Corriere 13.3.18
La creatività del ghetto
In Italia la cultura ebraica fiorisce proprio nella fase della segregazione
Un
saggio di Giacomo Todeschini (Carocci) esplora le vicende attraversate
dalle comunità israelitiche nel nostro Paese in epoca medievale. La
questione cruciale del credito e la svolta determinata dalla creazione
dei Monti di Pietà
di Paolo Mieli
Prima di
addentrarsi nell’indagine storica su Gli ebrei nell’Italia medievale
(così il titolo del suo importante libro che sta per essere pubblicato
da Carocci), Giacomo Todeschini mette in chiaro un punto di importanza
decisiva: questa storia può essere scritta con modalità dotate di una
qualche coerenza solo a partire dal X secolo. Perché? Per il fatto che
va accantonata una volta per tutte la rappresentazione
postrisorgimentale di un’Italia come «soggetto storico naturalmente e
tradizionalmente unitario, storicamente unificato dalla religione
cristiana», rappresentazione che «ha influenzato in modi diversi,
talvolta anche contraddittori, la ricostruzione della presenza
israelitica nel nostro Paese». Per decenni, secondo Todeschini, abbiamo
introiettato uno stereotipo storiografico mai esplicitamente dichiarato,
che può essere riassunto nell’idea «alquanto divulgata della storia
degli ebrei nell’Italia medievale come storia di una convivenza felice,
repentinamente interrotta dalle polemiche antiebraiche del Quattrocento
culminate nell’età dei ghetti». Un’idea che ci porta fuori strada.
È
vero, sì, che già dal 380, cioè dall’editto di Tessalonica, l’Impero
romano assunse il cristianesimo come culto ufficiale e si comportò di
conseguenza. Ma a ben guardare la cristianizzazione della Penisola,
iniziata tra il IV e il VI secolo, decollò effettivamente solo a partire
dal VII e VIII secolo in seguito alla «decisiva alleanza» fra
l’episcopato romano e la dinastia carolingia. E comunque la presenza
ebraica in area italiana era preesistente. Sicché gli ebrei per secoli
non furono «né tollerati, né sistematicamente avversati», dal momento
che «l’inesistenza di una maggioranza forte dal punto di vista
politico-religioso» e «la natura ancora elitaria e ristretta a circoli
aristocratici decisamente acculturati della religione imperiale
cristiana» facevano dell’Italia ostrogota, romana e longobarda «un
arcipelago di usanze e di norme, di pratiche religiose e di abitudini
rituali, nell’ambito delle quali la specificità ebraica non spiccava
particolarmente».
Fino all’anno Mille, e anche per qualche secolo
successivo, fu dunque assente «una qualsiasi forma di compattezza e di
autorappresentazione sociale» che — a differenza di quella costruita,
tanti secoli dopo, nell’ambito degli Stati nazionali moderni — fosse in
grado di stabilire «una netta distinzione tra coloro che, in quanto
cittadini e membri della collettività statale, erano dentro il sistema
politico-sociale e civico e coloro che, in quanto stranieri, estranei e
irriconoscibili dal punto di vista religioso e civico, erano esclusi da
quel sistema».
Per circa mille anni, dal IV al XIV secolo, le
relazioni tra cristiani ed ebrei nella Penisola sono altalenanti. Fino a
quando cambia qualcosa che si avverte nell’attività di predicazione
antiebraica degli Ordini mendicanti — in particolare quello francescano
(ma anche il domenicano) — a partire dagli anni Trenta del Quattrocento.
A dire il vero alcune «occasionali manifestazioni di avversione nei
confronti degli ebrei» si erano avute in Sicilia, a Venezia (ma anche
altrove) già nel corso del Trecento. È però dal primo Quattrocento che
«in zone assai differenti d’Italia si nota un mutamento deciso del clima
politico per ciò che riguarda la presenza ebraica e in particolare
l’attività di prestito a interesse». A Napoli la sovrana Giovanna II nel
1427 irrigidisce le norme concernenti «la presenza degli ebrei nel
Regno», laddove a Siena già nel 1420 il Comune aveva messo in
discussione «l’utilità pubblica degli ebrei» accusandoli di «peggiorare,
con la loro gestione del credito al consumo, le condizioni di vita dei
cittadini più poveri». Da quel momento, a Firenze, Bologna, Milano e in
Piemonte la convivenza tra ebrei e cristiani — pur in un’atmosfera
«apparentemente tranquilla» — comincia ad essere caratterizzata «oltre
che dalla sottolineatura dell’eccezionalità» evidenziata dal segno
distintivo sull’abito, dalla «incostanza e dalla precarietà del
soggiorno degli ebrei, il cui diritto a vivere e agire nelle città e
nelle regioni veniva alternativamente affermato, negato, ripristinato o
ammesso». Ancorché «formalmente ignorato».
