lunedì 26 marzo 2018

Il Fatto 26.3.18
Il ring del Vaticano: i Due Papi agli angoli della Teologia
La coabitazione, sebbene su due piani diversi, tra Benedetto e Francesco s’incrina adesso sulla dottrina
di Pietrangelo Buttafuoco


La pubblicazione di scritti teologici rischia di provocare uno scisma all’interno della Chiesa Cattolica. Non finisce qui, ahinoi, la storia dei Due Papi. La coabitazione, sebbene su due piani diversi – uno è in romitaggio di rinunzia, l’altro è visibile sul Trono – s’incrina adesso nella dottrina. La vicenda è nota ed è sufficiente un rigo e mezzo per riassumerla: Benedetto XVI è invitato a redigere una prefazione alla collana La teologia di Papa Francesco, cortesemente dice no per lettera e però lo motiva il suo no.
Poco importa che questo secondo passaggio – il perché no – sia stato messo tra parentesi, non divulgato, per poi riemergere scandalosamente (con tanto di dimissioni di monsignor Viganò), ancora più interessante – ai fini della sorpresa epocale – è il dettaglio. E non per il fumus diabolicus proprio di ogni dettaglio quanto per l’ambito della disfida: la teologia, ovvero – letteralmente – lo studio intorno al Divino, la scienza di Dio. Va da sé che il signor Diavolo – è la terza volta che torna in questa rubrica – è un raffinatissimo teologo e dice sempre sì per arrivare al no (tra tutte le creature, ’o Malamente può far vanto di “diretta conoscenza” di Issa, la teologia, per negare Isso, l’Iddio Onnipotente).
Il Grande Inquisitore che inchioda per la seconda volta Cristo, quello di Fedor Dostoevskij, è profondamente abile nella dottrina – e riconosce, infatti, Gesù – e così tutta la fabbrica del nichilismo che s’adopera nel capovolgere le fondamenta di Luce della Rivelazione – senza riuscirci, va da sé – sussurra, nel compimento della coscienza borghese, il cupo buio di un transito fatto di ciacole vacue, ma correttissime. Ecco, senza incorrere in anatemi, può ben dirsi che – in tema di sacro – tanti sono i testi intinti nell’inchiostro della gramigna di Satana. Dalla cancellazione della Religio di Roma Antica presso i popoli del Mediterraneo ne derivò un gran danno; una tragedia mai sanata è quella della damnatio della Sacrissima impronta di Iside, talvolta recuperata nel Sud del Sud dei Santi grazie ai paesani in processione dietro ai fercoli delle Sante, trasfigurate in quell’aura egizia, e amate con la devozione propria dell’amor panico.
Va da sé che tutto, nell’eterno circolo dell’eguale, torni ma che nell’anno di Grazia 2018, la disputa teologica, bussi al cospetto dell’opinione pubblica, fa specie. E non può che far bene se si pensa a quanto sia sempre più cheap la produzione intellettuale intorno al Credo, ormai ridotto al rango di calepino etico. La filosofia, ancella della teologia, impegna le giornate di Benedetto XVI. Era stato chiamato a scrivere. E non ha scritto, anzi, meglio. Una cosa ha scritto. Ha scritto un no. Per custodire il sì? No, non finisce qui.

Il Fatto 26.3.18
I giovani sono a 5 Stelle, invece Salvini non sfonda
di Stefano Caselli


Votano in percentuale decisamente più alta rispetto al totale, puniscono ancora di più i partiti “tradizionali”, sono più preoccupati ma meno sfiduciati dopo il voto, persino ottimisti, addirittura meno disgustati e – quanto alle priorità – a volte clamorosamente in disaccordo con quelle enunciate dalle forze politiche che hanno scelto.
È questa, in sintesi, la radiografia del voto “giovane” del 4 marzo che emerge dall’indagine dell’Osservatorio Giovani e Politica di Viacom e Mtv condotta su un campione di 1.173 ragazzi dai 18 ai 34 anni.
Percezione della politica nel post elezioni
L’emozione più forte associata alla politica in questo momento è la preoccupazione (45%), in aumento di sei punti rispetto al periodo pre-elettorale. Sembrano però attenuarsi altri temi negativi come preoccupazione (35%, meno 18 punti percentuali in poche settimane), rabbia (meno 13 punti) e disgusto (-9). Stabile il pessimismo (sceso dal 29% al 27%), mentre sale (si fa per dire) l’ottimismo, che passa dal 7% al 12%.
Per chi hanno votato gli under 35
Il 90% del campione dichiara di essere andato alle urne. Quanto alle preferenze accordate, vince ancora di più il Movimento 5 Stelle, perdono ancora di più Pd e Forza Italia e la Lega sfonda meno che tra i “grandi”.
M5S raccoglie il 36% dei consensi (contro il 32,7% totale) con nessuna differenza di genere o di età. Secondo il Pd, scelto dal 14% del campione (contro il 18,7%), terza la Lega, il cui dato “giovanile” (13,5%) è piuttosto al di sotto del 17,4% nazionale. Crolla Forza Italia, scelta dal 6,91%, meno della metà del 14,01% totale. Qualcosina in più per LeU (3,79% contro il 3,38%) e in meno per Fratelli d’Italia (3,6% contro 4,35).
Quale governo vorrebbero i ragazzi
Quanto alle prospettive di legislatura, un quarto del campione (28%) tra gli uomini si dice favorevole a un governo M5S-Lega. Staccata di un solo punto (24%) la quota di chi dichiara di voler tornare al voto senza prediligere alcuna alleanza. Una coalizione M5S-Pd incontra il favore di uno sparuto 14,49%, l’11% si augura un governo di larghe intese (molto meno popolare tra i diciottenni che tra gli ultratrentenni).
Le ragioni di una scelta politica “di rottura”
Per il 68% del campione il risultato delle elezioni politiche rispecchia “la voglia di cambiamento del Paese” e per il 59% le forze politiche tradizionali che hanno perso consensi “proveranno a frenare il cambiamento” (affermazione diffusa soprattutto tra la fetta più “anziana” del campione), Il 57% degli intervistati ritiene che si debba dare al Movimento 5 Stelle la possibilità di mettersi alla prova e governare.
Quanto alle priorità per un ipotetico nuovo governo, al primo posto “misure per ridurre la disoccupazione giovanile”, mentre il 28% indica la riduzione dei costi della politica e degli sprechi amministrativi. terzo posto (25%) alla riduzione delle tasse.
Interessante anche il dato delle cose meno prioritarie: l’urgenza di misure per regolare i flussi migratori è considerata emergenza solo dal 17,5% degli intervistati. Importa meno soltanto la riforma del sistema scolastico e universitario (13%).
Cosa vogliono gli elettori di Di Maio
Tra i ragazzi che hanno scelto Movimento 5 Stelle la priorità (messa al primo posto dal 38% del campione) ci sono il taglio agli sprechi della politica e la lotta alla corruzione, seguita dagli investimenti strategici per favore nuova occupazione, per esempio investimenti in nuove tecnologie ed energie rinnovabili (tema al primo posto per il 24% degli intervistati).
Tra le cose meno prioritarie, a sorpresa, il cavallo di battaglia del M5S: del reddito di cittadinanza importa soltanto al 15% dei ragazzi. Ha meno appeal soltanto il tema del superamento dei vincoli economici imposti dall’Unione Europea (6,6%).
Cosa chiedono quelli che hanno votato Salvini
In linea con i “grandi”, la massima priorità indicata dai giovani elettori della Lega (al primo posto per il 34%) c’è l’irrigidimento delle norme sui flussi migratori, seguito dalla riduzione dei livelli di tassazione, per esempio la flat tax, prioritaria per il 28% del campione.
Scarsa popolarità, anche qui, per il superamento dei vincoli economici imposti dall’Unione Europea (al primo posto nel 9% dei casi) e – un po’ a sorpresa – la lotta ai privilegi della classe politica e agli sprechi (indicata come emergenza soltanto dal 10% degli intervistati.

La Stampa 25.3.18
Domenico De Masi
“I 5S devono provare davvero a dare soldi ai disoccupati”
Il professore vicino al movimento “Va esteso ciò che ha fatto Gentiloni”
di Andrea Carugati


«Il M5S, con tutti i voti che ha preso, deve realizzare il cosiddetto “reddito di cittadinanza”. O almeno provarci. Uso le virgolette perché quello che hanno proposto non è vero reddito di cittadinanza sul modello della Finlandia, esteso a tutti i disoccupati. Ma un reddito di inclusione, che viene erogato solo a chi rispetta alcune condizioni e si impegna a seguire corsi di formazione. In fondo è quello che ha già fatto il governo Gentiloni, stanziando però solo 1,7 miliardi e raggiungendo una piccola platea». Domenico De Masi, sociologo, vicino al M5S anche se non ha mai aderito, ragiona sui prossimi passi del Movimento.
Con la Lega di Salvini vede punti comuni nei programmi economici?
«Per ora vedo solo la riforma della legge Fornero sull’età pensionabile. Su questo punto mi pare che un accordo sia a portata di mano. Assai più complesso il discorso se parliamo di flat tax e reddito di cittadinanza…».
Di Maio nelle ultime interviste non lo cita quasi più…
«Non credo che possa aggirare questo tema. Al Sud ha scatenato grandissime attese».
In un governo con la Lega sarebbe difficile approvare questa forma di reddito?
«Premesso che neppure il M5s ha proposto il vero reddito di cittadinanza, e che la questione è tutta sulla platea dei beneficiari, io non escludo che un accordo tra i partiti si possa trovare. Partiamo dalla situazione attuale, con 1,7 miliardi stanziati. L’obiettivo dei 5 stelle è di arrivare a una cifra tra i 17 e i 20 miliardi. In mezzo a queste due cifre mi pare possibile un’intesa».
Se si arriva alla flat tax dove si trovano i soldi?
«Salvini sostiene che nelle casse dello Stato entrerebbero più denari con un’aliquota unica e più bassa. Io non ne sono affatto convinto, e certamente non accadrà nei primi tempi. Anzi, si rischia di avere molti meno soldi per il welfare».
Dunque niente reddito?
«Se si capisce che questa è un’urgenza i soldi si trovano, come avviene per i terremoti. Bismarck creò il welfare per evitare una rivoluzione proletaria. Nell’Italia di oggi non vedo rivoluzioni ma ricordo che ci sono 6 milioni di poveri e altri 10 milioni di persone a ridosso della soglia di povertà. Se non è un’emergenza…».
Prevede un matrimonio tra Di Maio e Salvini?
«Diciamo che non lo auspico, perché osservo che hanno basi sociali diverse che hanno dato mandati diversi. Il Sud povero ha chiesto ai grillini di avere diritti. Il Nord invece ha chiesto a Salvini di difendere quello che ha già. Non è una differenza da poco».

Repubblica 25.3.18
Intervista a Domenico De Masi
“Il patto con la Lega è contro natura e rischioso l’elettorato 5S è più volatile”
di Paolo G. Brera


ROMA Ecco, Luigi Di Maio ha vinto le elezioni e ha subito smesso di parlare del reddito di cittadinanza. Ora parla di Fornero, Welfare per le famiglie, disoccupazione...
«In questa fase anch’io, se fossi in ballo, eviterei di scoprire le carte.
Cercano di capire cosa possono fare, più che dire cosa vogliono» afferma Domenico De Masi, sociologo, tra gli intellettuali più vicini al M5S.
Intanto Di Maio flirta con Salvini per il peccato originale?
«Hanno due basi di riferimento diverse, cui hanno fatto promesse diverse. Il M5S ha promesso lavoro, reddito di cittadinanza, riduzione dei costi della politica e lotta alla criminalità organizzata. Al Nord interessa la difesa dei diritti acquisti, il lavoro che già esiste, le politiche su immigrazione e sicurezza: temi della Lega molto più che del M5S».
L’appoggio a un governo di
centrodestra sarebbe un tradimento?
«La base di riferimento del M5S sono disoccupati, poveri, operai, periferie: se il Movimento vuole sopravvivere deve fare cose che servono a questo elettorato, e non mi pare che la destra abbia mai pensato a poveri, disoccupati e operai. Questa operazione di ingannare il proprio elettorato di sinistra l’ha fatta Renzi, e s’è visto com’è andata a finire. Preso in mano un partito votato ancora da proletariato e piccola borghesia, ne ha modificato i contenuti e ora ha i voti dei Parioli. Come ha insegnato papa Francesco i poveri sono più dei ricchi, e se scegli i ricchi trovi Berlusconi che ne ha già alcuni, poi Salvini che ne ha altri...».
Definendo obiettivi comuni?
«No, è contro natura. Contraddice le basi e i programmi. Si trovano sempre punti comuni, ma sono più le distanze. Sarebbe naturale un governo delle destre, che hanno vinto in coalizione, con il M5S all’opposizione».
Hanno trovato l’accordo sui presidenti...
«Beh, è diverso. Camera e Senato spesso sono andate una al governo e una all’opposizione, pensi a Nilde Iotti con la Dc al governo».
Di Maio ora parla di aiuti ai giovani disoccupati. Il reddito di cittadinanza è irrealizzabile?
«Lo chiamano così ma in realtà è un reddito di inclusione, perché richiede si accertino diverse condizioni. Con sei milioni di persone sotto la soglia di povertà assoluta occorrerebbe realizzare una struttura ciclopica, servirebbero anni. Come fai a mandare sei milioni di persone a corsi di formazione che non esistono? Chi li tiene? Gli uffici del lavoro quando ci sono non hanno nemmeno il computer».
Quindi?
«Si può fare solo il vero reddito di cittadinanza, senza condizioni. Si dà a tutti perché creare la struttura dei controlli costerebbe di più».
Ma Di Maio e il M5S parlano di altro: niente soldi a chi sta con le mani in mano, dicono.
«Chiamano cittadinanza quello che esiste in molti paesi e che Gentiloni ha chiamato reddito di inclusione».
Quindi ha promesso ciò che ha già fatto Gentiloni e che oltretutto non riuscirà a fare?
«Anche la versione di Gentiloni, limitata a 1,2 milioni di poveri, non credo stia funzionando».
Gli conviene non andarci per niente, al governo.
«Credo sperino di non andarci sia Di Maio che Salvini, ma sono condannati a fingere. Neppure la Lega avrebbe numeri per fare le cose che ha promesso. Ma c’è una differenza tra i due: l’elettorato della Lega è meno volatile di quello M5S. Soprattutto quello veramente povero del Sud va di volta in volta dove gli si danno speranze, se si delude andrà altrove».
Una fase pericolosa, per il Movimento?
«Si sono dati chiarezza e trasparenza come valore, non puoi promettere reddito di cittadinanza e poi dare un piccolo aiuto ai giovani... Se governano devono fare quello che hanno promesso».
Hanno esagerato?
«Si dice: dove li prendono i 17 miliardi che costerebbe? In realtà ci sono, nel bilancio dello Stato, ma devi fare come quando c’è un terremoto. Se è una priorità sono i ragionieri a dover capire dove toglierli. Ma il bilancio è fatto per la popolazione che mangia, non per quella che non mangia più: se i sei milioni di poveri si infuriassero, i soldi si troverebbero. Il Welfare lo inventò Bismarck, che non era di sinistra: stavano per arrivare il 1917 e la rivoluzione sovietica, lo fecero per ridurre la reazione violenta degli operai».
Vale lo stesso per il reddito di cittadinanza?
«Non si può tirare troppo la corda.
Nel 2007 in Italia 10 famiglie avevano la ricchezza di 3,5 milioni di italiani. Dopo la crisi, le stesse 10 famiglie hanno la ricchzza di 6 milioni di italiani. La corda è tesa».
Comprendo che Di Maio tenga le carte coperte.
Il reddito di cittadinanza vero è per tutti, non soggetto ai controlli che selezionano il diritto
Domenico De Masi, 80 anni, professore emerito di Sociologia del Lavoro all’Università La Sapienza

