lunedì 26 marzo 2018


internazionale 25.3.18
L’opinione
Il nemico interno
di Hazem Saghieh, Al Hayat, Regno Unito


Il regime di Damasco ha sfruttato i settarismi della popolazione siriana per dividere la società, alimentando il conlitto L a rivoluzione siriana ha avuto nemici molto potenti: il regime del presidente Bashar al Assad, la Russia, l’Iran e le milizie libanesi, irachene e afgane che lo sostengono. Per comprendere gli efetti della violenza commessa da Damasco e dai suoi alleati basta guardare la terribile e intricata situazione della Ghuta orientale, alla periferia della capitale, dall’inizio della ribellione nel 2011 ino a oggi. Ad Afrin sono ancora più evidenti il miscuglio esplosivo di conlitti regionali e internazionali, e i diversi atteggiamenti dei soggetti in campo, che vanno dall’opportunismo alla reticenza ino alla complicità. In questo caso la conclusione è arrivata con l’occupazione turca e la ritirata dei curdi. Sono passati sette anni dall’inizio del conlitto in Siria. La rivoluzione ha fallito perché ha pagato il conto di tutte le altre catastroi della regione. Il conlitto siriano non si può capire ino in fondo senza ricordare che è strettamente legato al contesto internazionale e agli sviluppi in medio Oriente successivi alla guerra in Iraq del 2003. Tuttavia, come dimostra il caso di Afrin, il nemico più feroce e più violento della Siria, che ha consentito a tutti gli altri di portare avanti il loro terribile lavoro, si annida nella stessa società siriana. Le divisioni settarie hanno condotto il paese alla rovina. Durante la guerra le persone sono state divise per categorie basate sull’appartenenza – “arabo”, “islamico”, “curdo” – e queste etichette sono state usate come bandiere ideologiche. Il regime di Assad è stato il primo a sfruttare queste diferenze identitarie, permettendogli di crescere e di radicarsi nella società. L’odio arcaico ereditato dalle vecchie alleanze familiari si è raforzato. Negli ultimi anni le ideologie militanti nella Siria moderna, di natura laica o religiosa, sono state riprodotte con altri nomi e slogan. Le donne e gli uomini che hanno partecipato alla rivoluzione hanno provato a resistere a questa realtà, che mostra una società siriana profondamente divisa. Questi siriani liberi e coraggiosi si sono opposti alle divisioni e alla chiusura, e hanno cercato di costruire un’identità nazionale basata sul pluralismo e sulla reciproca accettazione. Tra loro c’erano Samira Khalil, moglie dello scrittore Yassin al Haj Saleh, e Razan Zaitouneh, due attiviste contro il regime di Assad, scomparse a Duma nel 2013 senza che se ne siano più avute notizie.
Vittime e carnefici ma ci sono troppe forze che si oppongono al loro modello alternativo di società: il regime, i clan al potere, la religione interpretata in modo strumentale. Negli ultimi decenni le divisioni settarie hanno alimentato guerre sanguinose in varie parti del mondo, per esempio quella tra hutu e tutsi in Ruanda e in Burundi, e quella tra cristiani e musulmani in Bosnia. come dimostrano questi esempi, nelle guerre settarie le diverse fazioni diventano cieche di fronte ai diritti delle altre. Vittime e carnefici si scambiano i ruoli, impilando i cadaveri dei civili innocenti. Inoltre più la guerra va avanti, più cresce l’indifferenza internazionale. In questo momento, mentre tutti sono impegnati a farsi guerra, è quasi impossibile liberare la Siria dalle identità settarie che la rovinano. ma se il divario continua ad approfondirsi, dovremo ancora vivere decenni di conflitti e lotte confessionali e aspettarci più stragi e più morti. Solo quando la società riuscirà a mettere da parte le identità che la dividono, la Siria troverà la libertà.
Hazem Saghieh è un editorialista del quotidiano panarabo Al Hayat. In Italia ha pubblicato Dillo alla luna (Piemme 2011).

internazionale 25.3.18
Troppe donne molestate sui treni giapponesi
Il fenomeno dei chikan, gli uomini che molestano le donne in metropolitana approfittando della calca nelle ore di punta, esiste da decenni. Ma non è mai stato preso sul serio
di Philip Brasor, The Japan Times, Giappone


