La Stampa 13.3.18
Addio a Mario Vegetti: l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri
di Maurizio Assalto
In un’intervista di alcuni anni fa ci aveva detto che Aureliano Buendía, l’eroe di
Cent’anni di solitudine
«che
nella sua vita ha tentato 32 rivoluzioni e le ha fallite tutte, è
l’emblema del platonismo di ogni epoca». A Platone e alla sua opera
Mario Vegetti, morto domenica a Milano a 81 anni da poco compiuti, ha
dedicato gran parte del suo lavoro di storico della filosofia antica,
tra i più profondi che abbiamo avuto in Italia, senza arretrare di
fronte agli aspetti più controversi del suo pensiero.
Professore
per trent’anni all’Università di Pavia, dove era stato allievo di Enzo
Paci e si era laureato con una tesi su Tucidide, proprio
dall’impostazione metodologica dello storico ateniese, che intendeva la
sua indagine come ricerca delle cause, aveva sviluppato un interesse per
la scienza antica, guidato dall’incontro con Ludovico Geymonat e
nutrito dagli studi su Galeno e sulle opere biologiche di Aristotele.
Tra i contributi più stimolanti, generati da questo approccio, Il
coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), dove individuava i due
strumenti, della dissezione anatomica e della scrittura, che hanno
contribuito alla classificazione e all’organizzazione del sapere, e
quindi alla razionalità scientifica occidentale. Nello stesso tempo,
dalla lettura di Jean-Pierre Vernant traeva l’attitudine a pensare il
mito non come l’opposto della ragione, secondo la lettura ottocentesca
consacrata dal classico di Wilhelm Neste Vom Mythos zum Logos, ma come
un elemento che alla ragione si intreccia inestricabilmente, dando vita a
forme complesse di cui è possibile sondare la stratigrafia.
All’opera
di Platone era arrivato sulla scorta di un’attenzione crescente per le
implicazioni etico-politiche del pensiero antico (su L’etica degli
antichi aveva pubblicato un importante volume nel 1989 da Laterza).
Della Repubblica aveva curato una monumentale edizione commentata in
sette volumi, uscita tra il 1998 e il 2007 per Bibliopolis, e al suo
modello ideale di società giusta aveva dedicato tra gli ultimi titoli Un
paradigma in cielo (Carocci, 2009), storia delle interpretazioni
politiche a cui l’utopia platonica è andata incontro nei secoli: visione
filosofica di un altro mondo possibile, secondo Kant, ma anche matrice
di tutte le derive totalitarie, come è stata stroncata da Popper.
Vegetti riconosceva in Platone entrambi gli aspetti, il programma
illuministico del sapere al potere ma delineato con una radicalità
estrema, che è sempre stata sentita come un «elemento perturbante», e
che lo oppone al «riformismo» di Aristotele. Un modello di valore
ideale, a cui sempre guardare, ma senza la tentazione di tradurlo in
pratica. Per non fare (se non peggio) la fine di Aureliano Buendía.