lunedì 12 marzo 2018

internazionale 11.3.18
Stati Uniti
I codici non scritti della Silicon valley
Di Sheelah Kolhatkar, The New Yorker, Stati Uniti
Le aziende tecnologiche sono associate all’innovazione e alla modernità. In realtà sono dominate dal sessismo e dalle discriminazioni di genere. Ma da qualche anno un gruppo di donne sta cercando di cambiare le cose


Un giorno del 2013 AJ Vandermeyden è arrivata alla sede centrale della Tesla a Palo Alto, in California, si è seduta su una panchina davanti all’ingresso principale e si è messa ad aspettare, nella speranza d’incontrare qualcuno che sembrasse un dipendente dell’azienda. Vandermeyden aveva trent’anni e lavorava come rappresentante farmaceutica, ma voleva fare un lavoro diverso in quello che per lei era il centro del mondo: la Silicon valley. Sapeva che Elon Musk, eccentrico e ambizioso cofondatore della Tesla, che produce automobili elettriche, possedeva anche una serie di aziende per la ricerca sui voli nello spazio e l’energia solare. Vandermeyden ne era affascinata. La Tesla stava crescendo rapidamente e offriva ai dipendenti molte opportunità per fare carriera. Come ripeteva sempre Musk, l’azienda si fondava sulla “meritocrazia”, e Vandermeyden voleva farne parte. Ha visto un uomo che indossava una maglietta con la scritta “Tesla” e gli si è avvicinata per presentarsi. Quando ha scoperto che lavorava nel reparto vendite, proprio quello che le interessava, ha deciso di fargli subito il discorsetto che si era preparata. Lui è sembrato colpito dalla sua faccia tosta. Qualche settimana dopo Vandermeyden è stata assunta come specialista di prodotto nel reparto vendite interno. All’inizio le cose andavano benissimo. Dopo un anno Vandermeyden è stata promossa a coordinatrice di progetto nel reparto vernici. Il nuovo incarico prevedeva che andasse a lavorare nella fabbrica di Fremont, in California, dove centinaia di bracci automatici rossi assemblavano le auto della Tesla in un capannone bianco. Il ronzio dei robot in movimento dava la sensazione di vivere in un futuro fantascientifico. Ma c’era qualcosa nel modo in cui le persone si comportavano che sembrava decisamente primitivo, e profondamente sbagliato. Vandermeyden, che lavorava a stretto contatto con altri otto dipendenti, ha scoperto subito che il suo stipendio era più basso di quello di tutti gli altri, compresi alcuni nuovi assunti appena usciti dall’università. Lei era l’unica donna del gruppo. I suoi capi erano uomini e tutta la catena di comando, fino allo stesso Musk, era formata da uomini. Alla Tesla, come in molte aziende tecnologiche, le battute volgari erano diffuse anche tra alcune donne. La sensazione era che i dirigenti non avessero idea dei problemi che le donne dovevano affrontare nell’azienda. Un’ex dipendente mi ha detto che erano meno del 10 per cento nel suo gruppo di lavoro. A un certo punto c’erano più uomini di nome Matt che donne. Vandermeyden lavorava duramente. Quando si è sparsa la voce che aveva lavorato per 26 ore di seguito a un progetto, un dirigente del reparto assemblaggio l’ha convinta a entrare nella sua squadra. Ha cominciato a indossare stivali con la punta di ferro e occhiali protettivi. Notava che a volte, quando una donna attraversava certi reparti della fabbrica, gli uomini fischiavano e facevano commenti offensivi. Le colleghe la chiamavano la “zona dei predatori”. Nel luglio del 2015, tre mesi dopo che Vandermeyden era entrata nella squadra, molti dei suoi colleghi sono stati promossi. Aveva l’impressione che presto anche lei avrebbe avuto una promozione e un aumento, ma secondo i documenti presentati in tribunale non ha ottenuto nessuna delle due cose. Ha scritto una prima email al suo capo, elencando tutto quello che aveva fatto e ricordandogli che i giudizi su di lei erano sempre stati positivi. Lui non ha preso sul serio le sue osservazioni, così Vandermeyden ha cominciato a mandare email anche all’ufficio risorse umane. Ha preso un appuntamento con il capo del suo capo, che lo ha annullato all’ultimo momento, subito prima di partire per due settimane di vacanza. Due mesi dopo Vandermeyden ha avuto finalmente una risposta dai dirigenti: per avere un aumento, le hanno detto, avrebbe dovuto aumentare la sua produttività del cento per cento entro un anno. Secondo Vandermeyden era un obiettivo assurdo e irraggiungibile, e non ha potuto fare a meno di pensare che l’azienda sperasse in un suo fallimento per poterla licenziarla. Così ha deciso di chiamare un avvocato. Il 20 settembre del 2016 ha citato in giudizio la Tesla, accusando l’azienda di discriminazione di genere, ritorsione e altre violazioni dei diritti dei lavoratori.