La mattina del 16 febbraio 2018 alcuni uomini sono saliti sul vagone riservato alle donne della linea Chiyoda della metropolitana di Tokyo per manifestare contro quella che ritengono una forma di discriminazione. Episodi simili non sono rari, ma raramente i mezzi d’informazione se ne occupano. In questo caso, però, le donne sul treno hanno protestato, gli uomini si sono rifiutati di andarsene ed è dovuto intervenire lo staff della stazione. A quel punto il treno ha accumulato un ritardo di più di 15 minuti. E questo ha fatto notizia. Perciò quando uno dei leader del movimento contro i vagoni per sole donne ha cercato di parlare in pubblico davanti alla stazione di Shibuya il 24 febbraio, la stampa è accorsa. Proprio il genere di pubblicità che cerca da anni. I vagoni per sole donne sono una risposta al problema dei chikan, gli uomini che approfittano della calca nei treni per molestare le donne, un problema vecchio quanto l’ora di punta, che il Giappone non è mai stato in grado di risolvere. Su suggerimento della polizia, dalla fine degli anni novanta alcune linee della metropolitana di Tokyo hanno cominciato a riservare alcuni vagoni alle donne. Come ha spiegato l’esperta d’informazione Maki Fukasawa, anche se il movimento contro questi vagoni è nato subito dopo l’introduzione del provvedimento, negli ultimi anni ha guadagnato visibilità grazie ai social network, che consentono a chi vuole protestare di coordinarsi meglio. In realtà non c’è una legge che vieta agli uomini di usare quei vagoni, ma solo un invito a non usarli nelle ore di punta. Le donne possono protestare se qualcuno non rispetta l’invito, ma di solito sono più preoccupate di arrivare in orario al lavoro. Il problema dei chikan è emerso nel 1988, quando una donna sulla metropolitana di Osaka ha visto un uomo molestare una ragazza e gli ha chiesto di smetterla. L’uomo si è arrabbiato e ha continuato con più insistenza, poi con un altro ha trascinato la ragazza fuori dal treno, l’ha portata in un cantiere e l’ha violentata. Fukasawa racconta che per la gente la morale di quella storia è che non bisogna intervenire. Negli anni i mezzi d’informazione hanno parlato del fenomeno più che altro quando si scopriva che un uomo era stato accusato ingiustamente. Fino alla metà degli anni novanta le ferrovie hanno evitato l’uso della parola chikan (che indica sia la molestia sia chi la commette), preferendo i più leggeri shōbōryoku (fastidio) o meiwaku (disturbo). E mentre il “chikan è un reato”, come si legge sui manifesti affissi nei vagoni, fino all’approvazione di una legge sulle molestie sessuali più severa nel 2017 era necessaria una denuncia perché un presunto molestatore potesse essere fermato.
Gioco di potere
Secondo Fukasawa, meno del 10 per cento delle donne molestate in metropolitana sporge denuncia. Quasi sempre perché temono di non essere credute o di far tardi al lavoro. Nel frattempo i molestatori su internet si scambiano consigli sugli orari e i luoghi migliori per il loro passatempo. Fukasawa ammette che i vagoni per sole donne di fatto discriminano gli uomini, ma considerando la diffusione del problema – alcune donne sono terrorizzate nelle ore di punta – non sembra esserci altra soluzione. Sulla linea Saikyō, dove si registrano più denunce di chikan, dal 2009 sono state installate delle telecamere ma il problema persiste. Akiyoshi Saito, direttore di un programma di salute mentale e autore di un libro sul tema, spiega che, a differenza di quanto si creda, gran parte dei molestatori sono laureati con un buon lavoro e una famiglia, e i loro bersagli preferiti sono donne definite “dimesse”. Molestare significa esercitare una forma di potere. Più che con il sesso, l’eccitazione ha a che fare con la possibilità di sfogarsi e di farla franca. La soluzione migliore sarebbe alleviare la calca sui treni. Secondo Kazue Muta, un’esperta di studi di genere dell’università di Osaka, il problema non è mai stato studiato a fondo perché simili molestie non sono prese sul serio. Tutti i reati sessuali contro le donne si fondano sulla convinzione radicata che gli uomini siano superiori, e questo rende più semplice banalizzare i chikan. In Giappone l’educazione sessuale non si occupa dei rapporti tra generi e dei diritti individuali. E per la società giapponese il fatto che un uomo possa essere accusato ingiustamente di molestie è molto peggio del fatto che le donne siano quotidianamente molestate.