Il Fatto 25.3.18
B. cede, eletti i presidenti. Ma ora il Colle è in difficoltà
FI si piega allo schema disegnato da Lega e M5S per le Camere Mattarella, però, si ritrova senza nomi istituzionali per il governo
di Marco Palombi


Alla fine Silvio Berlusconi china il capo e accetta quel che è inevitabile: Forza Italia ottiene una inutile presidenza del Senato per Elisabetta Alberti Casellati che strappa 240 voti su 321 ma segna pure il rompete le righe nell’ex partitone dell’ex Cavaliere.
Nella sfida a chi frena per ultimo nel centrodestra vince Matteo Salvini, che impone la linea della Lega e tiene unita la coalizione sotto il suo dominio, anche grazie ai buoni uffici dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni: ai forzisti va il Senato, ma con lo schema di gioco deciso dal Carroccio. Il risultato è l’implosione di quel che resta di Forza Italia, che rende ulteriormente la nuova Lega nazionale di Salvini il punto di riferimento per quanti nei territori vogliano ancora avere qualche speranza di poltrona a destra.
L’altro (mezzo) vincitore di questo primo atto della legislatura è il Movimento 5 Stelle, che incassa con 420 voti su 630 la presidenza della Camera e lo fa piazzando ai vertici di Montecitorio il capo della minoranza interna, Roberto Fico, da ieri ibernato nel ruolo istituzionale e di sicuro meno in grado di dare fastidio al “capo politico” Luigi Di Maio e ai suoi sogni governativi. Per ottenere l’avvio della “stagione del cambiamento”, però, i 5 Stelle ingoiano a Palazzo Madama il voto a favore della Alberti Casellati, una pasdaran berlusconiana in purezza, sodale dell’avvocato Niccolò Ghedini e sottosegretario alla Giustizia all’epoca dei lodi e delle leggi ad personam. Roba che quasi fa rimpiangere il cellulare malandrino affidato da Paolo Romani a sua figlia.
È la stessa perplessità per la biografia politica della nuova presidente del Senato che si coglie nello stupore – visti i rilievi avanzati per la candidatura di Romani – con cui ambienti vicini al Quirinale hanno registrato la notizia della convergenza di centrodestra e M5S sul nome dell’avvocata azzurra. Tanto più che l’attuale inquilino del Quirinale conosce assai bene la seconda carica dello Stato avendola avuta nel Consiglio superiore della magistratura (che presiede) fino a ieri e vista all’opera in Parlamento e nel governo fino al 2008.
Uno stupore in cui si legge in controluce il forzato addio ad una delle possibilità pure messe in conto dalla prassi costituzionale per uscire da crisi politiche particolarmente scabrose: nessuno dei due presidenti delle Camere è personalità adatta a ricevere un incarico esplorativo, nè tantomeno per un governo istituzionale. Non certo Fico, ma nemmeno la seconda carica dello Stato. Sergio Mattarella dunque, se le forze politiche non troveranno da sole il modo di far partire la legislatura creando un governo, dovrà essere particolarmente fantasioso.
Il problema è che l’asse Lega-5 Stelle con cui sono stati eletti i presidenti di Camera e Senato è una schema difficilmente replicabile per un esecutivo pienamente politico. I contatti tra i due gruppi ci sono, e non solo tra Lega e Movimento ovviamente, il problema è che le legittime ambizioni e interessi dell’una e dell’altro difficilmente si potranno conciliare in un vero governo.
Salvini, per esempio, ha tutto l’interesse a tenere compatta la coalizione per ereditarla tutta intera col tempo. E se il centrodestra resta compatto rappresenta il gruppo politico di maggioranza relativa all’interno del Parlamento (265 deputati e 137 senatori contro i 227 e 112 dei 5 Stelle) sarebbe anche l’area politica a cui spetta l’incarico di governo: e non a caso Salvini continua a dire che lui ha tutte le intenzioni di andare a Palazzo Chigi in prima persona. Problema: i Cinque Stelle non sosterrebbero mai un governo a guida Salvini. La speranza di Di Maio è spaccare la coalizione di centrodestra, ma anche così è difficilmente pensabile che la Lega appoggi un governo presieduto da lui e, in ogni caso, che faccia a lungo da spalla al Movimento.
E qui si torna allo stupore quirinalizio: l’incarico a una personalità istituzionale che ha già avuto i voti di un ramo del Parlamento è un escamotage senza tempo per uscire dalle impasse politiche, ma con Alberti Casellati al Colle hanno tolto pure la sempre sicura carta della seconda carica dello Stato.

Corriere 26.3.18
Gli attivisti grillini divisi sull’accordo «Ma mai con Berlusconi e i dem»
Le reazioni su social e blog: aperture alla Lega, dopo le parole dei leader, pure se restano i dubbi
di Alessandro Trocino


ROMA Paola Nugnes, senatrice veterana e sempre irrequieta, crede fermamente, o finge di credere fermamente, che «queste scelte» non abbiano «nessuna implicazione per la formazione del futuro governo». Marco Travaglio, decisamente non un antipatizzante dei 5 Stelle, va oltre, da Lucia Annunziata: «Se Di Maio facesse un governo con Salvini, dovrebbe girare con la scorta». Eppure la prospettiva di un accordo politico con la destra leghista, con contorno di Forza Italia, dopo il via libera all’azzurra Elisabetta Casellati al Senato, è più di un’ipotesi. E se i peones hanno mugugnato di nascosto, e i commenti del blog si sono divisi, le nuove parole d’ordine di Di Maio e Beppe Grillo («Di Salvini ci si può fidare») vengono assimilate con rapidità sorprendente dai militanti accorsi nelle moderne sezioni di partito, ovvero il blog delle Stelle e i social M5S.
La massa dei commenti (che naturalmente non si possono attribuire tout court a militanti 5 Stelle) sparge lacrime, entusiasmo e commozione per il raggiungimento della poltrona di Montecitorio. Non mancano molti dubbi e critiche sulla Casellati e sull’ipotesi di alleanze con la Lega. Ma i veri spauracchi restano Berlusconi, spesso incongruamente sganciato da Forza Italia, e il Pd. Sul primo spopola la vignetta di Marione, con Di Maio che andrebbe volentieri a incontrarlo nell’«habitat naturale», portandogli arance. Vincenzo Di Giorgio se la prende con i «pidioti»: «Il Pd rosicone deve sparire, è peggio della peste, ha governato con un golpe». E se i 5 Stelle hanno «dovuto» votare la Casellati, «è colpa del Pd». Del resto, un sondaggio di qualche settimana fa aveva chiarito che i militanti sono più favorevoli alla Lega di quanto lo siano al Pd.
Sulla candidata FI prevale l’interpretazione formalistica: «Non ha condanne», ricorda Agusto Cesare, dimenticando il resto. Qualcuno si diverte, subito trattato da troll, e cita il grido, storpiato: «Honestà!»: «Avete aperto la scatola e avete scoperto che il tonno è saporito», dice Genesio Panza. I lettori del profilo di Roberto Fico, implacabili, notano il cipiglio severo dei commessi: «Quanto prendono questi due signori? Sono già tristi che li facciamo fuori». Massimo Kalister se la prende con l’incipit del discorso fichiano, considerato troppo di sinistra: «Le Fosse Ardeatine sarebbero la priorità? E i 7 milioni di italiani in difficoltà?». Qualcuno si azzarda a protestare: «Avete fatto un piccolo Nazareno con i peggiori esemplari della destra» (Paola Calabrini). E Salvatore Caputo: «Attenti amici 5 Stelle, con la stessa facilità, i consensi si perdono pure». Ma ora è il momento dell’entusiasmo. Si seguono Di Maio e Grillo in direzione Lega. Fino a contrordine.

Corriere 26.3.18
Scenari post voto
I moderati senza una rotta
di Francesco Verderami


Alla vigilia delle elezioni uno studio di Swg sulle identità politiche degli italiani aveva proposto un’analisi comparata tra il 2013 e il 2018: cinque anni prima i cittadini che si definivano «ceto moderato» erano il 36%, cinque anni dopo si erano ridotti al 21%. Quella che è sempre stata la maggioranza relativa del Paese è diventata un’area di minoranza rispetto a nuove «etichette», nelle quali ormai si riconosce gran parte dell’opinione pubblica nazionale. È tempo di cambiare le categorie della politica? Si è forse conclusa la lunga stagione che ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica? O più semplicemente quanti erano chiamati a rappresentare le istanze del «ceto moderato» non sono stati più in grado di farlo? Perché il «ceto moderato» comunque continua a esistere, dopo la Dc aveva trovato il suo baricentro nel centrodestra a trazione berlusconiana.
Ma quel centrodestra non esiste più: il sorpasso su Forza Italia operato da Salvini nelle urne, e la leadership che il segretario della Lega ha conquistato nelle trattative sulle presidenze delle Camere, cambia la natura della coalizione. E ne cambia anche le prospettive. È vero che il progetto di Lega-Italia non è che la riedizione del Pdl, prima costruito e poi sciolto da Berlusconi, ma è altrettanto vero che la sua linea nazionalista contrasta con la tradizione popolare ed europeista nella quale il fondatore dell’alleanza si è sempre riconosciuto.
A questo punto Berlusconi, che per venticinque anni è stato la voce di gran parte del «ceto moderato», può ancora rappresentare quell’area di opinione pubblica? Oppure serve qualcosa di nuovo e qualcuno nuovo che raccolga il testimone? E qui emergono i problemi. Dentro Forza Italia, per varie ragioni, il tema del futuro non si è mai posto perché così era peraltro imposto dal leader (anche) con la forza dei numeri, oltre che del suo carisma. Ma il futuro è arrivato, cogliendo di sorpresa una classe dirigente che rivela i suoi limiti.
Mentre il vecchio impero viene occupato da nuovi conquistatori, che dimostrano una capacità di azione politica pari alla determinazione con cui la impongono, si assiste al frenetico agitarsi di quanti — per ambizioni personali, istinto di sopravvivenza e spirito di adattamento — cercano soltanto di non venire travolti dal nuovo. Manca chi sappia proporre un progetto, offrire un orizzonte. Nessuno sembra essere né avere voce.
L’ultimo tentativo di arrocco era stato la riforma del modello di voto, concepita insieme al Pd con l’intento di costruire — dopo le urne — delle larghe intese sul modello europeo dell’alleanza tra popolari e socialisti, come già in Germania e in Spagna. Se il Rosatellum ha avuto un effetto di sistema opposto, c’è un motivo: la riproposizione della rivoluzione liberale (datata 1994) ha evidenziato in campagna elettorale un’assenza di idee che ha amplificato il senso di frustrazione del «ceto moderato» colpito dalla grande crisi.
Così il Paese ha scelto la via del cambiamento radicale. La forza centrifuga che questa autentica rivoluzione politica sta producendo potrebbe portare alla marginalizzazione e poi alla dissoluzione delle aree moderate e riformiste, oppure alla loro scomposizione e alla nascita di un nuovo progetto.
D’altronde un processo di osmosi tra i blocchi che si sono contrapposti nella Seconda Repubblica era iniziato: in fase embrionale con le larghe intese ai tempi del governo Letta, e in maniera più visibile con il patto del Nazareno nell’era renziana. Il Rosatellum, con le sue finalità di governo, è l’indizio più evidente.
Si vedrà se un’operazione macroniana avrà tempo e spazio per realizzarsi anche in Italia. E se Salvini e Di Maio — che si propongono come i fondatori della Terza Repubblica e di un nuovo bipolarismo — daranno tempo e spazio agli avversari per costruire un simile progetto. In ogni caso servirebbero nuovi attori per un’operazione che si porrebbe come area di rappresentanza alternativa a quella sovranista e populista.
Ma il futuro è oggi. La sfida che sta per iniziare con le consultazioni per la formazione di un governo, garantisce a Berlusconi ancora un ruolo importante, con la consapevolezza però che l’unità del centrodestra non è un valore in sé. Certo, nessun leader può essere insensibile alla necessità di dare stabilità al Paese. Sarebbe tuttavia complicato assecondare progetti che allontanerebbero il suo partito dall’area di riferimento europea, dove Forza Italia esprime il presidente del Parlamento. E sarebbe ancor più difficile spiegare al «ceto moderato» come si possano combinare le tesi liberali sostenute per venticinque anni con il reddito di cittadinanza.

La Stampa 26.3.18
L’avanzata dei putiniani d’Italia
di Massimiliano Panarari


«Marciare divisi, colpire uniti». La massima strategica del feldmaresciallo prussiano Helmuth von Moltke si adatta benissimo anche ai putiniani d’Italia. Una galassia assai articolata, ma pronta a ricompattarsi all’istante, con alcuni grandi pianeti e tanti satelliti minori. Un partito molto trasversale che va dall’estrema destra all’ultrasinistra, con il minimo comun denominatore nell’antiliberalismo, in una specie di pavloviano riflesso anticapitalista e, soprattutto, in un fastidio malcelato - quando non direttamente rivendicato - per l’idea di democrazia rappresentativa. Perché qui non si tratta tanto di rapporti economici (e di sanzioni che alcuni soggetti imprenditoriali vogliono alleggerire o levare), ma di politica tout court. E di ideologia, quella rossobruna (alla convergenza di opposti estremismi) ed eurasiatica.
In origine c’era Silvio Berlusconi, che aveva una relazione speciale, e personale, con l’ormai sempiterno presidente russo; poi, nel corso di questi ultimi anni, l’intera coalizione di centrodestra (oggi diventata decisamente di destra-centro) si è fatta risucchiare nell’orbita della simpatia per il putinismo e dei rapporti (più o meno) diretti con Russia Unita o con le formazioni politiche iperpopuliste dell’ex cortina di ferro.
Relazioni privilegiate che, non ci dovrebbe essere bisogno di ricordarlo, configurano rischi e gradi variabili di pericolosità per il nostro Paese, che nell’atlantismo e nell’europeismo trova i fondamenti della propria politica internazionale. Da Fratelli d’Italia alla Lega di Matteo Salvini - che in un tweet ha definito il rieletto Putin «uno dei migliori uomini politici della nostra epoca», e si avvale dell’«Associazione culturale Lombardia-Russia» come della propria testa di ponte in terra ex sovietica -, la destra istituzionale e di governo appare compatta nell’esprimere ammirazione per il neo-zar. Il putinismo è anche l’unico collante del solitamente litigiosissimo arcipelago del neofascismo - da Forza Nuova a CasaPound - che stravede per il «patriottismo russo» in Ucraina e sul fronte del Donbass, dove sono andati a combattere come volontari anche svariati «miliziani» italiani. Irresistibile, inoltre, è l’ascendente russofilo su tutta una serie di ambienti culturali anti-occidentali, tanto movimentisti quanto salottieri. E se il dimaismo di governo sembra sempre impegnato per l’accreditamento presso le cancellerie occidentali, ben diverso è il «grillismo di lotta», che nel suo network mediatico internettiano ha fatto (e fa tuttora) circolare abbondantemente fake news e disinformazione made in Russia; ed essendo il Movimento 5 Stelle una forma-partito camaleontica, il filoputinismo rimane comunque ben presente, e rappresentato, tra i ranghi pentastellati.
I vertici del Cremlino elargiscono sostegni di varia natura (finanziaria e non) a quei partiti amici che, un tempo, sarebbero stati detti «fratelli», mentre oggi Mosca adotta l’interscambiabilità dei suoi partner politici e non si fidanza per la vita con nessuno. Ma per fare proselitismo il putinismo ha puntato anche su una modalità di re-ideologizzazione. Una narrazione contrapposta alla globalizzazione, e basata su nazionalismo, sovranismo, isolazionismo, comunitarismo, identitarismo e avversione nei confronti dei diritti individuali: un prodotto perfetto per apparire (paradossalmente) antisistema, adottato dai partiti populisti simpatetici per conquistare consenso sul mercato elettorale di un Occidente disorientato e scosso da un marcato disagio sociale. E, per i tanti fan dell’uomo forte (e solo) al comando, Putin ha messo in campo l’offerta politica della «democratura»: plebiscitarismo, tanta comunicazione, più una (abbondante) spruzzata di autoritarismo riesumato dal socialismo reale e convertito in leadership personalizzata. Et voilà, il gioco è fatto.