La presenza delle
comunità israelitiche — ben definite dal punto di vista religioso e
rituale, giuridico e familiare — assume progressivamente «un carattere
di estraneità» e gli ebrei appaiono, in Italia, «sempre più alieni e
inquietanti». Tutto ciò come conseguenza dell’«epocale trasformazione
della società italiana tardomedievale, oltre che dell’impennata di
mortalità provocata dalle epidemie del secondo Trecento, della
accelerazione finanziaria della vita economica, della accentuata
proletarizzazione dei ceti meno abbienti e della sempre più visibile
configurazione oligarchica, centralizzata e sovrana dei poteri
governativi».
Al centro dell’attacco c’è la polemica contro il
prestito a interesse per come viene gestito dagli ebrei. Ebrei che da
questo momento vengono presentati alla stregua di «un pericolo per la
sopravvivenza dei cittadini cristiani più poveri», di «un ostacolo alla
libera circolazione della ricchezza nei mercati cittadini», di emissari
«d’una minacciosa ingerenza straniera nell’economia dei territori
cristiani attivamente impegnata a esportare i beni di questi territori
acquisiti in forma di pegni a garanzia dei prestiti a interesse». Il che
dà vita a tre importanti stereotipi: la rappresentazione degli ebrei
come «usurai che impoveriscono», come «monopolisti che concentrano» e
come «esportatori che sottraggono la ricchezza».
Bernardino da
Siena, caposcuola dell’Osservanza francescana, negli anni Trenta e
Quaranta del Quattrocento — cioè poco prima della morte, nel 1444 —
offre una sintesi dottrinale alla polemica nei confronti del prestito a
interesse. Gli israeliti vengono rappresentati, volta a volta, come
banchieri, medici, membri di una comunità religiosa che rifiuta le
Verità cristiane e in quanto tali sono divenuti «un pericolo per la
società italiana all’interno della quale si trovano a vivere».
Bernardino, secondo Todeschini, sintetizza varie modalità che, a suo
parere, descrivono l’esistenza degli ebrei nelle città italiana
«servendosi dell’immagine metaforica del nemico che combatte i suoi
avversari con armi diverse, alcune più e altre meno esplicite». Le tappe
fondamentali di questo «percorso di ostilità» saranno nel 1462 la
fondazione dei Monti di Pietà (il primo verrà fondato proprio quell’anno
a Perugia) e, nel 1475, un terribile processo a Trento contro i
presunti responsabili di un omicidio rituale. Processo che si conclude
con una serie di condanne a morte.
Ma fino al 1462 le relazioni
fra poteri italiani e gruppi ebraici erano state caratterizzate, secondo
lo storico, da una «tradizionale ambiguità». Ambiguità che al Centro
Nord aveva assunto «la forma dell’indifferenza o della non percezione
della specificità comunitaria ebraica». E al Sud della «catalogazione
essenzialmente fiscale delle comunità ebraiche». Poi, dopo l’istituzione
dei Monti di Pietà — tra il 1492 e il 1510 — si era avuta l’espulsione
degli ebrei dai Regni di Sicilia e di Napoli. E, dal 1516, la fondazione
dei ghetti. Sostanzialmente, però, l’istituzione dei Monti di Pietà non
determinò mai, nell’Italia centro settentrionale, l’eliminazione totale
del prestito a interesse gestito dai banchieri ebrei. Anche se —
sostiene lo studioso — ne mutò il significato politico ed economico
portando a compimento la «ridefinizione del ruolo civico degli ebrei nei
territori italiani». Agli ebrei restò concesso di gestire un credito
«in grado di finanziare le attività di chi non aveva diritto di accedere
a quello dei Monti, a mitigare dunque il bisogno di chi, cristiano o
povero, non era tuttavia a sufficienza riconoscibile come abbastanza
moralmente integro e virtualmente produttivo da poter ottenere un
prestito dal Monte». Oppure di chi chiedeva in prestito «somme di cui
non poteva giustificare l’impiego». Ciò che determinò «il raggiungimento
di un punto critico nella relazione tra poteri cristiani e comunità
ebraiche», già «messa in discussione da circa un secolo».
