internazionale 18.3.18
Le opinioni
Le donne senza potere in America Latina
Di Sylvia Colombo
L
aprova che si usano criteri diversi per valutare gli uomini e le donne
che governano è che le quattro donne che hanno guidato un paese
dell’America Latina negli ultimi quindici anni sono state messe in
discussione dai commentatori politici e dall’opinione pubblica sempre a
partire dalla stessa domanda: “Questo paese eleggerà di nuovo una
donna?”. È una domanda assurda. Immaginate se, nel Venezuela sommerso
dai problemi, qualcuno si chiedesse se i cittadini “torneranno a
eleggere un uomo” dopo il disastro combinato dal dittatore Nicolás
Maduro, o se qualcun altro rifacesse la stessa domanda in Nicaragua dopo
il regime autoritario di Daniel Ortega, o a Cuba dopo la riapertura
delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Immaginate se qualcuno
dicesse: “Questa volta non permetteremo a un uomo di andare al potere”.
Da Alberto Fujimori in poi tutti i presidenti del Perù sono stati
uomini. Tutti sono stati messi in discussione per diversi motivi, ma mai
nessuno si è chiesto: “Questa volta non faremmo meglio a eleggere una
donna?”. È uno dei motivi per cui le donne che di recente sono state al
potere in America Latina – Cristina Fernández (Argentina), Dilma Roussef
(Brasile), Laura Chinchilla (Costa Rica) e Michelle Bachelet (Cile) –
parlano di una discriminazione sotterranea nella valutazione del loro
operato, a prescindere dalle ideologie e dal contesto politico. Dall’11
marzo, quando Michelle Bachelet ha lasciato l’incarico, in America
Latina non c’è un paese che sia guidato da una donna. Come se non
bastasse, in questo anno caratterizzato da diverse elezioni legislative e
presidenziali, le donne candidate sono poche: tra di loro spiccano
Margarita Zavala, moglie dell’ex presidente messicano Felipe Calderón
Hinojosa, e Marta Lucía Ramírez, avvocata e leader del Partito
conservatore colombiano. Quello che sembrava un passo avanti senza
precedenti all’improvviso ha lasciato il posto alla consapevolezza che
bisogna fare ancora tanto per sconfiggere la cultura maschilista nella
regione. Basta un errore e piovono le critiche. Nelle manifestazioni
contro Cristina Fernández, organizzate per protestare contro la
corruzione e la crisi economica, spesso la presidente veniva chiamata
égua, una parola usata in Argentina per riferirsi a una prostituta. A
Laura Chinchilla, come ha scritto di recente il New York Times, veniva
chiesto spesso se piangesse a causa dei problemi del governo. Michelle
Bachelet ha subìto un’invasione costante nella sua vita personale e
sentimentale. I brasiliani inoltre ricordano sicuramente gli insulti
sessisti rivolti a Dilma Roussef durante le proteste nel paese. La
presidente brasiliana, che ha attribuito la sua messa in stato d’accusa
anche alla misoginia, una volta ha dichiarato: “Dicono che sono dura e
severa, ma se parlassero di un uomo che ha le stesse qualità direbbero
che è forte e inflessibile”. Dopo otto anni alla guida del governo
cileno (in due mandati non consecutivi), Bachelet ha detto: “In politica
quello che non si pretende da un uomo lo si pretende da una donna.
L’unica cosa che chiedo è che il taglio sia fatto con le stesse
forbici”. E poi ci sono gli stereotipi che hanno influenzato l’opinione
pubblica, le inevitabili attenzioni rivolte al modo in cui quelle donne
si vestivano, camminavano, sorridevano (o non sorridevano), si
comportavano in pubblico, al fatto che fossero o no accompagnate da
uomini. Una situazione di questo tipo può essere risolta in due modi. Il
primo è investire su un’istruzione di qualità, che può evitare che i
bambini sviluppino dei pregiudizi. Il secondo è con la politica delle
quote. In tutti i paesi in cui questa politica è stata applicata, si è
registrato un aumento del numero delle donne in parlamento. E questo è
un buon segnale: la società si abitua alla presenza di deputate,
senatrici, ministre (non solo in ambiti associati alla famiglia ma anche
in aree considerate “difficili” come la sicurezza e l’economia). La
politica delle quote funziona bene in alcuni paesi dell’America Latina.
L’Argentina è l’esempio migliore. Negli anni novanta fu deciso che il 30
per cento dei parlamentari del congresso dovevano essere donne e oggi
il numero delle parlamentari supera quella quota sia alla camera sia al
senato, mentre in Brasile le deputate sono solo l’11 per cento. In Cile,
invece, dopo che è stato introdotto questo sistema, la rappresentanza
femminile è passata dal 15 al 23 per cento. Non è molto, ma è un passo
avanti. Speriamo che in futuro rieleggere una donna presidente sia
considerato naturale. E speriamo che le prossime leader non ricevano
insulti sessisti o giudizi sulla loro attività politica in base al
colore del loro vestito, o a insinuazioni sulla loro vita sessuale.
SYLVIA COLOMBO è una giornalista brasiliana del quotidiano Folha de S. Paulo e scrive sul New York Times.