Potere asimmetrico
Dall’ottobre del 2017, quando decine di donne hanno denunciato di essere state molestate dal produttore cinematografico Harvey Weinstein, il problema degli abusi sessuali e delle discriminazioni di genere è al centro del dibattito pubblico. Dopo aver taciuto per molto tempo, le donne si stanno facendo avanti e stanno accusando molti uomini di potere. Buona parte degli abusi denunciati riguarda l’ambiente dello spettacolo, che sembra strutturato in modo da facilitare lo sfruttamento delle donne, con generazioni di giovani attrici in cerca di successo in un ambiente controllato da produttori e registi maschi. Ma l’ondata di denunce in altri ambiti, dalle università alle amministrazioni locali e alle aziende, ha dimostrato che negli Stati Uniti sono molti i settori lavorativi con dinamiche simili a quelle di Hollywood. Dopo le rivelazioni su Weinstein e altri personaggi pubblici – storie terribili di stupri e molestie, che tutti gli accusati hanno smentito – al confronto questioni come la disparità salariale possono sembrare poco importanti. Ma anche se non sono gravi come i reati commessi da Weinstein, sono problemi creati da uomini come lui. È lo squilibrio di potere e di stipendi che mette gli uomini in condizione di molestare, che garantisce un controllo illimitato sulla vita economica delle donne e, di conseguenza, influisce sulla loro vita materiale. Queste forme più sottili di discriminazione, che quasi tutte le donne conoscono bene, possono essere particolarmente pericolose, perché per le aziende, e anche per le vittime, è più facile minimizzarle. Il problema è particolarmente evidente nel settore tecnologico. Nel 2015 un gruppo di investitrici e dirigenti della Silicon valley ha condotto un’indagine su duecento donne che occupavano posizioni di rilievo nelle aziende tecnologiche. Lo studio, intitolato “L’elefante nella valle”, ha dimostrato quanto siano comuni le discriminazioni e quanto siano intrecciate tra loro. Nell’84 per cento dei casi le donne hanno dichiarato di essere state giudicate “troppo aggressive”, nel 66 per cento di essere state escluse da eventi importanti in quanto donne e nel 60 per cento di aver ricevuto avance indesiderate in ufficio. Il più delle volte a fare le avance erano i loro superiori, e un terzo delle donne ha espresso preoccupazione per la propria sicurezza personale. Quasi il 40 per cento ha detto di non aver mai denunciato gli incidenti per timore di ritorsioni. “Gli uomini che umiliano, mortificano o mancano di rispetto alle donne hanno potuto continuare a farlo impunemente, non solo a Hollywood, ma anche nel settore della tecnologia, della finanza e in altri campi in cui la loro influenza e i loro investimenti possono creare o distruggere una carriera”, mi ha detto Melinda Gates, che dirige insieme al marito la Bill & Melinda Gates foundation. “L’asimmetria di potere facilita gli abusi”.
Nella Silicon valley i problemi sono in parte dovuti al fatt0 che gli uomini sono molto più numerosi delle donne. Da vari studi risulta che le donne sono solo un quarto dei dipendenti e l’11 per cento dei dirigenti del settore. Naturalmente esistono da sempre luoghi di lavoro a maggioranza maschile conosciuti per questo tipo di comportamenti, dal mondo della finanza a quello della pubblicità. Ma il settore tecnologico si differenzia dagli altri anche perché si presenta come il regno degli innovatori instancabili che vogliono migliorare il mondo. Lo slogan di chi lavora nella Silicon valley, preso dal codice di condotta di Google, è “non essere malvagio”. Per molti aspetti l’industria tecnologica rappresenta il futuro: ha attirato una generazione di ingegneri promettenti , scienziati e programmatori e li ha pagati profumatamente, permettendogli di condizionare le idee e i valori degli Stati Uniti. Per questo è preoccupante osservare che molte di queste aziende e dei loro amministratori delegati hanno creato una cultura interna che, almeno per le molestie sessuali e le disparità di genere, somiglia a quella del mondo della pubblicità degli anni sessanta, senza le cravatte strette e i pranzi a base di Martini. La situazione alla Tesla dimostra che un’azienda dominata dagli uomini – anche se fortemente innovativa – può dare alle donne la sensazione di essere impotenti. Quando Vandermeyden ha presentato la sua denuncia, a poco a poco la voce si è diffusa in tutta l’azienda. Qualche mese dopo è partita un’email indirizzata a tutte le dipendenti della Tesla con un invito a un evento per festeggiare la giornata internazionale della donna. All’evento hanno partecipato vicepresidenti e alti dirigenti, tra i quali c’era solo una donna. L’atmosfera si è fatta subito tesa. Alcune ingegnere hanno cominciato a parlare di parità salariale chiedendo che l’azienda rendesse pubblici gli stipendi degli uomini e delle donne. Una dipendente di nome Justine ha annunciato: “Presto lascerò la Tesla per via delle condizioni di lavoro. Guardando i nostri capi in prima fila, vedo solo maschi bianchi”. Un’altra donna ha raccontato di un evento a cui aveva partecipato anche Musk. “Avrebbe dovuto parlare di iniziative contro la discriminazione e le molestie, ma ha abilmente aggirato il problema. Non ha detto: ‘Le molestie sono sbagliate, la discriminazione è sbagliata’. Ha fatto salire sul palco una serie di persone e ha detto: ‘Se v’impegnerete sul serio, ci riuscirete’”. Il moderatore dell’incontro ha letto i commenti delle dipendenti della Gigafactory, una fabbrica del Nevada che produce batterie per le auto. Le donne si lamentavano di non sapere come denunciare i casi di molestie. Ad alcune era stato consigliato di chiamare un numero di telefono dedicato, al quale però rispondeva una segreteria telefonica. A quanto ne sapevano, nessuno ascoltava mai i messaggi. Il 29 maggio 2017 Vandermeyden è stata invitata a un incontro con Gabrielle Toledano, la nuova direttrice del personale della Tesla, per parlare di come migliorare la condizione delle donne. Per lo meno era quello che si aspettava Vandermeyden. Quando è arrivata al colloquio, Toledano ha esordito dicendo: “Ti faccio vedere quello che ho preparato”. Era una proposta di buonuscita. “Se firmi questa, non ti rovinerai la vita con una causa”. Ha aggiunto che, se avesse collaborato, Musk avrebbe inviato un’email a tutto il personale in cui comunicava che lei lasciava l’azienda, e la Tesla l’avrebbe aiutata a trovare un altro lavoro. Vandermeyden era sbalordita. Non aveva fatto niente di male e non se ne sarebbe andata. “La Tesla è la mia vita”, ha detto a Toledano. Per tutta risposta è stata licenziata. La Tesla sostiene di aver indagato sulle rivendicazioni della donna: “Dopo aver esaminato con cura i fatti in diverse occasioni ed esserci convinti che non aveva alcun diritto di fare rivendicazioni, non avevamo altra scelta che interrompere il rapporto con lei”, ha detto un portavoce. L’avvocata di Vandermeyden, Therese Lawless, titolare con la sorella dello studio Lawless & Lawless di San Francisco, sostiene che è illegale licenziare chi denuncia i comportamenti scorretti del proprio datore di lavoro, ma è un tipo di ritorsione molto comune contro le donne che si lamentano di essere discriminate. “È il messaggio che ti manda l’azienda se parli. Per questo la gente ha paura”, dice Lawless. Vandermeyden, aggiunge, è stata “un agnello sacrificale”.
