mercoledì 7 marzo 2018

internazionale 4.3.18
Le opinioni
Il paradosso delle destre europee
Ivan Krastev


A ottobre del 2017 un gruppo di intellettuali conservatori europei ha pubblicato il manifesto Un’Europa in cui possiamo credere. È un documento ponderato e ben scritto. Leggendolo si ha l’impressione che questi conservatori europei siano antimperialisti (per loro l’Unione europea è un “impero di soldi e regole”) e anticolonialisti (“l’emigrazione senza assimilazione è colonizzazione”) e che difendano lo stato nazione dalle élite filoeuropee. Che ci crediate o no, la rivoluzione nativista che promuovono somiglia alle rivolte di sinistra del 1968. Come i manifestanti di allora, questi intellettuali non stanno cercando semplicemente di vincere le elezioni, ma di cambiare il modo in cui le persone pensano e vivono. Allo stesso tempo, tuttavia, vogliono disfare quello che rimane dell’eredità del sessantotto. Il concetto alla base del sessantotto era il “riconoscimento”. Per quella generazione, significava che le persone senza potere politico dovevano avere gli stessi diritti dei potenti. La parola chiave della rivoluzione nativista è “rispetto”. I ribelli del ventunesimo secolo stanno dichiarando che avere tutti gli stessi diritti non cambia il fatto che abbiamo un diverso potere politico. Se i manifestanti del sessantotto si occupavano dei diritti delle minoranze etniche, religiose e sessuali, la rivoluzione nativista difende i diritti delle maggioranze. Il sessantotto si fondava sull’idea che le nazioni dovessero confessare i loro peccati: basta pensare all’omaggio del cancelliere tedesco Willy Brandt al monumento in ricordo delle vittime dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. I dirigenti nativisti di oggi invece proclamano l’innocenza delle loro nazioni. Un esempio è la legge che in Polonia punisce qualsiasi riferimento alla partecipazione dei polacchi all’olocausto. Se la generazione del sessantotto si considerava figlia degli ebrei massacrati, i leader nativisti sono i difensori d’Israele. I partiti populisti della destra di oggi sono innanzitutto schieramenti culturali. Considerano il loro potere un’opportunità per modellare l’identità nazionale. Non sono interessati a cambiare il sistema fiscale o il welfare. Per loro è più importante il modo in cui la società si rapporta al passato e l’istruzione dei figli. Considerano il dibattito sull’immigrazione, più di ogni altra cosa, un’opportunità per definire chi appartiene a una comunità politica nazionale. Ma se nei singoli paesi la rivoluzione nativista è uno scontro tra progressisti e conservatori, nell’Unione europea prende la forma di un conflitto tra la parte occidentale e quella orientale del continente: è in particolare uno scontro tra due visioni del conservatorismo. Il conservatorismo occidentale è postsessantottino. Ha interiorizzato alcuni degli elementi progressisti che hanno definito l’occidente negli ultimi cinquant’anni, come la libertà d’espressione, rigettando i presunti eccessi di quel movimento. A ovest attivisti e dirigenti d’estrema destra possono essere gay senza che questo turbi nessuno. A est il conservatorismo è una forma di nativismo più radicale. Rifiuta la modernità e considera i cambiamenti culturali degli ultimi decenni un tentativo di distruggere le nazioni. L’Europa per i conservatori non deve opporsi solo agli eccessi del sessantotto ma anche al cosmopolitismo. Il miglior portavoce di questa visione è il primo ministro ungherese Viktor Orbán. “Non vogliamo essere diversi e non vogliamo mescolarci”, ha dichiarato l’11 febbraio. “Vogliamo essere quello che eravamo millecento anni fa, quando siamo arrivati nel bacino carpatico”. La sua posizione chiarisce la differenza tra il conservatorismo dell’Europa occidentale e quello dell’Europa orientale: in occidente secondo i conservatori non basta un passaporto tedesco o austriaco per diventare austriaco o tedesco, ma bisogna anche adottare la cultura dominante. Secondo Orbán, non puoi diventare ungherese se non sei nato in Ungheria da genitori ungheresi. E qui sta il paradosso della rivoluzione nativista. Sia l’Europa occidentale sia quella orientale si sono spostate a destra. Ma questo, invece di contribuire all’unità europea, ha reso ancor più profondo il divario tra le due regioni. I cittadini dell’Europa occidentale vivono da un po’ di tempo in società culturalmente varie. Quelli dell’Europa centrale e orientale invece vivono in società etnicamente omogenee e credono che la diversità non li riguarderà mai. I conservatori occidentali sognano un continente dove siano le maggioranze a modellare la società. A est sognano invece una società senza minoranze e dei governi senza opposizione. Anche se Orbán, che vuole riportare il suo paese indietro di millecento anni, e Sebastian Kurz, il nuovo primo ministro conservatore austriaco di 31 anni, condividono posizioni simili sul controllo delle migrazioni e sulla sfiducia verso il conservatorismo vecchia maniera, non sono alleati naturali quando si tratta del futuro dell’Unione europea. Le loro differenze ricordano quelle tra il sessantotto in Europa occidentale e il sessantotto in Europa orientale. A ovest si basava sulla sovranità dell’individuo, a est sulla sovranità della nazione.
IVAN KRASTEV dirige il Centre for liberal strategies di Soia. Il suo ultimo libro è After Europe (University of Pennsylvania Press 2017).