internazionale 25.3.18
Cina
Gli uomini di Xi Jinping


Le cosiddette “due sessioni” annuali degli organi legislativo e consultivo cinesi si sono chiuse il 20 marzo a Pechino con la creazione di sei nuovi ministeri, tra cui quello per l’ambiente, e nuove nomine per tre fedelissimi del presidente Xi Jinping. Wang Qishan, ex capo dell’agenzia anticorruzione voluta da Xi, ora vicepresidente della Repubblica popolare con il compito di gestire i rapporti con gli Stati Uniti. Liu He, nuovo ministro dell’economia, si occuperà di ottimizzare gli investimenti cinesi all’estero e di risolvere il problema del debito. E Wang yi, ex ministro degli esteri e ora consigliere di stato, avrà il compito di tutelare gli interessi cinesi fuori dalla Cina continentale: principalmente nel mar Cinese meridionale e nei rapporti con Taiwan, scrive il South China Morning Post

internazionale 25.3.18
Dagli Stati Uniti
La valle dei nerd

Brotopia ricostruisce il difficile rapporto tra le donne e la Silicon valley

Leggendo il libro di Emily Chang, Brotopia. Breaking up the boys’ club in Silicon valley, verrebbe da dire: “Sì, lo sappiamo, la Silicon valley è sessista, quindi?”. Fino agli anni ottanta, le laureate in scienze informatiche erano il 40 per cento del totale. Poi è cambiato qualcosa e oggi il loro numero è crollato al 22 per cento. Appena i computer hanno cominciato a essere molto diffusi e ad attirare grandi investitori, la presenza delle donne ha cominciato a scendere. Brotopia spiega che il sessismo palese non è l’unica causa per cui la Silicon valley è diventata una spensierata confraternita maschile. È qualcosa di più sottile e diffuso e i fattori sono tanti. Soprattutto, leggendo Brotopia nel 2018 – anno in cui finalmente le molestie sessuali sono al centro di un’importante campagna – non solo si scopre come il mondo della tecnologia sia una specie di paradiso dei molestatori, ma serve anche a ricordare quanto e quanto a lungo siano stati tollerati comportamenti molesti e discriminatori nei confronti delle donne. È ora, conclude Emily Chang, che l’industria informatica prenda coscienza dei suoi errori. The New York Times

l’espresso 25.3.18
Reportage
L’inferno dei bambini
Droga. Spaccio. Rapine. Scommesse Così vivono in Italia migliaia di minorenni.
Pistole. Droga. Spaccio. Rapine. Scommesse clandestine. Furti. Combattimenti di cani.
Così vivono in Italia migliaia di minorenni. Dai rioni di Palermo fino alla periferia di Milano
di Floriana Bulfon


