internazionale 4.3.18
Le opinioni
Il paradosso delle destre europee
Ivan Krastev
A
ottobre del 2017 un gruppo di intellettuali conservatori europei ha
pubblicato il manifesto Un’Europa in cui possiamo credere. È un
documento ponderato e ben scritto. Leggendolo si ha l’impressione che
questi conservatori europei siano antimperialisti (per loro l’Unione
europea è un “impero di soldi e regole”) e anticolonialisti
(“l’emigrazione senza assimilazione è colonizzazione”) e che difendano
lo stato nazione dalle élite filoeuropee. Che ci crediate o no, la
rivoluzione nativista che promuovono somiglia alle rivolte di sinistra
del 1968. Come i manifestanti di allora, questi intellettuali non stanno
cercando semplicemente di vincere le elezioni, ma di cambiare il modo
in cui le persone pensano e vivono. Allo stesso tempo, tuttavia,
vogliono disfare quello che rimane dell’eredità del sessantotto. Il
concetto alla base del sessantotto era il “riconoscimento”. Per quella
generazione, significava che le persone senza potere politico dovevano
avere gli stessi diritti dei potenti. La parola chiave della rivoluzione
nativista è “rispetto”. I ribelli del ventunesimo secolo stanno
dichiarando che avere tutti gli stessi diritti non cambia il fatto che
abbiamo un diverso potere politico. Se i manifestanti del sessantotto si
occupavano dei diritti delle minoranze etniche, religiose e sessuali,
la rivoluzione nativista difende i diritti delle maggioranze. Il
sessantotto si fondava sull’idea che le nazioni dovessero confessare i
loro peccati: basta pensare all’omaggio del cancelliere tedesco Willy
Brandt al monumento in ricordo delle vittime dell’insurrezione del
ghetto di Varsavia. I dirigenti nativisti di oggi invece proclamano
l’innocenza delle loro nazioni. Un esempio è la legge che in Polonia
punisce qualsiasi riferimento alla partecipazione dei polacchi
all’olocausto. Se la generazione del sessantotto si considerava figlia
degli ebrei massacrati, i leader nativisti sono i difensori d’Israele. I
partiti populisti della destra di oggi sono innanzitutto schieramenti
culturali. Considerano il loro potere un’opportunità per modellare
l’identità nazionale. Non sono interessati a cambiare il sistema fiscale
o il welfare. Per loro è più importante il modo in cui la società si
rapporta al passato e l’istruzione dei figli. Considerano il dibattito
sull’immigrazione, più di ogni altra cosa, un’opportunità per definire
chi appartiene a una comunità politica nazionale. Ma se nei singoli
paesi la rivoluzione nativista è uno scontro tra progressisti e
conservatori, nell’Unione europea prende la forma di un conflitto tra la
parte occidentale e quella orientale del continente: è in particolare
uno scontro tra due visioni del conservatorismo. Il conservatorismo
occidentale è postsessantottino. Ha interiorizzato alcuni degli elementi
progressisti che hanno definito l’occidente negli ultimi cinquant’anni,
come la libertà d’espressione, rigettando i presunti eccessi di quel
movimento. A ovest attivisti e dirigenti d’estrema destra possono essere
gay senza che questo turbi nessuno. A est il conservatorismo è una
forma di nativismo più radicale. Rifiuta la modernità e considera i
cambiamenti culturali degli ultimi decenni un tentativo di distruggere
le nazioni. L’Europa per i conservatori non deve opporsi solo agli
eccessi del sessantotto ma anche al cosmopolitismo. Il miglior portavoce
di questa visione è il primo ministro ungherese Viktor Orbán. “Non
vogliamo essere diversi e non vogliamo mescolarci”, ha dichiarato l’11
febbraio. “Vogliamo essere quello che eravamo millecento anni fa, quando
siamo arrivati nel bacino carpatico”. La sua posizione chiarisce la
differenza tra il conservatorismo dell’Europa occidentale e quello
dell’Europa orientale: in occidente secondo i conservatori non basta un
passaporto tedesco o austriaco per diventare austriaco o tedesco, ma
bisogna anche adottare la cultura dominante. Secondo Orbán, non puoi
diventare ungherese se non sei nato in Ungheria da genitori ungheresi. E
qui sta il paradosso della rivoluzione nativista. Sia l’Europa
occidentale sia quella orientale si sono spostate a destra. Ma questo,
invece di contribuire all’unità europea, ha reso ancor più profondo il
divario tra le due regioni. I cittadini dell’Europa occidentale vivono
da un po’ di tempo in società culturalmente varie. Quelli dell’Europa
centrale e orientale invece vivono in società etnicamente omogenee e
credono che la diversità non li riguarderà mai. I conservatori
occidentali sognano un continente dove siano le maggioranze a modellare
la società. A est sognano invece una società senza minoranze e dei
governi senza opposizione. Anche se Orbán, che vuole riportare il suo
paese indietro di millecento anni, e Sebastian Kurz, il nuovo primo
ministro conservatore austriaco di 31 anni, condividono posizioni simili
sul controllo delle migrazioni e sulla sfiducia verso il
conservatorismo vecchia maniera, non sono alleati naturali quando si
tratta del futuro dell’Unione europea. Le loro differenze ricordano
quelle tra il sessantotto in Europa occidentale e il sessantotto in
Europa orientale. A ovest si basava sulla sovranità dell’individuo, a
est sulla sovranità della nazione.
IVAN KRASTEV dirige il Centre
for liberal strategies di Soia. Il suo ultimo libro è After Europe
(University of Pennsylvania Press 2017).