La Stampa 13.3.18
La tenaglia che stringe i Democratici
di Federico Geremicca
Che
cosa farà il Pd di fronte al deserto di possibili maggioranze di
governo? E cosa farà Matteo Renzi? Sono questi gli interrogativi che
ieri hanno preceduto e accompagnato l’attesa Direzione dei democratici. E
già il fatto che gli interrogativi fossero due - quasi che Renzi e il
Pd apparissero agli occhi di molti come entità ormai separate, due cose
diverse, insomma - ecco, già questo dice molto della delicatezza del
momento.
A queste domande - e prima ancora della conclusione della
Direzione - osservatori e dirigenti hanno dato e danno risposte
diverse. E se è vero che ci vorranno ancora settimane perché il quadro
si definisca a sufficienza, le opinioni prevalenti - per ora - paiono
andare in direzione diversa da quanto ci si affanna a sostenere in note,
documenti e dichiarazioni ufficiali.
In sintesi: il Pd, alla
fine, sarà costretto a cedere agli appelli di Sergio Mattarella e ad
entrare in una qualche (quale?) maggioranza di governo.
Quanto a
Renzi, i pronostici sono più confusi, ma nessuno crede davvero alla
parabola del «senatore semplice»: dentro o fuori del Partito democratico
- è la previsione - l’ex segretario resterà in campo. E naturalmente
non sfugge a nessuno l’abisso che separa quel «dentro» da quel «fuori».
Ma
in queste ore è soprattutto un altro «o dentro o fuori» a far
fibrillare il Pd: e cioè l’ipotesi di far parte di una qualche
maggioranza di governo. Nel suo passo d’addio Renzi era stato chiaro:
mai al governo con Lega o Cinque Stelle, gli elettori ci hanno messo
all’opposizione e lì resteremo. La linea pare condivisa dalla
maggioranza del partito, ma nessun se la sente di giurare che sia
destinata a resistere in caso di paralisi prolungata. A remare contro,
infatti, ci sono molti distinguo e - soprattutto - una storia antica di
«responsabilità politica» sulla quale il presidente Mattarella ha
cominciato a insistere ormai quotidianamente.
Una storia che
cominciò con le larghe intese presiedute da Andreotti, riprese con
Ciampi - anche se brevemente - negli anni di Tangentopoli, continuò con
Lamberto Dini all’alba della Seconda Repubblica e fece con Mario Monti -
ormai quasi sette anni fa - la sua ultima comparsa. Insomma, una
costante - quella delle larghe coalizioni - utilizzata per fronteggiare
ogni tipo di emergenza. Perché, dunque, stavolta no? E visti i numerosi e
significativi precedenti, come motivare il «no» ai sempre più
preoccupati appelli del Capo dello Stato?
Per il Pd, una tenaglia
dalla quale non sarà facile uscire: da una parte - infatti - i richiami
al senso di responsabilità nazionale, dall’altra la volontà - dopo la
sconfitta elettorale - di avviare un percorso di ricostruzione che è
certo più semplice cominciare dall’opposizione. Ma anche Matteo Renzi è
di fronte ad un bivio decisivo per il suo futuro: restare nel Pd (come
continua ad assicurare) aspettando il tempo di una possibile rivincita
oppure scartare e dire addio al partito, magari in ragione di una scelta
che cambi la sua indicazione di restar fuori da qualunque governo?
È
chiaro che, al di là delle necessarie discussioni sui tempi e i modi di
elezione del futuro segretario e di quanta collegialità farà uso
Martina nel suo traghettamento, quel che importa maggiormente al Paese è
sapere se il Pd favorirà o meno la nascita di un governo. Ieri la
Direzione ha approvato - con una inedita e larga maggioranza (solo 7
astenuti, vicini ad Emiliano) - una linea che conferma l’intenzione di
stare all’opposizione e che assegna all’Assemblea nazionale il compito
di eleggere un nuovo segretario. Ma fissata la rotta, sono cominciati i
distinguo: opposizione sì ma senza aventini, linea netta e dura ma senza
dimenticare le responsabilità verso il Paese.
È la conferma che
tutto è in vorticoso movimento e che le scelte politiche (sul governo) e
quelle per il rilancio e la ricostruzione del Partito sono
pericolosamente intrecciate e capaci di influenzarsi a vicenda. Cosa
che, in tutta evidenza, rischia di complicare ulteriormente il già
difficile lavoro del Presidente della Repubblica.