«Mi piace sparare con la pistola. Io sono coraggioso » , giura Antonio. «Con il mio socio siamo andati a casa di uno, se marchi male ti facciamo secco», precisa Mattia. Antonio e Mattia hanno sedici anni e vivono due vite parallele: uno a Palermo, l’altro a Milano. Ragazzini sospesi nella violenza, tra un presente ai margini e il sogno di potere che diventa ossessione da esibire. È l’Italia dei bambini in guerra (spesso tra loro) per pochi spiccioli e un futuro da boss. Un esercito a buon mercato per la criminalità organizzata. Da inizio anno, in appena un mese e mezzo, in Italia sono finiti in un centro di recupero oltre 160 minorenni. Più di 200 in comunità, 145 in un istituto penale. Sono accusati soprattutto di rapine e spaccio, ma anche di omicidio volontario. «A Brancaccio non c’è più Cosa Nostra come una volta. C’è e non c’è: cioè, qua si ragiona», dice Paolo. Cammina mani in tasca lungo via Conte Federico, la “strada della morte” durante la guerra di maia. Il silenzio è rotto dall’abbaiare dei cani rinchiusi nei garage: escono solo per i combattimenti clandestini. «Conosco tutti nel quartiere, ma i Graviano non so chi siano». La palazzina dei parenti di “Madre Natura” affaccia proprio lì. «Cugi’ che vuoi?» Si sente gridare da dietro le imposte azzurre. «Io non scendo mai a Palermo», dice Maria. Per lei il mondo si ferma qua. Adolescente con le trecce e «un po’ di problemi con la giustizia», ha picchiato una vigilessa e «anche il vigile, ma nel foglio non c’è scritto», ammette con candore. Brancaccio è un’identità scritta a forza sulle saracinesche chiuse. «Qualcuno qui dice che la maia è bella», confessa un quindicenne. Un suo amico ha appena fatto una rapina, la prova violenta. Del resto, l’ultimo custode del libro mastro del pizzo aveva poco più che vent’anni. Negli “Stati Uniti”, la zona accanto al passaggio a livello pozzanghera di povertà, si smontano motorini, perché «le cose rubate qui ci possono stare». Giovanna ha quattordici anni e abita dietro a una porta con il nome scritto sul cartone. Sono in sei in una camera e cucina vista strada. Il padre, un passato da piccolo criminale, la accompagna negli scantinati da dove si sospetta sia partita la Fiat 126 che ha seminato la morte in via D’Amelio. Oggi ci sono grembiuli e disegni colorati, come voleva Padre Pino Puglisi. «Si portava i picciriddi cu iddu», ha svelato il suo sicario Salvatore Grigoli. Questa la sua colpa: toglierli dalla strada. «Tutti i giorni mi devo difendere», dice Rosalia, undici anni e l’ombretto «abbinato al colore della maglietta», spiega. Frequenta la scuola Giovanni Falcone, presidio di legalità spesso vandalizzato dentro la Zona Espansione Nord. «Vivo allo Zen 2», spiega, «è più bello lo Zen 1, ma se parli di criminalità meglio lo Zen 2». Diciottomila abitanti dichiarati, in realtà 30 mila, chiusi dentro palazzi di cartongesso feriti dallo scirocco e mai assegnati. Frigo e materassi fioriscono nei giardini e su un muro qualcuno ha scritto «la tua invidia è la mia fortuna». Di fronte campeggia «sporchi neri no ius soli», ma i migranti non si vedono. «Qui ci sono trecento persone che vendono cocaina», rivela il pentito Sergio Macaluso. I capi, Fabio Chianchiano e Tonino Lupo, comprano ragazzini «con venti euro e due canne» per nascondere pistole e cristalli di cocaina. Al Bar Siris c’è una squadra di sentinelle, in fondo un’altra, lungo le scale pitbull e rottweiler. Lo Zen, stereotipo di inferno, bisogna guardarlo «da dentro e dal basso», scrive l’antropologo Ferdinando Fava in “Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione”. All’ascolto di chi ci vive, «perché nessuno sceglie di spacciare», spiega un’operatrice che nel silenzio cerca di riannodare i ili e costruire alternative. Tra bottiglie di plastica che rotolano, Luca tira un calcio al pallone. Marco gli corre dietro. È tornato da poco dalla Germania: «A me lì non piace, perché chiamano subito la polizia». «La polizia mi fa schifo», precisa Luca, che oggi ha vinto 120 euro. «Ho chiuso la bolletta, glieli ho dati a mia madre per la spesa». Sale scommesse a ogni angolo per sperare e riciclare. Questi bambini di dieci anni hanno una regola: «Quando ci fermano al centro commerciale è meglio non scappare. Ti portano da tua madre e deve pagare quello che hai rubato». Più in là, oltrepassata una porta di ferro sgangherata, si frigge tra specchi dorati ed Hello Kitty. Roberta Bella, al secolo Maranzano, canta «le delusioni d’amore, i detenuti, perché in tanti hanno il padre o il fratello in carcere». Il neomelodico che da Napoli si espande, via d’uscita per convivere con la povertà e ritagliarsi un ruolo nel disagio. Intona “si-pure-me-faje-male, io te-vojo-bene” e mostra i milioni di visualizzazioni su YouTube. Le scrivono «sei il mio idolo, mado’ lacrime».