Corriere 26.3.18
Un’Italia più filorussa? Primo bivio per i vincitori
di Maurizio Caprara


Anche se adesso non si conoscono il perimetro della sua maggioranza e chi lo guiderà, il prossimo governo italiano sarà più filo-russo dei precedenti, già molto disponibili verso un Paese dal quale acquistiamo circa il 38% del gas e il 18% del petrolio che consumiamo. Questa prospettiva si delinea mentre i margini per agire a favore dello Stato presieduto da Vladimir Putin si restringono a causa di circostanze evidenti.
Per rispondere agli avvelenamenti dell’ex spia russa Sergej Skripal e della figlia Yulia compiuti a Salisbury a inizio marzo — attribuiti a mani di Mosca dalla Gran Bretagna con una versione accreditata dall’Unione Europea — oggi i rappresentanti permanenti dei 28 Stati dell’Ue esaminano a Bruxelles quali altre misure aggiungere al richiamo per consultazioni dell’ambasciatore europeo dalla Russia. In attesa di sapere quali Paesi espelleranno diplomatici russi accusati di spionaggio, come ha deciso il Regno Unito, e in che cosa consisteranno ulteriori misure di singoli Stati, il futuro governo italiano avrà di sicuro scadenze importanti di fronte a sé.
Le sanzioni europee contro persone e aziende che hanno agito contro l’integrità territoriale dell’Ucraina sono state confermate, il 12 marzo, fino al 15 settembre prossimo. Le sanzioni dovute al medesimo motivo che colpiscono attività economiche in Russia saranno in vigore fino al 31 luglio e prima di allora andranno soggette a riesame. Lo stesso accadrà per i provvedimenti contro gli scambi con la Crimea, che la Russia si è annessa nel 2014 sottraendola all’Ucraina, validi fino al 23 giugno.
L’Italia, pur rispettandole, non ha nascosto mai insofferenza verso quelle sanzioni. Adesso che gli assetti della scorsa legislatura sono stati squassati dalle elezioni del 4 marzo, nel nuovo Parlamento hanno pesi notevoli sia la Lega di Matteo Salvini sia Forza Italia di Silvio Berlusconi sia 5 Stelle, forze che verso Putin hanno atteggiamenti tra l’amichevole e il sostenitore. Potrebbero spingere il governo italiano a schierarsi contro le sanzioni. Ma anche senza arrivare a mosse così radicali, tali da determinare uno strappo con partner europei, è probabile che le tre formazioni cercheranno di intensificare i rapporti con Mosca ancor più di quanto hanno fatto i governi guidati dal Partito democratico.
Al di là di se sia giusto o meno, due sono le direttrici lungo le quali il prossimo governo potrebbe fornire sponde al Cremlino mentre aumentano i rischi di collisione con l’Ue. La prima può essere quella di appellarsi a un impegno europeo a favorire relazioni con la società civile russa per spingere la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, Bers, a concedere finanziamenti a piccole e medie imprese (pmi) dello Stato sottoposto a sanzioni.
La seconda, tutta da costruire, può consistere nell’appoggiare una proposta di Putin: formare una forza multinazionale per mantenere una pace da inviare nel Donbass, parte dell’Ucraina nella quale si combattono indipendentisti pro-Russia e forze di Kiev.
Il danaro della Bers potrebbe essere utilizzato interpretando in questo senso parte di un programma accolto dal Consiglio Affari esteri, nel 2016, su iniziativa dell’alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Federica Mogherini. Il quinto punto raccomandava di contribuire a rafforzare la società russa, considerata come entità che non coincide con lo Stato. Sulla scia di quanto indicato dal ministro degli Esteri Angelino Alfano l’ambasciatore d’Italia a Mosca Pasquale Terracciano, di recente, ha spiegato l’intenzione italiana sulle pmi ai suoi colleghi europei e all’americano John M. Huntsman. Tesi esposta: aiutandole risalterebbe che le sanzioni colpiscono grandi gruppi russi dell’energia e aziende con sedi in Crimea.
Una forza multinazionale per il Donbass, giudicata a Ovest una possibile legittimazione del controllo di territorio da parte degli indipendentisti, non nascerà senza avalli dell’Onu. Ma se si formasse, un’Italia più filorussa le negherebbe militari?
Occorrerà stare attenti, tenersi su una linea realista senza staccarsi dai nostri alleati. E senza sconfinare dalla prudenza al bendarci gli occhi davanti all’attivismo, non delicato, dell’ex agente del Kgb Putin.

Repubblica 26.3.18
Intervista a Gian Carlo Caselli
La biografia di Casellati rievoca le vergognose leggi ad personam
Non può farmi piacere che vengano premiate quelle posizioni
“Alla guida del Senato chi ha insultato la magistratura libera”
di Liana Milella


Gian Carlo Caselli Nato a Alessandria, 78 anni, è un magistrato in pensione dal dicembre 2013. Nel corso della sua carriera è stato procuratore di Palermo e di Torino.
Si è occupato a lungo di inchieste sul terrorismo (Brigate rosse e Prima linea) e di lotta alla mafia

ROMA Che giudizio dare di Elisabetta Casellati? «È un fatto, appartiene a quell’area che ha riservato ai magistrati una valanga di sistematici insulti, a partire dalle famigerate invettive “cancro da estirpare”, “malati di mente”, “antropologicamente diversi dal resto della razza umana”». Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e di Torino, non fa sconti alla neo presidente di palazzo Madama.
Sorpreso dal voto del Senato?
Cosa le evoca il nome della neo presidente?
«La sua nomina suscita in me alcuni interrogativi per i suoi “trascorsi” su vari temi della giustizia. Sicuramente qualcuno mi accuserà di conflitto di interessi, ma se anche vi fossero profili del genere è facile verificare che si tratta sempre di riflessioni basate su fatti obiettivi. Sono andato in pensione dopo quasi 50 anni di magistratura. Anni pesanti, di dura fatica, e per la mia famiglia anche di rinunzie. Constatare che vengono premiate le posizioni oltranziste e filo berlusconiane sui problemi della giustizia non può certo farmi piacere».
Della biografia di Casellati cosa la turba di più?
«Leggerla significa rievocare una lunga sequenza di fatti e vicende antitetiche rispetto alle posizioni, doverose per qualunque magistrato, che rivendicano la necessità di puntare a un’applicazione della legge uguale per tutti. Mi riferisco al susseguirsi di leggi ad personam che rispondono alla richiesta dei potenti di essere liberati dalle regole, di avere una giustizia “à la carte”, valida solo per gli altri.
Leggi che hanno messo a rischio l’intero sistema e si proponevano di normalizzare la magistratura “troppo” indipendente. Un’altra faccia della stessa medaglia è la sostanziale mancanza di rispetto per la giurisdizione, quella di chi pretende di difendersi non “nel”, ma “dal” processo, anche con le vergognose leggi ad personam».
E secondo lei Casellati, che ha condiviso tutto questo, è per così dire colpevole?
«Tutto ciò appartiene all’area di Silvio Berlusconi e del suo entourage, di cui il nuovo presidente è stato uno dei più convinti e radicali esponenti proprio sui temi della giustizia, tanto da spingere qualche biografo ad usare per lei il termine “pasdaran”. E non possono certamente ridursi a folklore estemporaneo certi atteggiamenti pubblicamente ostentati dal neo presidente».
A cosa si riferisce?
«La definizione di “colpo di stato” applicata a una sentenza emessa in nome del popolo italiano, solo perché sfavorevole all’amato Cavaliere; o partecipare a una manifestazione di piazza davanti al Tribunale di Milano per protestare in schiere organizzate contro un processo a suo carico, quasi si fosse sul set del film di Moretti “Il caimano”; o ancora l’esibizione di un vestito nero, in segno di lutto, nella seduta del Senato che discuteva la decadenza del Cavaliere in applicazione della legge Severino».
C’è chi sostiene oggi, assolvendola, che la politica è compromesso...
«Sì, l’ho sentito dire anche io, guai a dimenticare che la politica è compromesso per cui... è un po’ come tirare il sasso e poi nascondere la mano... Ma non mi piace, e sono contento di non essere mai entrato in politica. In ogni caso, significa relegare in soffitta, dopo averli tanto sbandierati, principi e valori importanti per la democrazia».
Chi la sostiene vanta il fatto che sia la prima presidente donna del Senato...
«Tanto per non negarmi nulla, e attirami altre frecciate (spero che nessuno arriverà a controllare il colore dei miei calzini...), rilevo che nel discorso di insediamento Casellati ha detto che la sua elezione “è un onore che sento doveroso condividere con tutte le donne”. Chissà se si sentono parte di questo “tutto” anche le tante donne che su temi assai sensibili (aborto, unioni civili, pillola del giorno dopo...) hanno opinioni sempre osteggiate, e duramente, proprio dalla neo presidente?
Infine, posso dire per esperienza che la responsabilità del ruolo spesso plasma il titolare cambiandolo anche notevolmente. Staremo a vedere...».

Il Fatto 26.3.18
Le aggressioni nelle strutture sanitarie
Il nuovo Osservatorio non basta ancora
di Chiara Daina


Il nuovo Osservatorio sulle aggressioni voluto dal ministero della Salute non basta. Le dottoresse vittime di violenza durante il servizio di guardia medica (e non solo loro!) pretendono misure più urgenti. Come la ristrutturazione dei luoghi di lavoro, il controllo del territorio con le forze dell’ordine, guardie private agli ingressi e sistemi di video sorveglianza. Serafina Strano, violentata a settembre da un paziente nella sede di Trecastagni (Catania), si sente abbandonata dalle istituzioni. Dice che i servizi igienici e gli impianti non sono a norma e che ha richiesto un intervento dei Nas, che però non si sono ancora fatti vedere. Ha dovuto chiedere a suo marito di farle compagnia mentre sta al lavoro perché ha paura. E ce ne sono tante di sue colleghe che si fanno scortare dai partner o dai figli. A Nicolosi una dottoressa paga due persone per assisterla nei turni di notte. Il braccialetto con pulsante non conta nulla. La prima cosa che fa l’aggressore è tagliare i fili del telefono a cui il braccialetto è collegato. Il 28 marzo il sindacato dei Medici italiani presenterà agli ordini professionali un pacchetto di proposte per adottare al più presto provvedimenti.

Il Fatto 26.3.18
Caso David Rossi, un ex gigolò a Le Iene: “Festini di Siena: politici banchieri e magistrati”
Un gigolò intervistato dalle Iene dopo il mistero della morte di David Rossi
di Davide Vecchi


Magistrati, imprenditori, prelati, manager, giornalisti, massoni, uomini delle forze dell’ordine, politici, tra cui un ex ministro: sono numerosi i soggetti riconosciuti da un gigolò come partecipanti ad alcune cene e festini consumati nelle ville attorno a Siena, in particolare in una a Monteriggioni. Tutti collegati a Mps. L’ultimo tassello del mosaico sulla morte di David Rossi, il manager di Monte dei Paschi trovato morto la sera del 6 marzo 2013, lo rivela le Iene in un servizio mandato in onda ieri sera e che ora passerà al vaglio dei magistrati di Genova, competente sull’operato dei pm senesi. Un tassello che sarebbe dovuto essere individuato e approfondito già nel 2013 dagli inquirenti toscani e invece portato alla luce – come molto altro in questa vicenda – da inchieste giornalistiche. In particolare un libro pubblicato a ottobre da Chiarelettere e le Iene hanno denunciato le lacune delle indagini spingendo la procura di Genova ad aprire un fascicolo a carico dei colleghi di Siena per individuare possibili negligenze nelle indagini sulla morte di Rossi.
Troppe infatti sono le carenze – per incapacità o dolo – registrate nella prima fase dell’inchiesta sulla scomparsa del manager di Mps. In particolare alcune prove fondamentali distrutte dal pm Aldo Natalini, come sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi e mandate al macero nell’agosto 2013 con indagini ancora in corso, prima ancora che il giudice per le indagini preliminari disponesse l’archiviazione o un supplemento di indagini e senza avvisare neanche i legali dei familiari di David. Non solo. I fazzoletti sono stati distrutti senza neanche essere prima analizzati. Con loro molte altre prove che sarebbe state fondamentali a ricostruire l’accaduto. I video delle 12 telecamere, le celle dei telefonini presenti nella zona, l’elenco dei possibili testimoni, l’esame dei presenti nell’area di Mps: giusto per citare alcune delle ormai evidenti lacune investigative.
Lo scorso novembre l’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, ha rivelato a Le Iene l’esistenza di alcuni festini nelle colline senesi ai quali avrebbero partecipato anche i magistrati. Secondo il racconto fatto alla trasmissione televisiva, le indagini sulla scomparsa di Rossi non sono state compiute e il caso rapidamente liquidato come suicidio proprio perché alcuni magistrati avrebbero avuto dei rapporti diretti con altri personaggi di spicco della banca e della città interessati a non approfondire la verità. Questa versione trova ora un riscontro concreto nella testimonianza del gigolò raccolta e trasmessa ieri dalle Iene e che ora passerà al vaglio dei magistrati di Genova. Il ragazzo, di appena 26 anni, racconta con dettagli le serate, riconosce i partecipanti sia come suoi clienti sia come commensali o clienti di suoi altri colleghi. Inoltre garantisce di avere le prove di quanto afferma: numeri di telefono, pagamenti, mail e altro. “Sono persone pericolose, con le quali bisogna stare attenti”, dice tra l’altro. Una testimonianza molto importante che offre agli inquirenti una strada precisa da seguire per accertare almeno una parte di verità. Ci sono nomi e cognomi di almeno dieci partecipanti alle serate. Ci sono i reclutatori del ragazzo, gli organizzatori di questi particolari eventi che possono essere facilmente rintracciati e riscontri individuabili.
Il ragazzo parla anche di rapporti sessuali di gruppo, di cocaina, droghe. Ma al netto della prostituzione maschile e dell’uso di stupefacenti, ciò che colpisce e sembra ormai evidente è l’esistenza di una sorta di “cupola” che univa i controllori di Siena con i controllati. Se quanto raccontato da questo testimone dovesse rivelarsi anche solo in parte dimostrabile, l’intera vicenda Mps dovrebbe essere letta sotto un nuovo punto di vista. Perché due magistrati della procura di Siena partecipavano a feste e cene insieme a personaggi sui quali negli anni avrebbero dovuto indagare? E che tipo di rapporti avevano? Sicuramente di amicizia e amicali. Inoltre il giovane parla anche dell’esistenza di video delle serate. Quindi i partecipanti a quelle sere erano e sono ricattati o comunque ricattabili? Da chi? Sarà Genova ora a rispondere.