I
francescani, nello stesso momento in cui miravano a sostituire il
credito erogato dai Monti di Pietà a quello che «gli ebrei mettevano a
disposizione della parte ritenuta più attiva della popolazione delle
città e dei territori», lasciavano ai banchi ebraici la gestione delle
«forme di credito irriconoscibili come produttive per gli Stati
cristiani». E così determinavano una rappresentazione politica dei
gruppi ebraici che ne sottolineava la «natura parassitaria e totalmente
riassumibile in termini monetari». La realtà civica, giuridica,
teologica ed economico-politica che, in varie forme, le comunità
costituivano veniva in tal modo negata ed elusa, «benché nello stesso
tempo essa fosse, almeno in parte riconosciuta da una minoranza
intellettuale quale poteva essere quella dei circoli umanistici
fiorentini, romani o napoletani».
Il discorso politico ed
economico dei frati dell’Osservanza ha perciò l’effetto di produrre,
anzi di «determinare», una «minimizzazione del significato pubblico
dell’identità rituale e religiosa degli ebrei in sé stessa coerente con
la più tradizionale disattenzione cristiana per la particolarità
culturale o giuridica del mondo ebraico». A questo punto — prosegue
Todeschini — la religione degli ebrei e la loro interpretazione delle
Scritture — seppure come in passato passibili in sede teologica di
un’imputazione di «colpevole resistenza alla vera fede» — perdono
gradualmente «quanto ne aveva fatto una ragione in grado di legittimare
in sede etico-politica la presenza in terra cristiana». In quest’epoca
gli ebrei cessano di essere per la Chiesa la «prova storica della
veridicità del messaggio cristiano» e della «legalità sacra
dell’edificio politico scaturitone» e cominciano ad essere intesi come
«presenze economicamente utili» ancorché «politicamente inquietanti».
Sicché decadono nel discorso pubblico delle città-Stato o dei regni e
vengono considerati come una «minaccia da tenere compiutamente sotto
controllo, da inquisire ed eliminare per la via breve del battesimo
forzato, oppure da rinchiudere nel chiuso dei ghetti in modo da poterle
efficacemente circoscrivere».
Ma, a sorpresa — proprio tra Quattro
e Cinquecento se ci si sottrae agli stereotipi storiografici, o ad
essere più precisi, agli stereotipi «resistenti nel tempo e spesso
accolti acriticamente dalla storiografia» — si nota una moltiplicazione
di «prodotti culturali attestanti la complessa vivacità letteraria,
talmudica, filosofica e poetica, memorialistica e sociopolitica» delle
comunità israelitiche. Nell’Italia del Quattrocento si registra dunque
una «contraddizione» fra l’esistenza e la fioritura di una cultura
ebraica giuridica, filosofica e politica e «l’assenza sempre più netta
di una percezione da parte dei poteri cristiani della specificità di
queste comunità». Ed è così che nell’arco temporale che va dal 1462 —
anno di fondazione del Monte di Pietà perugino — al 1515, quando il
pontefice Leone X della famiglia de’ Medici dichiarerà la liceità degli
interessi esigibili parte dei Monti (che segna l’inizio della
conversione dei Monti in banche di Stato e Casse di risparmio locali),
«la condizione degli ebrei verrà ridisegnata indipendentemente dalla
“tolleranza” che continuò ad ammetterli nelle città o dalla
“intolleranza” che ne produsse l’espulsione». Comincia qui per le
comunità ebraiche, è la datazione di Todeschini, «il lungo periodo
durante il quale, “tollerati” o “non tollerati”, segregati o espulsi,
gli ebrei italiani dovranno resistere alla cancellazione del loro
significato pubblico, civico e culturale, producendo nuove forme della
convivenza, della memoria e dell’esistenza quotidiana». E per secoli la
cristianità perderà l’opportunità di conservare un rapporto virtuoso con
loro.