Stefania, sedici anni e le unghie rosse con i brillantini, sfoggia con orgo glio un tatuaggio: «L’ho fatto uguale a mia sorella; io la amo». La madre la sognava avvocatessa, «ma lei non si alza al mattino». Stefania non va a scuola e Roberta è dispiaciuta: «Io ho avuto delle difficoltà, ho solo la terza media: agli esami ho cantato “tu si ’na cosa grande”». Stasera si esibirà in una serenata con il suo ultimo disco “Evolution”. «Cos’è per me l’evoluzione? Quando piace un brano, quando spopola tanto». Per pubblicarlo il padre «ha fatto due prestiti e ancora li sta pagando». Lo stereo diffonde la voce di Roberta tra cortili curati e campi sportivi. L’auto si ferma davanti al circolo Eureka. Da qui, cinque anni fa, è uscito Pasquale Tatone prima di essere ammazzato a colpi di fucile. A Quarto Oggiaro, periferia Nord-Ovest di Milano, dove il camorrista era arrivato bambino. Accanto al parco di Villa Scheibler, con il muro trasformato in galleria d’arte, tre quindicenni rollano una canna sulle sedie di plastica del Bar 2000. «Arancia Meccanica? Li conoscevamo. Hanno fatto un video musicale». Adolescenti a far le comparse, con le pistole sul tetto di palazzoni inneggiando alla «grana da fare con la marijuana». E poi per strada a far rapine, tanto violenti da venir paragonati alla banda che Stanley Kubrick raccontò in uno dei suoi film più famosi. Ai cinesi, «perché hanno i contanti», a un ragazzo perché indossa scarpe da 530 euro. La canna dell’arma puntata dritta in faccia, i tirapugni e le mitragliette scorpio, tutte fedeli riproduzioni senza il tappo rosso. «Si sentivano come dentro a un videogioco», rivela Antonio D’Urso, il dirigente del commissariato. Sulla pista di skate che taglia il parco, Alessia e Giulia vogliono parlare: «Quarto non è il Bronx, ci sono tante persone oneste». Quarto con i centri di aggregazione e i murales con i simboli del riscatto. Periferie ordinate, quartieri di tranquillità borghese e il disagio di chi rincorre il sogno di una vita migliore comprandosi il “ferro”. «Siamo andati al supermercato a volto scoperto. Ci siamo presi sui cinquemila euro per andare in vacanza. In quattro giorni abbiamo speso tutto». A sedici anni. Michele s’è ritrovato a rubare senza sapere il perché: «I miei non mi hanno fatto mancare niente», ammette. Ora ha detto basta, racconta con il trap, il genere musicale nato negli appartamenti abbandonati degli spacciatori americani, «quello che i ragazzi non riescono a dire». E poi: «Voglio fargli un po’ da padre». Da padre a chi con arroganza diventa l’incubo dei coetanei. «Perché la noia è un tunnel da cui non si esce», chiarisce Mario, genitori impiegati, una sorella piccola. «Non avevo niente da fare e allora ho detto: va beh vado». A fare furti di abiti irmati con le foto dei trofei postate sui social. «Sono stato espulso da scuola, ho fatto un po’ male a dei compagni», racconta. E «i miei amici hanno spaccato il cranio a due gay». «Siamo tutti un po’ colpevoli, se permettiamo che i giovani, da Milano a Palermo, riempiano il vuoto apparente delle loro vite con la violenza e il guadagno facile. Dobbiamo smettere di far inta di nulla. Loro sono il nostro futuro, non possiamo lasciarli soli», dice Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia. José è arrivato da El Salvador per cambiare vita. Penultimo di dieci figli, abita con le sorelle più grandi «perché mia mamma lavora come badante e la vediamo solo la domenica». Ora sconta una pena per concorso in tentato omicidio: «Sono uscito dalla discoteca e ho trovato un mio amico. Non so perché è iniziata la rissa, alla fine uno è rimasto a terra accoltellato». Quel suo amico a 16 anni è entrato nella M-13, la Mara Salvatrucha. «Per loro portava la droga, ma prima devi superare il rito». Aggressioni con cinture e bottiglie, pestaggi e mandibole da fratturare. Più commetti atti violenti più ti accrediti. MS-13, Barrio 18, Latin King, pandillas di ragazzi latini che si spartiscono la metropoli milanese, dal parco Trotter a via Padova, da Portello a Brenta. I quartieri ghetto nell’immaginario comune e le villette dell’hinterland. Carlo in meno di due anni ha costruito il suo business, perché «devi saper lavorare e rendere il cliente fedele». È la giovane imprenditoria «da dividere in “storie” da 0,4 grammi. Non è solo questione di soldi; sapere che dipendono da te ti fa sentire qualcuno». I suoi genitori non sospettavano nulla: «A casa con loro non ci parlavo mai». Sul comodino il libro “Mussolini e il fascismo” di Renzo De Felice e la maglietta di Marilyn Monroe. «Mi piace leggere per capire in che mondo mi trovo», dice mentre guarda il calendario con la X sui giorni che lo separano dalla libertà. Ha un’unica speranza: «imbarcarmi su una nave da crociera perché ho paura di ricadere nell’errore che ho fatto».