Il Fatto 26.3.18
Caduto Renzi, ora sono tutti contro l’aeroporto di Carrai&C.
L’aria è cambiata. Sette sindaci del fiorentino portano in tribunale il raddoppio della pista di Firenze. E il finanziere sbotta: “Ridicoli”
di Davide Veccchi


Firenze, teatro dell’ascesa di Matteo Renzi, è ora palco per i primi atti della caduta. Sette sindaci di altrettanti Comuni attorno al capoluogo hanno presentato ricorso al Tar contro il raddoppio della pista dell’aeroporto Peretola. Un progetto avviato nel 2014, già finanziato per 370 milioni di cui 150 dallo Stato, con master-plan approvato e procedura Via, oltre a specifici atti depositati all’Enac che nessun altro scalo ha: la Valutazione dell’impatto del rumore aeroportuale (Vis) e lo studio sul rischio aeronautico. Ormai manca solamente il via libera dalla conferenza dei servizi, poi i lavori possono iniziare.
L’opera negli ultimi anni è stata oggetto di molte critiche da parte di comitati di cittadini e di associazioni supportate da partiti di opposizione ma senza il sostegno aperto degli amministratori, rimasti al mugugno. Il presidente della Regione, Enrico Rossi, riconfermato nel 2015 alla guida della Toscana sotto la bandiera del Pd, aveva inserito l’opera come punto qualificante del suo programma di governo. E nessun consigliere della maggioranza si è espresso in tutti questi anni contro il progetto. Tra i Comuni nel tempo si è fatto sentire quello di Lastra a Signa che però da 20 anni deve realizzare una cassa di espansione prevista nel piano regolatore ma non riesce per mancanza di fondi e così l’Adf (società aeroporti di Firenze) si è fatta carico dell’onere e la costruirà a proprie spese. Anche la giunta di Prato ha sollevato delle critiche alla fattività. Ma decisamente blande. Fino a pochi giorni fa quando i sette sindaci di Lastra a Signa, Prato, Calenzano, Campi Bisenzio, Carmignano, Poggio a Caiano e Sesto Fiorentino hanno depositato a sorpresa il ricorso al Tar. A sorpresa e con modi e tempi quasi incomprensibili. Per mettere a fuoco l’accaduto è d’aiuto indossare le lenti della politica.
Presidente di Adf è Marco Carrai, l’amico e fedelissimo fundraiser di Matteo Renzi. Fu lui a insediarlo alla guida degli aeroporti fiorentini prima di conquistare Palazzo Chigi e fu lui, da premier, a inserire nel decreto Sblocca Italia i primi 50 milioni di stanziamenti pubblici destinati allo scalo. Il Pd era compatto e renziano e aveva nella Toscana il regno e in Firenze il principato. Caduto il reggente gli equilibri variano. Rossi è uscito dal partito aderendo agli scissionisti guidati da Pierluigi Bersani. Rimane a favore dell’aeroporto, ma apertamente contrari si sono espressi i vertici regionali di Liberi e Uguali che dopo il voto del 4 marzo sono stati riassorbiti dalla direzione del Pd Toscana: dei cinque “capi” tre sono dem, due di ex compagni usciti dal partito, tra cui proprio LeU. E anche in Regione la consigliera Serena Spinelli, l’unica ad aver seguito Rossi fuori dal Pd, si è espressa a sostegno dei sindaci contrari alla pista.
Ecco, i sindaci. Tra i sette, cinque sono del Pd. Spicca Matteo Biffoni, primo cittadino di Prato e fedelissimo dell’ex premier che lo ha inserito nella segreteria dem sia nazionale sia regionale. Per questo quando Carrai pochi giorni fa si è ritrovato davanti la lista dei suoi oppositori è uscito dal silenzio e convocato una conferenza stampa. E non ha usato toni propri dei soprannomi che lo accompagnano: il Richelieu o il Gianni Letta di Renzi. “Basta alle minchiate e a chi chiede cose irrealizzabili”, è stato l’esordio. “L’aeroporto è dello Stato, dichiarato strategico da più governi, in mano a una società che gestisce 54 aeroporti”. Poi lo sfogo: “Ci domandiamo il perché di certi ricorsi, nessuno dei Comuni che l’hanno fatto è coinvolto nelle modifiche di Peretola a parte quello di Sesto”. Ancora: “Sono ricorsi surreali, a Prato gli aerei passano più alti che a Londra su Buckingham Palace”. Insomma: nessuno può oggi lamentarsi di nulla. Tanto che, garantisce, “entro l’anno poseremo la prima pietra, senza bisogno di aspettare la sentenza”. Di fatto con il via libera della conferenza dei servizi, i lavori possono iniziare e se il Tar nel frattempo dovesse dar ragione ai ricorrenti, la società si appellerà al Consiglio di Stato. Insomma se va bene finisce a carte bollate e con un’opera pubblica come le molte di Italia 90: realizzata a spese dello Stato e mai utilizzate. Se va bene.

Repubblica 26.3.18
Dov’è finita la Sinistra
L’intervista a Marilù Chiofalo, assessore comunale di Pisa
“Il Pd è un figlio che ha preso solo i difetti dei genitori”
“Serviva l’organizzazione dei Ds e la leggerezza della Margherita Invece abbiamo eliminato le sezioni spingendo le persone sui social”
di Concita De Gregorio


Marilù Chiofalo arriva all’appuntamento in bicicletta, pazienza se piove. Una ragazza di 49 anni, molto bella. Scienziata, assessore comunale a Pisa ancora per due mesi, fino alle prossime elezioni che - nessuno lo dice, tutti lo pensano - il Pd è destinato a perdere. Salvo colpi di scena, naturalmente: alle politiche Pisa ha eletto all’uninominale due parlamentari della Lega, e il centrosinistra non ha ancora un candidato sindaco. «La mia è una storia piccola. A chi può interessare?».
La storia piccola è questa: laureata in Fisica, perfezionata alla Normale. Terza di tre sorelle, nata a Reggio Calabria nell’autunno del ’68, è arrivata a Pisa per studiare e come moltissimi ragazzi del Sud ci è rimasta.
Insegna all’università Fisica della materia condensata. Mi scusi, cioè? «Fisica dei liquidi e dei solidi quantistici: costruisco teorie che servono per predire dei fenomeni». Che fenomeni?
«Per esempio la possibilità di rivelare onde gravitazionali con atomi a temperature bassissime». Accantoniamo la teoria dei vapori atomici ultrafreddi, dei quali mi parla con entusiasmo come di un modello per spiegare la vita intera.
Passiamo agli altri interessi: ha giocato (a livello agonistico) a calcio, tennistavolo e pallavolo.
Va a cavallo. Si è diplomata in Conservatorio, suona il sax tenore in un’orchestra. Dirige un festival musicale. È fanatica dei giochi di ruolo («Facevamo l’alba, da ragazzi. Nottate intere»), di fumetti e di Fantasy, ha letto il “Signore degli anelli” fino a consumarlo. Ha promosso l’allattamento al seno materno.
Si occupa di divulgazione scientifica alla radio. «Di recente ho fatto ai miei studenti un corso intitolato “Back to Hogwards”, lezioni sulla fisica di Harry Potter: sa, la realtà fisica che c’è negli incantesimi. Il giratempo e la passaporta.
Esattamente le cose che io vorrei. Sono sempre in ritardo. Il teletrasporto sarebbe fondamentale, capisce, per me.
Anche l’ubiquità: con sei deleghe e due lavori, e l’orchestra, la figlia». La figlia ha vent’anni, studia ingegneria biomedica. «E la politica naturalmente».
Sorriso. «L’esperimento di fondazione del Pd, al quale ho partecipato con passione venivo dalla Margherita, ma senza aver mai militato nei partiti precedenti - non è riuscito. Ma non è un problema.
I fallimenti sono indispensabili per mettere a punto le soluzioni».
Cosa non è riuscito?
«Serviva l’organizzazione dei Ds e la leggerezza della Margherita. Invece il Pd ha preso l’evanescenza della Margherita e la rigidità dei Ds: come un figlio che prenda solo i difetti di entrambi i genitori».
Che disastro. Non si poteva prevedere, evitare,
trattandosi di un concepimento in provetta?
«Si poteva. Ma l’errore non è stato al concepimento. È successo dopo. Quando costruisci soluzioni a problemi complessi devi stare lì al pezzo, vedere le criticità, trovare in gruppo soluzioni, verificare: quello che ha funzionato lo tieni, il resto lo butti. È un lavoraccio, richiede presenza costante. L’origine del danno, nel Pd, è stata la sparizione dei luoghi».
Intende le sezioni, i circoli. Il partito liquido?
«Ma certo. Come puoi condividere un processo se non c’è un posto dove farlo? Le cose non succedono da sole: le fanno le persone. I circoli c’erano. Ma se tu decidi che la politica si fa in rete, sui social, allora vince chi la sa fare meglio in rete. Se decidi che quella è l’unica piazza allora le persone vanno lì a cercare risposte ai bisogni.
Glielo dice una che viaggia con quattro dispositivi sempre accesi. La rete è utilissima, ma le soluzioni complesse sono impossibili in assenza dei corpi.
Se tu non parli con le persone, se non hai dei luoghi per spendere tempo fisicamente, hai perso».
Lei non crede alla capacità degli individui di informarsi in modo autonomo, in rete?
«A parte il fatto che non tutti, specialmente le fasce deboli della società che la sinistra dovrebbe avere a cuore, hanno un computer. Non è un dettaglio, mi creda: non puoi pensare di far politica in rete se prima non hai completamente digitalizzato il paese. È ovvio.
Poi c’è un dato micidiale in Italia di analfabetismo funzionale: la ridotta capacità di decodificare le informazioni, coglierne la gerarchia».
Che dipende da?
«La debolezza dei sistemi culturali e didattici. Se non investi in formazione e cultura, se non parti dalla scuola cosa fai: lasci una massa immensa di informazioni a persone che non sono in grado di decifrarle? E se sono informazioni errate?
Manipolate? False? Si sa che il peggio si propaga più velocemente».
È una legge della fisica?
«In un certo senso. È un modello e un’analogia. Glieli illustro?».
No, no, mi fido. D’altra parte anche a occhio: il populismo dilaga.
«Questo. Il populismo ha subito attecchito a sinistra».
Mi dica un paio di ragioni.
«L’insicurezza. Un collega economista ieri a pranzo mi ripeteva che questa crisi economica è più grave di quella del ‘29. Questa è globale. In questo mare periglioso e aperto, in questa condizione di profonda incertezza personale tu sei in cerca di risposte immediate e concrete. Sulla cura, sul lavoro, sugli asili nido.
Le cose della vita. La sinistra ha smesso di parlare con le persone, di ascoltarle occhi negli occhi, di confrontarsi con loro. Le nostre soluzioni, anche quando brillanti, sono apparse frutto del lavoro di una intellighenzia. Abbiamo fatto cose anche molto coraggiose ma non le abbiamo veramente costruite con le persone comuni in maniera sistematica organizzata e diffusa. Le faccio un esempio?».
Certo.
«Le unioni civili. Un vecchio compagno che viene dal Pci, sui sessant’anni, mi ha detto: ma non avete capito che a noi delle unioni civili importa poco o niente, ci interessa la sicurezza negli spazi cittadini? Non è un episodio isolato. La politica è costruzione di risposte ai bisogni, ma è anche progettazione del futuro. In entrambi i casi devi fare una gerarchia delle priorità e saperle condividere. Andare in tv non basta».
L’ha sorpresa il risultato elettorale?
«Per niente, purtroppo. Un evento quando accade è la fine di un processo, non l’inizio. La vittoria di Lega e Cinque stelle è un esito. Si poteva, anzi si doveva arginare».
Crede che il Pd perderà Pisa?
«Spero di no, ma alle politiche siamo andati sotto, in città, in favore del centrodestra a trazione Lega. Il centrodestra ha superato il Pd. È vero che il voto amministrativo è diverso, ma...
Insomma. Non è che negli ultimi due mesi prima dell’esame, se non hai studiato tutto l’anno, ce la fai. Dovremmo fare una coalizione di tutto il centrosinistra. Speriamo che sia ancora possibile».
Si è pentita di essersi dedicata alla politica?
«Assolutamente no. Mi è piaciuto lavorare perché la pratica fosse aderente al modello. Fare in modo che il partito fosse veramente popolare: discutere nei quartieri, lavorare dal basso.
Dove è accaduto, ha funzionato».
Cosa farà dopo il voto?
«Da fine maggio in poi ho due o tre viaggi di lunga durata negli Stati Uniti, sarò visiting fellowship in Colorado, poi a Stanford».
Non mi ha detto quali sono le sue sei deleghe, da assessore.
«Educazione, tecnologie ed educazione alle scienze, pari opportunità, valori memoria e cultura della legalità.
Anticorruzione. Attuazione del codice etico».
Importanti. Anche se immagino che non siano considerate cruciali, in giunta.
«Infatti. Entusiasmanti, tuttavia. Fondamentali».
Se le chiedessero di lasciare l’università per restare in politica lo farebbe?
«Che domanda... No, ora no.
Prendo un sabbatico. Magari al ritorno. Ma poi chissà cosa sarà successo, fra un anno, al mio ritorno», ride.


