stati sabaudi, al plurale: riprendendo l’espressione che era sempre stata d’uso negli atti ufficiali, e che la storiografia dinastica, dal Risorgimento in poi, ha invece sostituito con quella di Stato sabaudo, per far passare l’idea che il regno d’Italia nato nel 1861 fosse l’ultimo stadio di sviluppo di una creatura già predestinata, fin dal tempo di Umberto Biancamano, al magnanimo destino di unificare la Penisola.
Contro questa idea antistorica, eppure radicata in una poderosa propaganda ufficiale, gli autori ricordano che nel momento in cui inizia il loro racconto, quel 1416 in cui Amedeo VIII fu elevato dall’imperatore al rango di duca, gli stati sabaudi trasposti sulla cartina attuale risulterebbero quasi interamente in Francia e in Svizzera.
Due secoli dopo, al tempo di Carlo Emanuele I, li troveremmo per metà in Francia e per metà in Italia; e solo dal 1713, con la pace di Utrecht, la parte italiana risulta decisamente predominante. Però questo Stato mezzo francese e mezzo italiano era ufficialmente un principato tedesco, con un seggio alla Dieta dell’impero, e una dinastia che per secoli si era vantata di discendere da antenati sassoni!
Chissà se il Marochetti, quando negli Anni Trenta dell’Ottocento realizzava il Caval ’d brons di piazza San Carlo, sapeva che il suo soggetto, Emanuele Filiberto, si era dichiarato «vero e buon tedesco di sangue»? Probabilmente no, perché a quella data la fantomatica discendenza sassone era diventata imbarazzante, e perfino gli storici dinastici l’avevano messa in soffitta. Ma se non erano più tedeschi, chi erano e soprattutto cosa volevano essere i Savoia? Come dimostrano Bianchi e Merlotti, l’ultima idea che avevano in mente era di diventare re d’Italia. Allargarsi verso la Pianura Padana, questo sì; riunire ai loro Stati la Lombardia e i ducati emiliani, certo; ma senza rinunciare ai domini transalpini, creando non uno Stato nazionale italiano, ma, come disse qualcuno, una specie di «Belgio in grande».
Del resto, perché spaventarsi all’idea di uno Stato bilingue, quando nel Settecento le lingue degli Stati sabaudi erano tre, con la Sardegna dove la lingua amministrativa continuava a essere lo spagnolo? Certo, Carlo Alberto voleva essere italiano e dava istruzioni per essere chiamato così, ma il suo regno ideale si fermava al Mincio: del Veneto poverissimo non sapeva cosa farci, Venezia avrebbe fatto troppa concorrenza a Genova, e insomma il suo Belgio del Sud doveva andare dal lago di Ginevra al lago di Garda. I sentimenti andavano sacrificati, ma non quelli della dinastia, semmai quelli dei piemontesi: Torino avrebbe dovuto cedere il ruolo di capitale a Milano.
E il Piemonte, allora, con cui generazioni di storici hanno identificato lo «Stato» sabaudo? Nell’età in cui la parola nazione corse improvvisamente sulla bocca di tutti, al tempo della Rivoluzione Francese, ci fu anche chi propose la nazione piemontese: come quell’avvocato Gambini, prima giacobino e poi senatore napoleonico, che propugnò la creazione di un regno di Piemonte. Per chi la pensava così, la Savoia era un fastidio, il francese parificato all’italiano come lingua ufficiale un anacronismo, e l’unità della nazione piemontese doveva essere promossa senza falsi pudori: il Gambini era senz’altro per l’espulsione forzata degli ebrei, questi stranieri incapaci di integrarsi fra i bravi piemontesi, e perfino un mite illuminista come il Galeani Napione auspicava che il Piemonte si liberasse di quegli altri stranieri, i valdesi, estranei sia come fede sia come lingua. La storia è piena di sorprese se, come Paola Bianchi e Andrea Merlotti ricordano, si abbandona la comoda illusione che le avventure dei popoli e delle dinastie seguano strade preordinate e rivolte a un qualche fine.