l’espresso 25.3.18
Noi e Voi
Risponde Stefania Rossini
Com’è giovane l’idea socialista


Cara Rossini, credo che le ultime elezioni abbiano decretato l’esaurimento di ogni prospettiva della sinistra italiana. Non solo in modo politico ma finanche in modo storico. E la questione mi sembra sottovalutata. Non credo infatti che un cambio delle leadership o gli stessi sussulti della base a “ritornare alle sezioni” possano rianimare un paziente clinicamente morto. Con molte fantasie e senza più un’idea. Cerebralmente morto. Dopo una agonia trentennale in cui la classe dirigente che doveva tesaurizzare l’esperienza del Pci e riproporla in una nuova sida ha mostrato tutta la sua inadeguatezza politica al compito. Che fare allora? Rassegnarsi a non vedere più in Italia un partito di sinistra che coniughi, in una forma tutta da reinventare, la teoria socialista e un’azione politica non identitaria e minoritaria? Non mi pare ci si debba arrendere! E immagino invece che proprio un giornale della sinistra italiana si debba incaricare di aprire in maniera strutturale sulle sue pagine un dibattito pubblico non elitario e con la partecipazione dei lettori. Favorendo innanzitutto quelli più giovani. Non per una questione di giovanilismo ma perché sono essi a vivere sulle proprie carni il disagio sociale maggiore. Sono essi a poter testimoniare e rappresentare le nuove dinamiche sociali. In un dialogo anche generazionale che non li abbandoni alla facile interlocuzione con movimenti che ne catturano l’insoddisfazione ma che non hanno poi la luce di un’idea lungo cui possa scorrere una prospettiva non illusoria. I giovani avranno presto di nuovo l’esigenza di un’idea forte. Di un’idea socialista. Che però deve essere rideclinata in maniera vitale proprio da loro stessi. Da un auspicabile loro discutere. E con i meno giovani a esercitare un ruolo più speciicatamente maieutico. È nel dialogo e nella sua nobilitazione sulle pagine di un giornale, a mio avviso, l’unica via percorribile per non ingannarci più su facili quanto vacue soluzioni di rigenerazione della sinistra in questo Paese.
Giuseppe Cappello

Caro Cappello, la sua idea di affidare ai giornali, in particolare al nostro, il compito di supplenza al vuoto lasciato dalla politica è lusinghiera, ma inattuabile. I partiti della sinistra hanno lasciato che sparisse la partecipazione carnale degli individui nei luoghi di incontro reale, come le sedi di partito, le piazze, le strade. Negli ultimi anni, le idee sono state fatte circolare solo in luoghi virtuali, come i troppi talk show della tv o il caotico ring della Rete, con twitter che è ormai un’agenzia di comunicati politici. In questa situazione, i giornali di carta, che non sono più la preghiera del mattino di hegeliana memoria, cercano di aiutare a capire e a riflettere. Questo giornale lo fa con temi importanti e opinionisti di spessore, augurandosi che scavino come “nuove talpe” nel gelo delle passioni.