Il Fatto 26.3.18 
Brigate rosse
Volevano essere rivoluzionari. Furono soltanto parassitari
di Gian Carlo Caselli


Una cosa che ci riporta altro che alle caverne… Fare la vittima è diventato un mestiere… La vittima è una figura stramba”. Parole vergognose e senza senso, pronunciate da una pluriassassina come la brigatista Barbara Balzerani. Roba che – trasferita in una cartella clinica – si tradurrebbe in frustrazione, impotenza, rancore e rabbia per il fallimento della “lotta armata”. Un cervello imprigionato nel fanatismo del passato, alimentato dall’odio e dal proposito di distruggere in un quadro che è stato di sostanziale “subalternità politica”.
La storia delle Br è contrassegnata da attacchi al “cuore dello Stato” di crescente ferocia, sempre compiuti quando il nostro Paese cercava – per un verso o per l’altro – di cambiare. Il primo di questi attacchi (sequestro Sossi, 1974) irrompe nel pieno della campagna referendaria per il divorzio, una novità dirompente rispetto alla nostra vecchia cultura. Il secondo (strage Coco-Saponara-Dejana, Genova 1976) avviene nel bel mezzo di consultazioni elettorali amministrative che fanno registrare spostamenti percentuali in doppia cifra con una notevole avanzata dei partiti di sinistra, chiamati a governare alcune grandi città. Il terzo (sterminio della scorta, sequestro e uccisione di Moro, Roma 1978) coincide con la formazione di un governo nazionale che per la prima volta – esclusa una breve esperienza subito dopo la fine della guerra – vede collaborare insieme maggioranza e opposizione.
Tutto ciò significa che le Br, a dispetto delle pallosissime “risoluzioni strategiche”, sono state incapaci di una autonoma linea politica. Erano piuttosto parassiti di quella nazionale, a rimorchio delle scelte altrui indirizzate (utilizzando gli strumenti della democrazia) a cambiamenti di forte impatto. Non ci sono elementi sufficienti per dire che le Br fossero “eterodirette”, ma è evidente come fossero politicamente “subalterne”. Nemiche di ogni cambiamento, non riescono ad impedirlo nel 1974 e nel 1976. Ci riescono nel 1978 con Moro, provocando nel sistema uno sconquasso profondo dal quale neppure oggi, forse, ci siamo pienamente ripresi. La riprova che in democrazia il terrorismo non ha mai risolto alcun problema. Semmai ha aggravato quelli esistenti o ne ha ostacolato/impedito la soluzione.
E tuttavia, si diffonde il malvezzo di chiamare in cattedra proprio i protagonisti negativi della stagione del terrorismo. Così, gli anni che essi hanno violentato e insanguinato vengono rievocati trasformando esperienze scellerate in modelli positivi. Una perdita della memoria che occulta il passato, sottovalutando profondamente il pericolo che esso ritorni.
Non esistono, come vorrebbero far credere la Balzerani e i suoi epigoni, verità delle Br da contrapporre alle vittime. Confondere vittime e assassini può soltanto provocare incertezza e confusione su temi che esigono invece serietà e chiarezza. Se poi a pontificare sono terroristi usciti dal carcere, vien da aggiungere che la pena espiata non è certo servita alla “rieducazione” voluta dalla Costituzione. E comunque non sta scritto – in nessun comma della Carta – che i condannati per fatti di terrorismo debbano tendere…. alla rieducazione dei cittadini.

Il Fatto 26.3.18
Br, (breve) storia delle pene inflitte
di Gianni Barbacetto


Racconta che non riuscì a dormire, Mario Moretti, la notte prima del 16 marzo 1978. Il giorno lo trovò sveglio nell’appartamento di via Gradoli, a Roma, insieme a Barbara Balzerani. I due fecero colazione e uscirono di casa. Moretti passò davanti all’abitazione dove viveva Aldo Moro, per controllare che i programmi della giornata fossero rispettati. Poi si diresse in via Fani. Questa è la storia criminale e giudiziaria del pugno di uomini e donne che entrarono in azione quel giovedì di quarant’anni fa, sterminando la scorta di Moro e sequestrando il presidente della Dc, che al termine dei 55 giorni di prigionia, “eseguendo la sentenza”, fu ucciso. È stata ricostruita anche sulla base di un libro di cui sta per uscire una nuova edizione, Gli anni della lotta armata, di Davide Steccanella, edito da Bietti. Barbara Balzerani, nei giorni dell’anniversario, se l’era presa con le vittime: “C’è una figura, la vittima, che è diventata un mestiere. Questa figura stramba, per cui la vittima ha il monopolio della parola. Non è che se vai a finire sotto un’auto sei una vittima della strada per tutta la vita, lo sei nel tempo che ti aggiustano il femore…”. Nessuno dei brigatisti coinvolti in via Fani è oggi in cella.
1) Mario Moretti. A 31 anni è il più anziano. Mario Moretti, di origini marchigiane, ex operaio a Milano della Sit-Siemens, è clandestino e ricercato da anni perché considerato uno dei fondatori delle Br, alla fine del 1970. Nel frattempo, tutti gli altri del gruppo originario sono stati arrestati o uccisi. È il regista di via Fani. Guida la Fiat 128 bianca che alle 9.02 blocca la strada alla Fiat 130 nera di Moro e all’Alfetta chiara della sua scorta. Gestirà anche la prigionia, gli interrogatori, la soluzione finale. Poi scomparirà fino al 4 aprile 1981, quando viene arrestato dopo dieci anni di latitanza. Condannato a più ergastoli. Nel 1990 rilascia una intervista a Sergio Zavoli per il programma Rai La notte della Repubblica e nel 1993 a Rossana Rossanda e Carla Mosca (Una storia italiana, Anabasi, poi Mondadori). Non ha mai chiesto la liberazione condizionale. Ottiene il suo primo permesso nel 1993 e la semilibertà dal 1997. Oggi è semidetenuto nel cercere milanese di Opera, in cui rientra tutte le sere.
2) Prospero Gallinari. Ha 26 anni, era già stato arrestato quattro anni prima, a Torino, il 30 ottobre 1974 e processato con i componenti del gruppo storico delle Brigate rosse. Evaso dal carcere di Treviso il 1 gennaio del 1977 e si era unito alla colonna romana delle Br. In via Fani è (con Morucci, Bonisoli e Fiore) uno dei quattro del gruppo di fuoco che, vestiti da piloti dell’Alitalia, eliminano la scorta di Moro. Viene arrestato il 24 settembre 1979, dopo uno scontro a fuoco in cui viene inizialmente dato per morto. Condannato a più ergastoli, non si è mai dissociato dalla lotta armata. Pena sospesa nel 1996 per ragioni di salute. Nel 2006 subisce un trapianto di cuore e ottiene la detenzione domiciliare. Muore a Reggio Emilia il 14 gennaio del 2013, a 61 anni.
3) Valerio Morucci. È l’unico romano del gruppo di fuoco. A 29 anni, Valerio Morucci, detto “Pecos”, ha alle spalle un decennio di militanza e ripetuti contatti con i Gap di Giangiacomo Feltrinelli. Arrestato il 29 maggio 1979 insieme alla sua compagna, Adriana Faranda. Con lei ha già abbandonato le Br in disaccordo con la gestione Moro. Partecipa alla rivolta dell’ottobre 1980 nel carcere di Nuoro. Si “dissocia” dal terrorismo, senza fare i nomi di suoi complici, prima che sia approvata nel 1987 la “legge sulla dissociazione”. Nel 1994 ottiene la liberazione condizionale.
4) Franco Bonisoli. Arriva la sera prima con il treno da Milano, per far parte del gruppo di fuoco di via Fani. Ha 22 anni, è clandestino da quando ne ha 19 ed è già membro dell’esecutivo Br. È il primo a essere arrestato: il 1 ottobre 1978, nella base milanese di Via Monte Nevoso. Condannato a più ergastoli, sconta alcuni anni nelle carceri speciali. Si “dissocia” dalle Br dopo l’approvazione della legge del 1987 che concede benefici a chi lascia le organizzazioni armate. Dal 2001 è libero. Nel 2015 prende parte, insieme ad Agnese Moro, una delle figlie dello statista rapito e ucciso, al progetto Il libro dell’incontro.
5) Raffaele Fiore. Arriva anch’egli in treno a Roma, la sera prima, ma da Torino. Ha 22 anni ed è emigrato al Nord dalla Puglia. Ha lavorato come operaio alla Breda di Sesto San Giovanni. È il secondo dei brigatisti di via Fani a essere arrestato: meno di un anno dopo, il 19 marzo 1979. Mai dissociato, in semilibertà nel 1997. Nel 2006 ha rilasciato una intervista ad Aldo Grandi (L’ultimo brigatista, Rizzoli). Oggi lavora in una cooperativa.
6) Bruno Seghetti. A 27 anni, Bruno Seghetti è l’autista della Fiat 132 su cui viene caricato Moro subito dopo la strage e il sequestro. Arrestato a Napoli due anni dopo, il 19 maggio 1980, al termine di un rocambolesco inseguimento dopo l’omicidio dell’assessore dc Pino Amato. Mai dissociato. Viene ammesso al lavoro esterno al carcere nel 1995 e nel 1999 ottiene la semilibertà, revocata nel 2001 per avere partecipato ai funerali di Germano Maccari, ma in seguito ripristinata e poi trasformata in liberazione condizionale.
7) Alvaro Loiacono. A “copertura” del gruppo di fuoco, in via Fani ci sono due uomini e due donne. Tra questi, Alvaro Loiacono. Nel 1980 scappa in Algeria, nel 1986 ottiene la cittadinanza svizzera usando il cognome della madre (Baragiola), cittadina elvetica, ma viene arrestato a Lugano l’8 giugno 1988. Condannato dal Tribunale elvetico per l’omicidio del magistrato Girolamo Tartaglione, direttore generale degli Affari penali, ucciso il 10 ottobre 1978: ergastolo, poi commutato in 17 anni di carcere. È ammesso alla semilibertà nel 1997 e nel 1999 la sua pena è estinta. Nel giugno del 2009 è di nuovo arrestato in Corsica su richiesta dell’Italia, ma dopo quattro mesi di carcere la Francia non concede l’estradizione (come in seguito anche la Svizzera).
8) Alessio Casimirri. L’altro uomo di “copertura” è Alessio Casimirri, 27 anni. Scappato in Nicaragua, non ha fatto neppure un giorno di carcere. Fino al 2012 postava dal Sudamerica foto di pesca.
9) Barbara Balzerani. Le due donne presenti in via Fani sono Barbara Balzerani e Rita Algranati. La prima, 28 anni, armata di mitraglietta e paletta, presidia la testa del convoglio di auto che si trasforma in mattanza. Viene arrestata sette anni dopo, il 19 giugno 1985, a Ostia. Non si è mai dissociata. Nel 1998 ha pubblicato Compagna luna (Feltrinelli) e altri cinque romanzi. Nel 2011 ha ottenuto la liberazione condizionale e nel 2013 ha finito di scontare la pena.
10) Rita Algranati. Vent’anni, romana, Rita Algranati è l’ultima a essere arrestata, il 14 gennaio 2014 all’aeroporto del Cairo. Era fuggita in Nicaragua insieme al marito (poi ex) Casimirri, si era trasferita in Angola e poi in Algeria. Estradata in Italia, sta scontando la pena nel carcere di Rebibbia, ma in regime di semilibertà.
11) Adriana Faranda. Adriana Faranda, 26 anni, resta ad attendere la fine dell’azione nell’“ufficio” di via Chiabrera, che in quei giorni fa da base per le riunioni della Direzione delle Br. È lei che compra le divise Alitalia indossate dal gruppo di fuoco. Viene arrestata nel 1979. Dissociata, ha ottenuto nel 1993 la liberazione condizionale.
12) Anna Laura Braghetti.Ventiquattro anni, è colei che un anno prima di via Fani acquista, insieme all’“ingegner Altobelli”, l’appartamento in via Montalcini dove sarà tenuto prigioniero Moro. Entra in clandestinità dopo il sequestro. Partecipa ad azioni della colonna romana tra cui l’omicidio di Vittorio Bachelet. Viene arrestata il 27 maggio 1980. Nel 1998 pubblica Il prigioniero (Feltrinelli) dal quale viene tratto il film di Bellocchio Buongiorno notte. È in permesso lavoro esterno dal 1994 e in liberazione condizionale dal 2002.
13) Germano Maccari. Gestisce l’appartamento in via Montalcini: Germano Maccari, 27 anni, dopo via Fani lascia le Br. Viene arrestato il 13 ottobre 1993. Dopo averlo negato per tre anni, nel 1996 ammette di essere “il quarto uomo” del covo. Condannato all’ergastolo, la pena gli viene poi ridotta a 26 anni. Muore il 25 agosto 2001 nel carcere di Rebibbia per un aneurisma.
14) Raimondo Etro.Vent’anni, viene arrestato nel 1994 e condannato nel 1996 a 24 anni e 6 mesi, ridotti a 20 anni e 6 mesi in appello. Oggi è libero. È stato l’unico a reagire alle parole di Barbara Balzerani che chiedeva di “essere ospitata oltre confine per i fasti del quarantennale”. Etro ha risposto così: “Avendo anch’io fatto parte di quella setta denominata Brigate rosse… provo vergogna verso me stesso… e profonda pena verso di lei, talmente piena di sé da non rendersi neanche conto di quello che dice”.

Il Fatto 26.3.18
Vincere le elezioni non è abbastanza
L’esperienza di Syriza in Grecia e del PiS in Polonia rivela quanto è difficile mantenere le promesse di cambiamento. Ma le forze anti-establishment saranno giudicate sul programma, non sulle poltrone
di Jan Zielonka


