Il Sole Domenica 25.3.18
Marzio Barbagli
Sulla morte e i suoi luoghi comuni
Alla fine della vita. Morire in Italia e in altri Paesi occidentali, il Mulino, Bologna, pagg. 352, € 20
di Raffaele Liucci
Scardinare
il senso comune: è questo l’obiettivo che si è prefisso nei suoi libri
Marzio Barbagli, un sociologo dagli spiccati interessi storici, secondo
il quale anche nel suo campo per rispondere alle domande suscitate dal
presente occorre «risalire indietro nel tempo». Quando si è occupato di
famiglia, sessualità, immigrazione, criminalità, suicidio, lo studioso
bolognese ha sempre finito per incrinare certezze consolidate, talvolta
sforando i limiti del politicamente corretto. Ora il nuovo mito da
sfatare è quello della rimozione della morte, prerogativa della società
contemporanea, almeno secondo un’opinione trasversalmente abbracciata da
fior di storici, filosofi, antropologi, sociologi, psicologi e
scrittori.
Ad esempio, il grande sociologo tedesco Norbert Elias –
in un intervento vergato quand’era ormai molto anziano e intitolato La
solitudine del morente – sosteneva che «mai come oggi i moribondi sono
stati trasferiti con tanto zelo igienista dietro le quinte della vita
sociale per sottrarli alla vista dei vivi, mai in passato si è agito con
tanta discrezione e tempismo per minimizzare il passaggio dal letto di
morte alla tomba». Per Elias, l’allontanamento della morte era un
aspetto del più generale «processo di civilizzazione», ossia di
autocontrollo dei sentimenti, da lui scandagliato in una celeberrima
opera. Eppure, secondo Barbagli, argomentazioni di questo tipo sono
tanto suggestive quanto smentite dalla ricerca empirica e storica. Il
suo vasto affresco multidisciplinare – nel quale attinge pure dalla
storia della mentalità e delle idee – è anche un implicito apologo sui
rischi connaturati a una visione astorica e nostalgica del passato.
Non
è per nulla vero, sostiene infatti Barbagli, che un tempo gli uomini si
congedassero quietamente dal mondo. In teoria, la morte «naturale»
tipica nei secoli scorsi – nel proprio letto, circondati dal calore
della famiglia e con il viatico del prete – sembrerebbe più umana
rispetto alla morte «artificiale» cui andiamo incontro oggi: soverchiati
dalla burocrazia e intubati in un anonimo letto d’ospedale. Ma in
realtà la «cerimonia domestica della morte» è spesso rimasta una chimera
(non nelle pagine di Poliziano dedicate all’addio alla vita di Lorenzo
de’ Medici, o nel Gianni Schicchi di Puccini). Non solo perché pure
allora si poteva morire all’improvviso in strada, ma anche perché
guerre, carestie ed epidemie rendevano difficilmente programmabile e
gestibile la propria dipartita, soprattutto se non si era ricchi. Per di
più, oltre che dolorosissimi, i trapassi erano sovente tutt’altro che
sereni: «Per almeno tre secoli, dopo la metà del Trecento, moltissimi
hanno esalato l’ultimo respiro in un lazzaretto o su un carro che ve li
trascinava con la forza, evitati dai famigliari e dagli amici, fra le
urla e i pianti di decine di moribondi».
Se un tempo il contatto
coi cadaveri era un’esperienza comune, questo non significa che
l’annunciato arrivo della signora con la falce fosse accettata come
normale: «Solamente il nominarla agghiaccia il sangue nelle vene –
scriveva nel 1586 Stefano Guazzo – spoglia le guance del vermiglio
colore, vuota i cuori di vigore e priva di gusto il palato, onde avviene
che il ricordar la morte fra le vivande è attribuito a
disconvenevolezza e a mala creanza».
Insomma, secondo Barbagli, la
società attuale non nasconde e teme la morte in misura maggiore del
passato. Nel frattempo, però, è cambiato tutto. La durata media della
vita si è allungata, i legami famigliari si sono allentati, l’«eclissi
del sacro» ha ridimensionato il ruolo della religione, la batteriologia e
la microbiologia hanno rivoluzionato le conoscenze mediche, le grandi
epidemie che uccidevano velocemente e in modo indiscriminato hanno
lasciato il posto a malattie croniche e degenerative dal decorso anche
lunghissimo. Per questo l’«ospedalizzazione della morte», avviatasi alla
fine dell’Ottocento, ha preso oggi il sopravvento (ma non ovunque) sui
rituali domestici del trapasso, più consoni a una società tradizionale:
nella quale il vestirsi a lutto, le processioni dietro le bare e i
pellegrinaggi ai cimiteri svolgevano le funzioni di condivisione del
dolore ora assolte dalle pagine di Facebook dedicate agli amici
scomparsi. D’altra parte, la crescente diffusione degli Hospice, delle
cure palliative e dei testamenti biologici dimostra quanto la questione
del «fine vita» non sia stata affatto rimossa dal nostro orizzonte, ma
semmai ricalibrata in funzione di un’etica incentrata sulla riduzione
della sofferenza. Con buona pace di quanti pensano che il controllo del
dolore – una delle grandi conquiste della medicina moderna – trasformi
l’individuo «in un insensibile spettatore della decadenza del proprio
io» (Ivan Illich).
Un altro luogo comune contestato da Barbagli
riguarda la consuetudine di celare la verità al malato, una pratica da
molti considerata specifica della modernità. È vero invece l’opposto:
«Da Ippocrate in poi, la grandissima maggioranza dei medici ha sempre
nascosto le cattive condizioni ai pazienti, fornendole solo alle
famiglie». Soltanto nella seconda metà del Novecento, prima nei Paesi
anglosassoni e poi gradualmente anche in quelli mediterranei, i medici
cominceranno a formulare prognosi esplicite, ancorché infauste.
Dall’antico modello paternalistico che occultava, esso sì, la morte si è
dunque giunti a una disciplina medica che privilegia l’autonomia del
paziente e il suo diritto a sapere. Anche se non tutti i malati
reagiscono a una prognosi negativa come il serafico Wittgenstein in una
lettera di fine novembre ’49 all’allievo Malcolm: «Non sono rimasto
affatto sconvolto quando ho saputo di avere il cancro, mentre mi ha
sconvolto apprendere che si può curarlo, perché non provavo nessun
desiderio di continuare a vivere».
Ovviamente, ciascuna morte
resta un evento unico. Lo studioso può cogliere le tendenze generali,
attraverso le statistiche demografiche, ma deve arrendersi di fronte
alla singolarità di ogni decesso. Per questo l’affascinante narrazione
di Barbagli è spesso intercalata da stuzzicanti storie aneddotiche, in
grado di aprire uno squarcio sulla psicologia del morituro e dei suoi
famigliari, si tratti di un povero contadino siciliano, di Camillo Benso
conte di Cavour, di Enrichetta Blondel (moglie di Alessandro Manzoni) o
di un procuratore generale della Cassazione. La probabilità di morire
fra le proprie mura piuttosto che in un nosocomio dipendevano non solo
dal sesso, dall’età, dal ceto e dalla patologia, ma anche dalla
residenza. L’Italia, in questo senso, è oggi il regno dell’eterogeneità
territoriale, visto che nel 2014 è morto in casa l’11% degli abitanti di
Cremona e il 75% di quelli di Enna. Un dato che rivela quanto la
mentalità e i costumi incidano tuttora sulla scelta del luogo e del modo
in cui spirare.
Marzio Barbagli, Alla fine della vita. Morire in Italia e in altri Paesi occidentali , il Mulino, Bologna, pagg. 352, € 20