lunedì 19 marzo 2018

internazionale 18.3.18
Le opinioni
Le donne senza potere in America Latina
Di Sylvia Colombo


L aprova che si usano criteri diversi per valutare gli uomini e le donne che governano è che le quattro donne che hanno guidato un paese dell’America Latina negli ultimi quindici anni sono state messe in discussione dai commentatori politici e dall’opinione pubblica sempre a partire dalla stessa domanda: “Questo paese eleggerà di nuovo una donna?”. È una domanda assurda. Immaginate se, nel Venezuela sommerso dai problemi, qualcuno si chiedesse se i cittadini “torneranno a eleggere un uomo” dopo il disastro combinato dal dittatore Nicolás Maduro, o se qualcun altro rifacesse la stessa domanda in Nicaragua dopo il regime autoritario di Daniel Ortega, o a Cuba dopo la riapertura delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Immaginate se qualcuno dicesse: “Questa volta non permetteremo a un uomo di andare al potere”. Da Alberto Fujimori in poi tutti i presidenti del Perù sono stati uomini. Tutti sono stati messi in discussione per diversi motivi, ma mai nessuno si è chiesto: “Questa volta non faremmo meglio a eleggere una donna?”. È uno dei motivi per cui le donne che di recente sono state al potere in America Latina – Cristina Fernández (Argentina), Dilma Roussef (Brasile), Laura Chinchilla (Costa Rica) e Michelle Bachelet (Cile) – parlano di una discriminazione sotterranea nella valutazione del loro operato, a prescindere dalle ideologie e dal contesto politico. Dall’11 marzo, quando Michelle Bachelet ha lasciato l’incarico, in America Latina non c’è un paese che sia guidato da una donna. Come se non bastasse, in questo anno caratterizzato da diverse elezioni legislative e presidenziali, le donne candidate sono poche: tra di loro spiccano Margarita Zavala, moglie dell’ex presidente messicano Felipe Calderón Hinojosa, e Marta Lucía Ramírez, avvocata e leader del Partito conservatore colombiano. Quello che sembrava un passo avanti senza precedenti all’improvviso ha lasciato il posto alla consapevolezza che bisogna fare ancora tanto per sconfiggere la cultura maschilista nella regione. Basta un errore e piovono le critiche. Nelle manifestazioni contro Cristina Fernández, organizzate per protestare contro la corruzione e la crisi economica, spesso la presidente veniva chiamata égua, una parola usata in Argentina per riferirsi a una prostituta. A Laura Chinchilla, come ha scritto di recente il New York Times, veniva chiesto spesso se piangesse a causa dei problemi del governo. Michelle Bachelet ha subìto un’invasione costante nella sua vita personale e sentimentale. I brasiliani inoltre ricordano sicuramente gli insulti sessisti rivolti a Dilma Roussef durante le proteste nel paese. La presidente brasiliana, che ha attribuito la sua messa in stato d’accusa anche alla misoginia, una volta ha dichiarato: “Dicono che sono dura e severa, ma se parlassero di un uomo che ha le stesse qualità direbbero che è forte e inflessibile”. Dopo otto anni alla guida del governo cileno (in due mandati non consecutivi), Bachelet ha detto: “In politica quello che non si pretende da un uomo lo si pretende da una donna. L’unica cosa che chiedo è che il taglio sia fatto con le stesse forbici”. E poi ci sono gli stereotipi che hanno influenzato l’opinione pubblica, le inevitabili attenzioni rivolte al modo in cui quelle donne si vestivano, camminavano, sorridevano (o non sorridevano), si comportavano in pubblico, al fatto che fossero o no accompagnate da uomini. Una situazione di questo tipo può essere risolta in due modi. Il primo è investire su un’istruzione di qualità, che può evitare che i bambini sviluppino dei pregiudizi. Il secondo è con la politica delle quote. In tutti i paesi in cui questa politica è stata applicata, si è registrato un aumento del numero delle donne in parlamento. E questo è un buon segnale: la società si abitua alla presenza di deputate, senatrici, ministre (non solo in ambiti associati alla famiglia ma anche in aree considerate “difficili” come la sicurezza e l’economia). La politica delle quote funziona bene in alcuni paesi dell’America Latina. L’Argentina è l’esempio migliore. Negli anni novanta fu deciso che il 30 per cento dei parlamentari del congresso dovevano essere donne e oggi il numero delle parlamentari supera quella quota sia alla camera sia al senato, mentre in Brasile le deputate sono solo l’11 per cento. In Cile, invece, dopo che è stato introdotto questo sistema, la rappresentanza femminile è passata dal 15 al 23 per cento. Non è molto, ma è un passo avanti. Speriamo che in futuro rieleggere una donna presidente sia considerato naturale. E speriamo che le prossime leader non ricevano insulti sessisti o giudizi sulla loro attività politica in base al colore del loro vestito, o a insinuazioni sulla loro vita sessuale.
SYLVIA COLOMBO è una giornalista brasiliana del quotidiano Folha de S. Paulo e scrive sul New York Times.