Il risultato delle elezioni ha sconvolto i principali commentatori italiani. Sono sorpreso che si siano sorpresi. Da Washington a Varsavia, da Atene a Berlino, i politici anti-establishment sono in ascesa a spese di quelli di centro-destra e di centro-sinistra. Questa è la nuova normalità.
I politici anti-establishment rappresentano un insieme eterogeneo, per personalità e perché il contesto culturale, economico e geopolitico varia da Paese a Paese. Matteo Salvini non è così divertente come Beppe Grillo, uno va meglio al Nord, l’altro al Sud. Confrontare il leader del PiS (Diritto e sviluppo) in Polonia, Jaroslaw Kaczynski a quello di Syriza in Grecia, Alexis Tsipras, è come comparare mele con pere. Lo stesso vale per il finlandese Timo Soini e lo spagnolo Pablo Iglesias. Alcuni che protestano contro l’establishment sono neo-fascisti, altri neo-comunisti, alcuni se la prendono con l’austerità, altri con i musulmani, alcuni sono moderati, altri intransigenti, alcuni secessionisti, altri nazionalisti. Ma hanno qualcosa in comune: sono contro l’ordine liberale e i suoi progetti principali, l’integrazione europea, il liberalismo costituzionale e l’economia neoliberista. I migranti sono stati al centro delle campagne elettorali perché rappresentano la quintessenza delle politiche liberali di apertura dei confini, di protezione delle minoranze e di interdipendenza economica.
I nuovi protagonisti hanno sollevato molte critiche fondate all’establishment liberal. Sotto il comando dei liberal le disuguaglianze sono aumentate e la democrazia ha preso una deriva oligarchica. Tuttavia distruggere l’ordine costituito richiede competenze diverse da quelle che servono per costruirne un altro. Il vero test non è formare un governo, ma applicare il programma radicale che è stato promesso a un elettorato frustrato.
Negli ultimi anni le forze anti-establishment hanno formato governi in Paesi molto diversi tra loro come Grecia e Polonia. L’Italia può imparare qualcosa da quelle esperienze? Sia la sinistra di Syriza in Grecia che la destra PiS in Polonia hanno vinto le elezioni sotto le bandiere della giustizia sociale, la restituzione di potere ai cittadini e la libertà dalla interferenze esterne, rispettivamente nei campi dell’economia e dei migranti. Questi nobili slogan sono stati condivisi dai Cinque Stelle e della Lega alle elezioni. Si possono mantenere queste promesse?
La prima lezione offerta da Polonia e Grecia è economica. Politiche sociali ambiziose sono possibili soltanto se l’economia è in buone condizioni altrimenti vengono osteggiate dai creditori dello Stato, dalle imprese, dall’Ue. L’economia della Polonia è cresciuta più del 20 per cento nell’ultimo decennio e questo ha consentito al governo del PiS di rispettare gli impegni presi in campagna elettorale sui temi sociali. Inoltre, la Polonia non è soggetta ai vincoli dell’Eurozona e quindi è più libera dell’Italia e della Grecia di aiutare chi è in difficoltà. L’economia greca invece si è ristretta del 20 per cento negli ultimi 10 anni e i creditori hanno messo il veto sul tentativo di Syriza di fare ciò che il PiS in Polonia ha invece portato a termine.
Gli italiani tendono a pensare che la loro situazione economia sia molto migliore di quella della Grecia. Il ministro Pier Carlo Padoan ripete che il debito italiano è elevato ma sostenibile. I ministri dell’Eurozona e i fondi speculativi potrebbero avere un’opinione diversa se il governo di Roma iniziasse a staccare assegni per tutti i poveri e i disoccupati. Questo non significa che il prossimo governo italiano debba rinunciare a pretendere giustizia sociale, ma è bene che sia consapevole della sfida.
La seconda lezione offerta da Polonia e Grecia è democratica. Sia Syriza che il PiS hanno promesso di restituire potere al popolo togliendolo a giudici non eletti, ai banchieri, ai burocrati europei. Più facile a dirsi che a farsi. Il PiS in Polonia ha attaccato la Corte costituzionale piena di oppositori politici e ha sostituiro alcuni giudici con altri più fedeli. Ma questo ha innescato una reazione a catena. Nel giro di pochi mesi, il Pis si è trovato in guerra con l’intero sistema giudiziario. I salotti del leader PiS, Jaroslaw Kaczynski, guidano ora il Paese senza più vincoli, approvando una legge disastrosa dopo l’altra. Pesi e contrappesi possono rendere il processo decisionale farraginoso ma impediscono ai governanti di prendere decisioni troppo stupide e li costringono a cercare compromessi. Il popolo non ha certo la percezione di aver ritrovato alcun potere in questa atmosfera di caos e conflitti.
Syriza in Grecia ha messo subito nel mirino i banchieri e i burocrati di Bruxelles. Ha convocato un referendum sulle condizioni degli aiuti europei ma banchieri e burocrati comunitari hanno poi deciso di ignorare quel voto e Tsipras ha dovuto accettare condizioni peggiori di quelle iniziali. Lui rivendica almeno una vittoria morale, ma non ha certo ridato potere al suo popolo. La Grecia è tuttora un protettorato governato dall’Ue per conto dei creditori dello Stato greco.
Sia in Polonia che in Grecia (come in Italia), la maggior parte delle persone è a favore dell’integrazione europea. Ma sia Polonia che Grecia si stanno ora scontrando con l’Ue. La Grecia ha perso sovranità perché Tsipras non aveva un piano B nel caso il referendum avesse prodotto un risultato sgradito a Berlino e Bruxelles. Se non accetti le regole dell’Eurozona, devi essere pronto a combattere o a uscirne. L’uscita potrebbe non essere la fine del mondo ma, come stanno imparando gli inglesi ogni giorno, la sovranità ha un prezzo. Il governo del PiS in Polonia sembra determinato a difendere la sua ritrovata sovranità contro l’influenza “esterna” dell’Ue: respinge la richiesta di ospitare rifugiati, di cessare il condizionamento politico dei media, e di ripristinare l’indipendenza della magistratura. Non è però chiaro se i polacchi siano pronti per una vera guerra all’Ue, soprattutto se questo scontro dovesse fermare il generoso afflusso di fondi europei verso la Polonia. Se la situazione precipitasse, i polacchi potrebbero scaricare Kaczynski a favore di Donald Tusk, l’attuale presidente del Consiglio europeo ed ex premier della Polonia.
L’Italia non è la Grecia e neppure la Polonia, ma le esperienze di questi due Paesi sono utili agli italiani. I media italiani si stanno concentrando troppo sulle personalità dei leader e troppo poco sui dilemmi che il nuovo governo dovrà affrontare se vuole applicare un programma di cambiamento radicale. Un’alleanza con il Pd rappresenterebbe per i Cinque Stelle un’iniezione di rispettabilità internazionale di esperienza di governo. Se la Lega riuscisse a recuperare abbastanza parlamentari per un governo di centrodestra allargato potrebbe mandare un segnale di moderazione. Nel lungo periodo, però, la politica non dipende da simboli e segnali, ma dalla capacità di rispondere alle attese dell’elettorato. Se non fosse così, Renzi o Berlusconi sarebbero ancora al potere.

Il Fatto 26.3.18
Gran Bretagna, l’eccellenza universitaria va alla rivolta
È in corso il più grande sciopero della storia dell’accademia: parte dalla previdenza ma abbraccia l’intero sistema dell’ateneo-corporation, fatto di manager, speculazione edilizia e impiegati della cultura sempre meno pagati e liberi
di Mirko Canevaro


L’accademia britannica è malata. Non si direbbe: le classifiche internazionali mostrano un sistema ricco e dinamico. Ora il sistema è bloccato da scioperi a tappeto – i primi quattordici giorni si sono appena conclusi, e si parla di scioperi ulteriori nel periodo degli esami. Classi vuote, corsi sospesi, lauree a rischio, occupazioni, a migliaia nei picchetti, sotto neve e pioggia.
L’occasione è un attacco ferale alle pensioni amministrate dallo USS, il fondo che copre i docenti (e parte degli amministrativi) delle principali università – il più grande del Regno Unito, con un capitale da sessanta miliardi. L’attacco dura da anni, con una prima riduzione del 13% del totale dei compensi percepiti nel 2011, e ancora un aumento dei contributi richiesti a fronte di una riduzione ulteriore delle pensioni nel 2015. Entrambe le riforme furono puntellate da scioperi (limitati), chiusi da accordi negoziati dalla UCU (il sindacato) spacciati per vittorie, in realtà rese incondizionate. Lo stesso meccanismo negoziale si replica ad anni alterni nelle dispute salariali: anni di aumenti inferiori all’inflazione hanno significato un calo nei salari reali, dal 2009, del 16%.
Ma il contesto non è una crisi del settore, anzi. Le università sono ricche, per studenti paganti (oltre £ 9.000 l’anno), per fondi di ricerca, per donazioni. Il fatturato del settore è intorno ai 28 miliardi di sterline, con profitti intorno al 7% (senza contare l’indotto).
Ci sono avanzi di bilancio imbarazzanti, che si riversano però nella marketizzazione e finanziarizzazione del settore. Nella remunerazione di una classe manageriale di CEO più che rettori, con il record di Glynis Breakwell (Bath) di £ 468.000 l’anno. E in progetti edilizi faraonici a loro maggior gloria – università come capitalisti fondiari. Gli studenti pagano sempre di più, i docenti guadagnano sempre meno e un mondo parassitario meta-universitario, tra finanza, speculazione, edilizia, management e burocrazia ingrassa.
Ora l’ultimo attacco: il fondo, dice una valutazione, ha un deficit insostenibile. Soluzione: eliminare ogni garanzia pensionistica. I membri contribuiscono, ma la pensione è determinata dal mercato – dal ritorno sugli investimenti dello USS. Il risultato: tagli alle pensioni, in media, di £10.000 l’anno. Ma il deficit è fittizio – le entrate sono in realtà ben superiori alle uscite.
È una proiezione basata su scenari futuri apocalittici di crisi estrema del settore, di collasso dei ritorni sugli investimenti, applicando tassi di sconto bassissimi. Tutto questo è emerso non dagli oscuri comunicati dello USS e delle università, dal gergo finanziario che nasconde piuttosto che spiegare. È emerso perché con le competenze di decine di migliaia di accademici ci si riesce, a penetrare l’arcano.
Operazioni analoghe – i diritti dei lavoratori abbattuti sulla base di calcoli fantasiosi spacciati per fatti, di pretesti su cui costruire la narrativa ideologica del “non c’è alternativa” – avvengono quotidianamente, in genere alle spese di categorie più deboli, sprovviste degli strumenti per penetrare l’inganno.
E così è iniziato il più grande sciopero nella storia dell’accademia britannica, che parte dalle pensioni ma contesta l’intero sistema, la nuova università-corporation di manager e speculatori, consumatori paganti e impiegati della scienza sempre meno remunerati, liberi e autonomi. Migliaia di docenti nei picchetti, migliaia di nuovi iscritti al sindacato e, fianco a fianco, migliaia di studenti che hanno compreso la portata della battaglia. Dall’altra parte delle barricate l’establishment accademico e finanziario (con un governo ostile che sta a guardare) si è dapprima rifiutato di trattare. Poi, sotto pressione anche da alcuni rettori illuminati, preoccupati per la competitività di un settore le cui le condizioni lavorative sono sempre meno attraenti, si è tornati al tavolo dei negoziati. Dopo due settimane di scioperi la leadership sindacale è giunta a un accordo derisorio, sulla falsariga di quelli degli anni passati, spacciato per una vittoria e già annunciato dai TG come finale e risolutivo.
Ma questa volta è diverso – il 12 marzo, all’annuncio dell’accordo, è scoppiata una tempesta sui social media e nei picchetti. Il giorno dopo i rappresentanti delle sezioni, all’unanimità, in rappresentanza di assemblee di base anch’esse unanimi o quasi, hanno chiesto di rifiutare l’accordo. Contro le sue aspettative, e malgrado gli annunci dei TG e la sicumera delle élite, la leadership sindacale ha dovuto cedere alla pressione: l’accordo è rifiutato e la battaglia continua. Si è entrati in territori inesplorati – un’azione sindacale di maniera, un balletto di scioperi e negoziati al ribasso, si è autonomamente radicalizzata, dal basso, prendendo in contropiede l’establishment accademico, finanziario e sindacale.
È di venerdì la notizia di una nuova proposta: una nuova valutazione del fondo, a sconfessare le proiezioni precedenti, che coinvolga sindacati e accademici, e la riforma congelata almeno fino ad Aprile 2019. Una vittoria inattesa, per quanto imperfetta e provvisoria. La vicenda è d’interesse non solo per gli accademici britannici. È d’interesse per tutti. Può davvero un’azione radicale mettere in discussione lo status quo? Si può effettivamente cambiare direzione di marcia? Davvero non c’è alternativa?

La Stampa 26.3.18
Puidgemont
Il disegno europeo di Angela
di Stefano Stefanini


Paese che vai diritto che trovi, anche dentro l’Unione Europea. Specie quando ci si mette di mezzo la politica. Colpito da mandato d’arresto europeo, Carles Puigdemont viveva tranquillamente in esilio in Belgio. E’ stato arrestato di passaggio in Germania. Era appena riuscito a sfuggire alla polizia finlandese e aveva traversato incolume la Danimarca. L’efficiente mano tedesca l’ha raggiunto appena traversato il confine.
I giuristi avranno sicuramente spiegazioni convincenti di come gli effetti dello stesso atto giuridico (mandato d’arresto europeo) siano così diversi in Belgio, da una parte, nello Schleswig-Holstein e in Finlandia, dall’altra, lasciando alla Danimarca il beneficio del dubbio (se n’era accorta?). Puidgemont potrà contrastare la richiesta d’estradizione spagnola presso la Corte Federale tedesca, con le stesse argomentazioni che gli avevano valso la concessione d’asilo temporaneo da parte della giustizia belga. La magistratura tedesca è indipendente e rigorosa. Il leader catalano potrebbe anche spuntarla.
L’arresto è una brillante operazione di cooperazione d’intelligence e di polizia fra Paesi Ue, presumibilmente fra Finlandia e Germania. Auguriamoci altrettanto impegno e successo nel controterrorismo.
Ma è soprattutto un’operazione che politicamente avvicina Berlino e Madrid. Il fermo di Puigdemont, che sia poi estradato o meno, stringe le file della solidarietà che le capitali europee non hanno fatto mai mancare a Mariano Rajoy nella vicenda catalana. Vuoi per coincidenza fortuita, vuoi per scelta, Berlino vi si trova da capofila.
Non c’è che la politica a spiegare la diversità di trattamento riservata a Puigdemont in Belgio, patria dell’Ue, e in almeno altri due Paesi dell’Unione. Il diritto sarà stato rispettato, ma c’entra poco. Non sappiamo da che livello del nuovo governo tedesco sia arrivata la decisione di arrestare il leader catalano. La rapidità con cui l’operazione è stata eseguita fa pensare che non fosse sul pilota automatico delle migliaia di mandati d’arresto europei emessi ogni anno. Rajoy tratta la vicenda catalana come questione di vita e di morte della Spagna; a Berlino e a Helsinki lo sanno benissimo.
Berlino ha dato a Madrid una grossa prova di amicizia e lealtà, anche a costo di sobbarcarsi uno scomodo caso giudiziario di estradizione. Malgrado il pugno di ferro di Madrid, il secessionismo è ancora fortemente radicato in Catalogna, le urne di dicembre hanno visto una vittoria degli indipendentisti, sia pure di misura; ieri sono subito scesi in piazza. In esilio a Bruxelles, Puigdemont era dimenticato; davanti a un tribunale tedesco torna alle luci della ribalta europea. Se estradato, rischia una condanna a 25 anni. Ci saranno simpatie per lui, non solo in Catalogna.
L’arresto avviene in un momento doppiamente cruciale per Angela Merkel. Dopo sei mesi in sordina per le trattative di coalizione, ella ritorna ora alla sua attività preferita: governare. In casa e in Europa. A Berlino, deve dimostrare di rimanere alla guida nella rinnovata alleanza con un Spd più assertivo; le concessioni che ha dovuto fare (come l’amato Ministero delle Finanze) non cambiano le gerarchie.
Nell’Ue, Merkel ha bisogno di un forte blocco solidale di capitali come base su cui rispondere ad una molteplicità di sfide (guerra commerciale con l’America di Donald Trump, Russia di Vladimir Putin, Brexit, dissidenza di Polonia e Ungheria). L’asse con Parigi è inevitabile, ma l’irruenza di Emmanuel Macron va equilibrata. Da Roma non si aspetta nulla di buono; imperterrita realista, farà buon viso a cattivo gioco. Può contare solo sulla compagine nordico-baltica, però euro-tiepida. Le serve la Spagna. Con l’arresto del fuggitivo Carles Puigdemont, si è guadagnata l’imperitura gratitudine di Mariano Rajoy, appartenente alla stessa famiglia politica dei popolari europei.
Ma chi ne beneficerà alla fine? Il leader catalano è vittima di un gioco europeo più grande di lui e della Catalogna. Cercava ascolto in ambito europeo. Si era illuso. L’Ue odierna non indulge ad istanze indipendentistiche. Adesso però arresto e processo gli danno modo di far di nuovo sentire le sua voce. Mariano Rajoy potrebbe pentirsi di non aver lasciato Puigdemont nell’oblio dell’esilio belga. Il carcere può essere pericoloso per il carceriere.

La Stampa 26.3.18
Berlino asseconda le richieste di Madrid
per rafforzare la rete degli alleati in Europa
I popolari di Rajoy restano gli interlocutori privilegiati della Merkel
di Walter Rauhe


«È una nuova Guernica», denuncia il deputato al Bundestag del partito Die Linke Andrej Hunko. «L’arresto di Carles Puigdemont che in Spagna rischia fino a 30 armi di galera per un reato che nel resto dell’Unione europea nemmeno esiste è uno scandalo». Per il deputato post-comunista tedesco sarebbe inaccettabile che un Paese che nei tempi nefasti della dittatura hitleriana aiutò il generale Francisco Franco a vincere la guerra civile e a sconfiggere i democratici proprio a Barcellona, torni oggi ad aiutare il governo centrale spagnolo a Madrid in una faccenda così delicata e controversa come quella attorno al referendum indipendentista catalano.
Anche per il vice presidente del partito liberal-conservatore tedesco Fdp Wolfgang Kubicki, l’arresto dell’ex presidente catalano sarebbe a dir poco imbarazzante. «Si tratta di un processo e contenzioso più politico che giuridico e non sono convinto che sia stato giusto lasciarci coinvolgere in questo modo da Madrid», ha commentato anche il suo collega di partito ed ex Eurodeputato Alexander Graf Lambsdorff. La nuova Ministra della giustizia Katarina Barley del Partito socialdemocratico ha invece già fatto sapere che non intende intromettersi nella questione lasciando piena libertà di giudizio alle istanze competenti.
Queste potrebbero decidere già domani sulla conferma o meno della custodia cautelare nei confronti dell’ex presidente regionale rinchiuso nel carcere di Neumünster dopo il suo clamoroso arresto ieri mattina in un’area di servizio tedesca nei pressi del confine con la Danimarca. Un giudice del tribunale regionale di Schleswig, nel Land settentrionale dello Schleswig-Holstein, prenderà in esame il mandato di cattura europeo e le motivazioni presentate dalla procura di Madrid per la sua emissione. E già qui potrebbero emergere i primi problemi, dal momento che l’accusa di «ribellione» non esiste nel codice penale tedesco, scritto nel dopoguerra in una Germania federale controllata dalle forze alleate e che a livello giuridico porta una netta impronta liberale britannica, nella quale i «reati politici» praticamente non esistono. Considerata la delicatezza della questione molti a Berlino come nell’estremo Nord del Paese prevedono che il tribunale locale passi la questione ad un’istanza superiore, forse alla stessa Procura generale o alla Corte costituzionale.
Per il nuovo governo di grande coalizione entrato in carica da nemmeno due settimane, l’affaire Puigdemont rappresenta comunque una patata bollente e un banco di prova non solo per la ministra della Giustizia, ma anche per il capo della diplomazia Heiko Maas, ancora alle sue prime armi in veste di ministro degli Esteri, attualmente ancora in missione a Tel Aviv e Gerusalemme per la sua prima visita ufficiale in Israele.
Vero è che Berlino è stata nell’autunno dell’anno scorso tra le prime capitali a sposare la causa dell’integrità nazionale spagnola definendo il referendum separatista in Catalogna come anticostituzionale. La stessa opinione insomma del governo conservatore di Mariano Rajoy, il cui Partito Popolare è in Spagna l’interlocutore naturale dell’Unione cristiano-democratica di Angela Merkel e membro dei Partiti Popolari europei all’interno dell’Europarlamento. Per la cancelliera tedesca un alleato fondamentale sullo scacchiere di una Ue sempre più scivolosa per i tutori berlinesi non solo della disciplina di bilancio e del rigore fiscale, ma anche di un processo di coesione europea diverso da quello voluto dalla Francia di Macron e da altri Paesi mediterranei.

Il Fatto 26.3.18
L’accademia militare sessista: girone infernale per le cadette
di L.D.M.


Due anni di molestie psicologiche l’hanno convinta a rinunciare al suo sogno: diventare ufficiale dell’esercito francese. La giovane donna è allieva al secondo anno del prestigioso liceo militare di Saint-Cyr, un’accademia fondata da Napoleone I nel 1802, quando si decide a scrivere a Emmanuel Macron: “Mi vergogno di aver voluto far parte di un esercito che non è pronto ad accogliere le donne”. Era il dicembre 2017.
La lettera è stata ora pubblicata da Libération che ha portato avanti la sua inchiesta. Come Mathilde (è il nome di fantasia scelto dal giornale), che si dice “perseguitata” sin dal suo arrivo alla scuola, nel settembre 2016, anche altre allieve hanno accettato di testimoniare. L’accademia è al centro di uno scandalo per gli abusi che regolarmente subiscono le studentesse, vittime di un gruppetto ultraconservatore di allievi detti tradis. Tutto è fatto “per estromettere le compagne e distruggere le loro ambizioni”, scrive Libération che aggiunge: “Il sessismo è stato eretto a sistema”. I tradis (una sessantina di studenti su 230) sono “cattolici reazionari, misogeni e omofobi”. Sventolano la bandiera confederata “diventata simbolo di razzismo” e difendono le idee dell’estrema destra. Non rivolgono la parola alle ragazze (ammesse alla scuola dal 1986) e le umiliano davanti a tutti. Il tutto nella più totale indifferenza: “Si lasciano opprimere le ragazze ma non si sanzionano mai i boia”, testimonia Aurore, 20 anni. Le ragazze sono le grosses, ovvero le “gravide”: “Per loro le donne meglio se stanno a casa a fare figli”, sostiene un ex professore.
L’inchiesta ha smosso qualcosa: “È inaccettabile che nel XXI secolo delle giovani donne siano oggetto di tali discriminazioni”, ha affermato la ministra della Difesa, Florence Parly, promettendo “tolleranza zero” e “sanzioni” anche per il corpo insegnante.

Corriere 26.3.18
La farsa egiziana e il silenzio europeo
di Pierluigi Battista


È inutile lamentare la crisi delle nostre democrazie quando consideriamo benedetta, per evitare guai, turbolenze e soluzioni ancora più apocalittiche, ogni dittatura, ogni violazione dei diritti umani, ogni forma di oppressione, persino lo sterminio dei popoli assoggettati, o che devono scomparire, come i curdi. Facciamo finta di considerare democratico il verdetto delle elezioni che in Russia hanno consacrato l’autocrazia di Putin: ma sopprimere o imbavagliare tutti i rivali non è esattamente un modello di libera campagna elettorale. Contiamo le vittime dei civili massacrati da Assad perché presto si raggiungerà il ragguardevole record dei 400 mila assassinati da un regime orrendo, che però è meglio preservare perché gli altri, come è noto, sono ancora peggiori. Ci affrettiamo a mandare l’assegno concordato a Erdogan, quel simpatico democratico che ammassava nudi in palestra i dissidenti, che commina ergastoli ai giornalisti invisi alla sua tirannia e che nel silenzio internazionale fa strage di civili curdi, perché così tiene a bada i profughi che l’Europa, la grande assente, la silenziosa e pavida Europa per cui noi dovremmo gioire e in cui dovremmo identificarci, vuole tenere oltre confine. Adesso arriva il turno delle, diciamo così, elezioni in Egitto dove certamente verrà consacrato Al Sisi. Certamente perché sono elezioni farsa, che noi ingoiamo perché è sempre meglio un orribile despota laico che un orribile despota integralista islamico. Perché noi vogliamo la democrazia sì, ma soltanto se ci conviene.
Faremo finta di crederci, quando il carnefice laico verrà confermato nel suo trono. Abbiamo fatto finta di credere che dal Cairo qualcuno avrebbe collaborato per la verità sull’assassinio del nostro Giulio Regeni, abbandonato da tutti tranne che dalla sua famiglia. Così come fingiamo di ignorare che la prigione egiziana dove si pratica con maggiore efficacia la tortura è stata ribattezzata «la tomba». Silenzio, imbarazzo. Con il paradosso che l’unica indignazione viene riservata all’unica democrazia del Medio Oriente, Israele (a proposito, è nelle sale un film strepitoso come «Foxtrot» che ci fa, con l’arte e la narrazione, cogliere la temperatura morale di quella Nazione). Il solito silenzio e il solito imbarazzo di chi non ha più a cuore la democrazia. Tutto il resto ne è la conseguenza.

La Stampa 26.3.18
Eppur si suonava le note sfuggite all’orrore
Le musiche composte dagli internati nei lager erano un aiuto per sopravvivere. Francesco Lotoro le ha recuperate e in aprile ne saranno eseguite alcune per la prima volta a Gerusalemme
di Caterina Soffici


Sono musiche composte nei lager nazisti e mai più suonate. Alcune scritte su carta igienica o di giornale, altre trafugate in faldoni poi rocambolescamente ritrovati in soffitte a migliaia di chilometri di distanza, altre ancora memorizzate e poi trascritte dai sopravvissuti. È la resistenza dell’uomo di fronte all’orrore. La dimostrazione che anche la barbarie più atroce non riesce a togliere all’uomo la creatività. L’arte e la musica hanno aiutato questi uomini e donne a sopravvivere, vie di fuga e spazi di libertà dietro il filo spinato. Alcune delle musiche salvate verranno suonate per la prima volta a Gerusalemme in aprile dall’orchestra sinfonica israeliana di Ashdod, in uno degli eventi per celebrare il 70° anniversario della fondazione dello Stato di Israele.
Dietro questa storia c’è la missione di un uomo, il pianista e compositore italiano Francesco Lotoro, 54 anni, originario di Barletta, che per 30 anni ha dato la caccia agli spartiti perduti ed è riuscito a rintracciare migliaia di canzoni, sinfonie e persino opere. Circa ottomila partiture, 12 mila documenti, centinaia di interviste ai sopravvissuti. Piccoli pezzi per spettacoli di marionette o semplici canzonette, pezzi sacri o grandi opere sinfoniche. La ricerca è iniziata dal lager di Dachau e poi si è estesa alla musica creata in tutti i luoghi di cattività durante la Seconda guerra mondiale, per arrivare fino al 1953, con l’amnistia per gli ultimi prigionieri tedeschi nei gulag. Lotoro ha raccolto materiali di ebrei, cristiani, zingari, comunisti, sufi, prigionieri civili e militari da tutti gli angoli del mondo, fino al Giappone e le Filippine. Nei suoi piani c’è anche la pubblicazione di un Thesaurus Musicae Concentrationariae, enciclopedia in 12 volumi che dovrebbe essere terminata nel 2022.
Un progetto mastodontico cui Lotoro ha dedicato la vita e che è stato anche raccontato nel film-documentario Il Maestro del regista argentino Alexander Valenti. «Le composizioni dei campi di concentramento sono un patrimonio mondiale, un’eredità per quegli artisti che, nonostante abbiano perso la libertà nelle circostanze più inimmaginabili, hanno perseverato attraverso la musica. Attraverso il concerto ci stiamo impegnando per ridare vita e dignità a questi artisti» ha spiegato Lotoro.
Tra i pezzi che verranno eseguiti per la prima volta in pubblico a Gerusalemme c’è una canzone scritta dalla poetessa e musicista ebrea Ilse Weber, che lavorava come infermiera nell’ospedale del campo di Theresienstadt e aveva insegnato alcune delle sue composizioni ai bambini reclusi. Ilse decise di seguire volontariamente, con il figlio Tommy, il marito Willi deportato ad Auschwitz nel 1944. Tutta la famiglia finì nei formi crematori ma la musica di Ilse, che non era mai stata scritta, è sopravvissuta grazie ad Aviva Bar-On, una delle bambine del campo, che si è salvata. L’aveva memorizzata e adesso la canterà per la prima volta.
Sarà suonato anche un brano intitolato Tatata, di Willy Rosen e Max Ehrlich che, prima della deportazione da Westerbork ad Auschwitz, riuscirono a far uscire dal campo una cartella dei loro manoscritti. Rosen era un compositore ebreo tedesco, cantautore e noto cabarettista, assassinato ad Auschwitz nel settembre del ’44. Ehrlich, attore, sceneggiatore e regista, era come Rosen una figura di spicco nella scena del cabaret tedesco negli anni 30. La cartella contenente la loro musica è stata ritrovata decenni dopo la fine della guerra in un attico nei Paesi Bassi e stava per finire nella spazzatura di un trasloco.
Tra le storie raccolte da Lotoro c’è quella di Rudolf Karel, allievo di Dvorák, morto a Terezín, che grazie alla dissenteria da prigioniero ha potuto scrivere un’opera in cinque atti sulla carta igienica, salvata poi da un secondino. Un altro musicista, Hans Van Collem, utilizzava i campi di patate come pentagramma e poi chiedeva ai compagni di memorizzare le note e trascriverle su carta igienica o di giornale: con questo sistema compose il Salmo 100 per coro maschile che venne eseguito di nascosto nelle latrine. Un altro prigioniero polacco dotato di memoria formidabile mise a disposizione dei suoi compagni di prigionia il suo prodigioso talento e come un registratore umano memorizzò centinaia di brani. Si salvò e fu ricoverato a Cracovia nel 1945. Pensavano che la guerra l’avesse fatto impazzire, perché non poteva smettere di cantare. Ha trascritto 764 canzoni scritte nei lager.

Corriere 26.3.18
E i fanti contadini fecero l’Italia
di Aldo Cazzullo e Gian Antonio Stella


«Dopo Caporetto, la guerra cambia segno. Si tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la famiglia». A quei mesi di tenuta, riscatto e trionfo, «capolavoro di una generazione», Aldo Cazzullo dedica la nuova edizione de La guerra dei nostri nonni : «A quei fanti contadini che salvarono il Paese, e con il Paese noi». alle pagine 32 e 33

Grande guerra La nuova edizione illustrata del saggio edito da Mondadori
I fanti fecero l’Italia Come si arrivò a Vittorio Veneto
Valore e sacrificio narrati da Aldo Cazzullo
di Gian Antonio Stella
«P onte de Priula l’è un Piave streto/ i ferma chi vién da Caporeto/ Ponte de Priula l’è un Piave streto/ i copa chi che no ga ‘l moscheto./ Ponte de Priula l’è un Piave nero/ tuta la grava l’è un cimitero». Ed era davvero un cimitero ai primi di novembre del 1917, come racconta questa canzone riscoperta dal poeta e cantautore Massimo Bubola, il greto del nostro fiume «sacro alla patria».
Dopo lo sfondamento degli austriaci a Caporetto due milioni e mezzo di persone, soldati e civili, inseguitori e profughi in fuga, si rovesciarono con carri e masserizie verso i ponti sul Piave. Come scrive Sergio Tazzer in Piave e dintorni. 1917-1918: fanti, Jäger, alpini, Honvéd e altri poveracci , l’ultimo reparto a passare il fiume a Ponte della Priula fu un battaglione del 152º reggimento della brigata Sassari agli ordini del capitano Giuseppe Musinu. Che avrebbe poi ricordato: «Mi dissero che stavano per far saltare il ponte: temevano che gli austriaci riuscissero a passare il Piave. Mandai avanti un sottufficiale per dire di aspettare. Arrivammo appena in tempo. Ero in retroguardia, per proteggere la ritirata. Quando l’ultimo dei nostri fu dall’altra parte del Piave, passammo anche noi. E il ponte fu fatto saltare».
Bisognava reggere l’urto. A tutti i costi. Le sentinelle nei settori affidati alla Sassari, racconta ancora Tazzer, «avevano l’ordine di sparare contro chiunque al “chi va là?” non rispondesse in sardo: fra gli imperial-regi non erano pochi quelli che parlavano italiano. E così i sassarini si cautelavano: “Se sese italianu, faedda in sardu!”, se sei italiano, parla in sardo».
Ed è ai mesi della tenuta, del riscatto e del trionfo cantato dai giornalini di propaganda («Grida, bandiere, evviva, applausi, fiori!»), che Aldo Cazzullo dedica la nuova edizione de La guerra dei nostri nonni (Mondadori). Edizione illustrata con una ricca raccolta di foto. Le fosse comuni. Il corpo di un soldatino ucciso per aver obbedito all’ordine insensato di dar l’assalto a una trincea protetta da matasse di filo spinato: «I comandi sembravano impazziti. “Avanti!” Non si può! “Che importa? Avanti lo stesso”. Ma ci sono i reticolati intatti! “Che ragione! I reticolati si sfondano coi petti o coi denti o con le vanghette. Avanti!”». Il «maggiore con il volto scavato dalle intemperie e lo sguardo puntato verso orizzonti lontani. Per tutto l’anno viveva con le sue mitragliatrici, e da entrambi i lati della sua tana, sugli alpeggi d’alta quota, si scorgevano a decine i neri fori delle granate, che il nemico aveva esploso per cercare di snidarlo».
E ancora il corpo di un civile fucilato come spia e riverso su una seggiola come una marionetta. I barellieri impegnati nel recupero dei feriti e dei morti. I ricoverati in un ospedale militare e affidati a materne suorine. La distribuzione del rancio e il supplementare supplizio quotidiano dell’igiene: «Soldati intenti alla caccia ai pidocchi». E il cappellano militare che impartisce la benedizione ai fanti cristiani nostri perché accoppino i fanti cristiani altrui, magari sotto l’incitamento del «Papa del Piave» Pio X che, nato a venti chilometri dal fiume invalicabile, sul giornale «La tradotta» appare alla Madonna e la mette in guardia dai tedeschi: «I roba tuto, i xé bestie, i bastona/ fin ne le case ‘sti sporchi i ne va/ e quando i branca una povera dona/ se la xé bela… Signore pietà!»
Brutta bestia, la guerra. Sempre. Ma peggio ancora quando l’hai in casa. Nella valletta nascosta dove andavi a funghi. Nel cortile dietro il ciliegio. Accanto ai covoni di fieno. Allora no, il Piave non è più solo un luogo geografico o la retorica di Gabriele d’Annunzio: «Vi sono forse oggi altre acque in tutta la patria nostra? Ditemelo. V’è oggi una sete d’anima italiana che si possa estinguere altrove? Ditemelo».
«Con il 1918, dopo Caporetto, la guerra cambia segno», scrive Cazzullo nella integrazione del libro che deve la sua fortuna editoriale proprio all’arte di tenere insieme gli eventi epocali del conflitto e le storie dei nostri nonni, «Si tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la famiglia, di evitare che pure alle altre donne italiane venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave. Fu allora che i nostri nonni, fanti contadini, salvarono il Paese, e con il Paese noi, loro discendenti».
Non fu un miracolo dovuto alla buona sorte, quella vittoria. Fu molto di più: «Per la prima e ultima volta nella storia unitaria, l’intera nazione si mobilitò: soldati, operai, donne, che presero il posto degli uomini nelle fabbriche e nelle case. Fu la vittoria dei nostri nonni e delle nostre nonne. Il capolavoro di una generazione, di cui oggi possiamo andare orgogliosi».
Ad aiutarci in questo esercizio di memoria, fino a non molti anni fa, c’erano sparsi nelle campagne, sulle montagne e nelle case del Veneto (che come scrive Edoardo Pittalis nel suo libro La guerra di Giovanni contò sessantaduemila morti, uno ogni dieci caduti) mille oggetti che dopo la mattanza erano stati recuperati dai contadini e dai fabbri e restituiti a nuove funzioni quotidiane.
Un antiquario, Egidio Guidolin, ci fece tre anni fa una mostra: La vita dopo la guerra . «È così: dopo ogni guerra, anche la più menzognera e spaventosa, torna la pace. La voglia di ricominciare. La vita», scrisse Ermanno Olmi, «I bossoli d’artiglieria lavorati dai battirame per farne dei portafiori da mettere nel capitello con la madonnina o sopra il camino in cucina. L’elmetto rovesciato che con la saldatura di un tubo diventa un imbuto. Il piatto di una gavetta bucherellata per farne una grattugia... Il pezzo più bello, però, è quell’elmetto appeso col filo di ferro a un picchetto sul muro e trasformato in un vaso di fiori. C’è un buco, in quell’elmetto. Forse di una pallottola o della scheggia di una granata che ferì o uccise il soldatino che lo indossava. E quel buco, attraverso il quale passò forse la morte, consente oggi all’acqua in eccesso di andarsene. E aiuta a vivere quelle bellissime stelle alpine. È vita. Arte. Poesia».

Corriere 26.3.18Il diritto-dovere di celebrare l’eroismo dei soldati contadiniIl brano Un estratto del capitolo inedito. Perché è uno sbaglio svalutare il successo del 1918
di Aldo Cazzullo


Per il centenario di Caporetto sono usciti libri a decine, alcuni molto belli. Sul Piave e sul Grappa neanche uno.
La sconfitta ci ispira. Ci raccontiamo di aver perso anche le poche guerre che abbiamo vinto.
Oppure ci rifugiamo nella retorica, come il mito della «Razza Piave», caro al secessionismo veneto. Ma sul Piave accanto ai veneti morirono lombardi e lucani, napoletani e genovesi. La brigata Aosta sul Grappa era composta da siciliani: i valdostani erano quasi tutti morti.
Sul «Corriere della Sera» ho proposto che il 4 novembre 2018, centesimo anniversario della vittoria dei nostri nonni nella Grande Guerra, torni a essere festa nazionale, anche se cade di domenica. Un po’ come il 17 marzo 2011, centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Ho ricevuto tante lettere di consenso, ma anche messaggi che mi hanno fatto male.
Molti italiani sono convinti che non ci sia stata nessuna vittoria, anzi nessuna battaglia. Si è diffusa in rete la leggenda secondo cui il 30 ottobre 1918 l’esercito non avrebbe avuto neppure un morto: Vittorio Veneto non è mai esistita. In realtà la sola IV Armata, nei durissimi combattimenti infuriati sul Grappa negli ultimi giorni del mese, perse 824 ufficiali e 23.600 soldati, dei quali 5.200 morti, 18.500 feriti e poche centinaia di dispersi; un terzo degli effettivi delle fanterie, una proporzione mai raggiunta neppure nelle giornate peggiori sul Carso. Bisognava attaccare, recuperare parte del terreno perduto, entrare a Trento e a Trieste, avanzare il più possibile prima dell’armistizio. Gli austriaci, che si erano dissanguati nell’ultima offensiva passata alla storia come la battaglia del solstizio (15-25 giugno 1918), a ottobre resistettero più del previsto. Poi cedettero di schianto, cominciarono la ritirata, furono inseguiti, a volte accerchiati; come venne raccontato con parole fin troppo enfatiche nel bollettino della vittoria affisso su tutti i municipi d’Italia.
Altri lettori fanno notare che la guerra si concluse sul territorio italiano, che non abbiamo conquistato nulla. Una motivazione priva di senso, in particolare per una guerra di posizione come il primo conflitto mondiale. Se è per questo, i tedeschi combatterono per oltre quattro anni in territorio francese; ma alla fine furono sconfitti. Neppure il terribile computo delle vittime aiuta a capire. I vincitori ebbero più morti dei vinti; ma la guerra industriale fu decisa dall’intervento degli americani. Una lezione che due giovani sottufficiali, Adolf Hitler e Benito Mussolini, non appresero; altrimenti non avrebbero scatenato, e perduto, la Seconda guerra mondiale.
Altri ancora sostengono che non ci sia nulla da festeggiare. E questo un po’ lo capisco. La Grande guerra è stata innanzitutto un’immane carneficina. Era meglio non farla. L’Italia avrebbe dovuto restarne fuori. Invece fu decisa con un colpo di Stato che esautorò il Parlamento, e fu condotta in modo sbagliato quando non criminale.
Non è una follia che l’Italia sia intervenuta: nel maggio 1915 tutte le grandi e medie potenze europee, dalla Russia all’impero ottomano, dalla Gran Bretagna alla Germania, dall’impero austroungarico alla Francia, sino ai piccoli eserciti balcanici stavano combattendo; e l’Austria non avrebbe mai ceduto Trieste in cambio della neutralità. È una follia però che l’Italia sia entrata in guerra senza tenere in nessun conto le lezioni dei primi mesi del conflitto. È una follia che i generali abbiano imposto per anni la tattica degli assalti frontali spesso non supportati dall’artiglieria, che si siano eseguite decimazioni punendo con la morte fanti che non erano colpevoli di nulla, che i prigionieri fossero considerati alla stregua di disertori, che si sia impedito ai loro familiari di inviare pacchi di viveri e medicinali.
Il tradimento delle classi dirigenti però non toglie nulla al sacrificio dei nostri nonni. Anzi, lo rende se possibile ancora più valoroso. Con il 1918, dopo Caporetto, la guerra cambia segno. Si tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la famiglia, di evitare che pure alle altre donne italiane venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave. Fu allora che i nostri nonni, fanti contadini, salvarono il Paese, e con il Paese noi, loro discendenti.
L’Italia nacque allora. Nelle trincee. Sul Grappa e sul Piave. Eravamo un popolo giovane. Non ci capivamo neppure tra di noi: ognuno parlava il suo dialetto. Potevamo essere spazzati via; dimostrammo di essere un popolo, una nazione. Questo sì lo possiamo festeggiare, lo dobbiamo celebrare, abbiamo il dovere di ricordare.

Il Fatto 26.3.18
Milano 1848, la rivoluzione degli uguali che fece l’Italia
di Alfio Caruso


Dal 18 al 22 marzo 1848 nasce a Milano l’Italia che verrà. È il frutto dell’unica rivolta, in cui popolo, borghesia e nobiltà combattono assieme, benché sia il primo a pagare il prezzo più alto. Naturalmente tra invidie, compromessi, voltafaccia. Eppure quel sentimento di Nazione alla fine si rivela più forte di qualsiasi interesse di bottega, di qualsiasi egoismo personale, di qualsiasi gelosia di classe sociale. Quelle che sono passate alla Storia come le 5 giornate rappresentano il massimo esempio di rivoluzione nel segno dell’egalitarismo: non ci sono capi preordinati, ognuno conquista i galloni sul campo, ogni quartiere, ogni barricata decide al proprio interno qual è la risoluzione migliore da prendere. L’unico paragone possibile è con le 4 giornate di Napoli. Il tutto sintetizzato nel vecchio austero dalla barba bianca, rimasto senza nome, che guida per 5 giorni la barricata di Porta Nuova.
La ribellione viene preparata per un anno nell’abitazione del giovane economista Cesare Correnti in via Spiga. È la sede del Comitato Segreto, sul quale da centosettant’anni ci si dibatte e che oggi tanti indizi inducono a ritenere il motore della rivolta. L’hanno intuito il capo della polizia asburgica, il barone trentino Carlo Giusto Torresani, e il suo malefico braccio destro, Luigi Bolza. Per impedire la rivolta basterebbe l’irruzione, che però mai viene ordinata. Che cosa avviene in quelle stanze lo racconta un altro dei giovanissimi protagonisti, Giovani Visconti Venosta, fratello minore di Emilio, nel giudizio di molti il miglior ministro degli Esteri italiano: “Tra gli amici più intimi ce n’erano di ogni rango. C’erano dei preti come il Lega, il Mongeri, il Vignait; c’erano dei giovani del patriziato come il Porro, Cesare Giulini, Guerrieri, Giovanni e Carlo D’Adda, Giulio Carcano; c’erano degli artisti, dei giovani ingegneri, medici, professionisti e anche dei buontemponi, compagni di università, cacciatori e bevitori, ma pieni di buona volontà, che venivano a prendere gli ordini e s’incaricavano del contrabbando patriottico dei libri e dei giornali e, alla fine, dei fucili”.
In quella Milano rigurgitante di rabbia antiaustriaca e di passione per un’Italia ancora indistinta e dai contorni alquanto confusi altri luoghi assurgono a simbolo del dilagante patriottismo. Ecco le sale della Società dell’Unione, sopra le vetrine del caffè Cova, dove agisce una sorta di associazione clandestina, di cui l’intera città parla e favoleggia, il Club dei lions. Così vengono indicati i giovani cospiratori aristocratici, che vi si radunano nel cuore della notte illuminata dalle prime lampade a gas.
Il ritrovo più ambito è il salotto della contessa Clara Maffei nella centralissima corsia dei Giardini (l’attuale via Manzoni). C’è la ressa per essere accolti, per sedere sui divani in mezzo a tanti giovani ansiosi di emergere, magari nella sera in cui vi fanno capolino Verdi e Manzoni. Lì s’incontrano e si legano per la vita e per la morte i fratelli Dandolo, Morosini, Correnti, D’Adda, Luciano Manara, incaricato da Verdi di aggiornarlo per lettera sugli accadimenti cittadini, mentre egli è in tournèe con le sue acclamate opere. E il cappello adoperato nell’Ernani diventa un simbolo dell’agognata italianità assieme al bianco e al giallo indicante i colori dello stato pontificio, cioè Pio IX al culmine dell’immeritata popolarità.
Il 2 gennaio lo sciopero del fumo lanciato dal professore di fisica Giovanni Cantoni, di famiglia ebraica e di simpatie mazziniane, ottiene un strepitoso successo, malgrado le ricorrenti provocazioni dei gendarmi di Torresani e dei militari di Radetzky. A esso si associa l’astensione dal gioco del lotto.
Per Vienna rappresentano un segnale allarmante: dal monopolio del tabacco l’erario imperiale ricava 4.300.000 lire (oltre 15 milioni di euro), dall’altro circa 750 mila lire (2 milioni e mezzo di euro). Il 6 gennaio platea e palchi deserti alla Scala, che inaugura l’anno con la Norma di Bellini: nove biglietti venduti, soltanto quattro palchi occupati, in tutto trenta spettatori, per la gran parte funzionari e ufficiali austriaci. Che la situazione precipiti lo dimostra la fuga delle regine del pettegolezzo: la prima ballerina viennese Fanny Elssler, cui un ammiratore compra il pitale per una cifra astronomica, la contessa russa Giulia Samoylova, ex favorita dello zar, i cui capricci hanno segnato l’epoca e dettato le mode.
E quando il Comitato Segreto decide di lanciare la sfida, malgrado la penuria di fucili e munizioni, Milano risponde con commovente dedizione. Incomincia da subito l’epopea delle barricate, dei mobili tirati dai balconi, dei professori che guidano l’assalto dei propri studenti, delle alabarde della Scala trasformate in armi. Il nemico spietato ha le sembianze da Babbo Natale del feldmaresciallo Radetzky, comprensivo finché niente e nessuno disturba il suo ordine, ma pronto a spianare ogni quartiere di fronte alla ribellione. Sulle barricate si esalta la chiacchieratissima relazione tra Manara e la bella delle belle, Fanny Bonacina, entrambi sposatissimi e con figli. Purtroppo pesano da subito le indecisioni del “re tentenna” Carlo Alberto preoccupato per le spinte un po’ autonomiste, un po’ repubblicane di Milano. Il suo mancato intervento obbliga i milanesi a liberarsi da sola. La solerzia di Carlo Cattaneo, l’intelligenza più lucida e più critica delle cinque Giornate, ci consente di sapere che fra le 335 vittime 160 erano artigiani e operai, 25 domestici, 14 contadini, 29 commercianti, 16 borghesi. Più quattro bambine. E 38 donne, quasi tutte operaie.
La ritirata austriaca dà la spinta alle speranze ai pochi interessati alle sorti della Penisola, annuncia per la prima volta che l’Italia può esistere. Poi verranno le delusioni della prima guerra d’indipendenza, delle promesse tradite di Carlo Alberto, del ritorno degli imperiali, della caduta della repubblica romana. Alla fine, come scriverà Manara alla Bonacina, “dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto”. Lui e gli altri andranno a immolarsi a Roma l’anno seguente.