I figli di Wall street
Dal punto di vista giuridico il concetto di molestie sessuali negli Stati Uniti è nato negli anni settanta, quando due donne afroamericane fecero causa ai loro capi bianchi e costrinsero i tribunali a prendere atto del problema. Negli anni novanta furono presentate molte denunce contro banche e società d’investimento di Wall street, come la Morgan Stanley e la Merrill Lynch, che pagarono risarcimenti per milioni di dollari. Sembra che una filiale della Smith Barney, che poi sarebbe stata acquistata dalla Morgan Stanley, avesse nel seminterrato una “stanza bum bum”, dove i broker festeggiavano i compleanni con delle spogliarelliste. Inoltre le donne erano pagate meno e avevano otto volte meno probabilità di essere promosse al ruolo di broker. Più di duemila donne parteciparono alla causa contro la compagnia e alla ine la Smith Barney dovette sborsare 150 milioni di dollari. A Wall street continuano a emergere nuove accuse – a ottobre c’è stata una denuncia per molestie sessuali contro la Fidelity Investments, e una per discriminazione contro la Goldman Sachs – ma la maggior parte delle grandi banche e degli studi legali alla fine ha adottato delle misure che hanno eliminato almeno i comportamenti più oltraggiosi. Oggi la Silicon valley ha preso il posto di Wall street come centro di ricchezza e potere. E, come Wall street, fin dall’infzio è stata dominata dagli uomini. È sempre prevalso un atteggiamento tollerante verso i comportamenti sessisti, e il modello commerciale del settore tecnologico contribuisce ad aggravare il problema. Spesso all’inizio le startup sono formate da un piccolo gruppo di giovani imprenditori che lavorano insieme in una stanza, senza regole precise. Quando cominciano, non hanno un reparto risorse umane, quindi nessuno si occupa di ascoltare eventuali reclami. E l’enfasi degli investitori sulla “crescita a qualsiasi costo” spesso porta le startup e i consigli di amministrazione a ignorare i problemi che nascono sul luogo di lavoro – oltre ad altri illeciti più gravi – purché il valore della società continui a crescere. L’opinione pubblica ha cominciato a rendersi conto delle difficili condizioni delle donne nel settore tecnologico nel 2014, quando è scoppiato il cosiddetto Gamergate: molte donne che lavoravano nel settore dei videogiochi, tra cui la giornalista Anita Sarkeesian, sono state violentemente attaccate online. Dei molestatori anonimi hanno reso pubblici i loro indirizzi e altre informazioni personali, minacciandole di morte e di stupro. Sarkeesian lo ha definito “un tentativo organizzato e concertato di rovinare” la loro vita. Alcune delle donne sono state costrette a nascondersi. Quello stesso anno Whitney Wolfe, una delle fondatrici di Tinder, ha fatto causa a uno dei fondatori dell’azienda, che aveva frequentato per un periodo, accusandolo di molestie. All’epoca Wolfe aveva 24 anni. L’amministratore delegato, che era il migliore amico dell’accusato, ha costretto Wolfe a dimettersi. Sembra che in un messaggio l’ex fidanzato, preoccupato che lei vedesse qualcun altro, avesse scritto: “Preferisci fartela con un maiale musulmano di mezza età per fare carriera”. L’uomo è stato assolto, e oggi Wolfe è amministratrice delegata di Bumble, un’app di incontri. Il problema della discriminazione è tornato alla ribalta nel febbraio del 2017, quando Susan Fowler, che aveva lavorato per Uber, ha raccontato sul suo sito l’esperienza nell’azienda, descrivendo le avance sessuali del suo capo. Era andata all’ufficio risorse umane con le registrazioni delle chat che dimostravano le molestie, dando per scontato che l’uomo sarebbe stato punito. Invece “gli alti dirigenti” le avevano detto che il suo molestatore era un “collaboratore prezioso” e quindi lei avrebbe dovuto trovarsi un altro gruppo con cui lavorare nell’azienda, oppure restare con lui. Poi avevano minacciato di licenziarla per essersi lamentata. Più tardi aveva conosciuto altre dipendenti con storie simili alla sua. Alcune, ha scritto Fowler, erano state molestate dalla stessa persona. Il racconto di Fowler ha fatto partire un’inchiesta all’interno dell’azienda, condotta dall’ex ministro della giustizia Eric Holder. A giugno Uber aveva già licenziato venti dipendenti e ne aveva punite altre quaranta, ma sull’onda dello scandalo e di altri problemi Travis Kalanick, cofondatore e amministratore delegato dell’azienda, è stato costretto a dimettersi. “Naturalmente sono indignata, ma non così sorpresa”, dice Melinda Gates. “Le uniche persone che non sapevano cosa stesse succedendo nella Silicon valley erano quelle che facevano di tutto per non vedere. Non credo che esista una donna con esperienza di lavoro nel mondo della tecnologia che non abbia subìto qualche tipo di molestia, me compresa”.
Il caso scuola
Quasi ogni volta che nella Silicon valley si parla di molestie e discriminazioni, tutti citano un caso particolare: il processo del 2015 in cui era coinvolta Ellen Pao. Non era lei a essere sotto accusa, ma osservando la vicenda da lontano sembrava che lo fosse. Era una ex socia della Kleiner Perkins Cauield & Byers, una delle più influenti società di investimenti della Silicon valley, tra le prime a investire in Amazon e in Google.
Pao accusava l’azienda di alimentare un sessismo, sia palese sia dissimulato, che aveva ostacolato la sua carriera. Sosteneva anche che i dirigenti avevano ignorato il comportamento di un socio che aveva molestato diverse dipendenti, lei compresa. Durante un viaggio di lavoro si era presentato nella stanza di una collega indossando solo un accappatoio, e le aveva fatto delle avance. Pao aveva avuto una breve relazione con lui prima di sposarsi e, quando l’aveva interrotta, l’uomo si era vendicato. Quando lei e altre donne si erano lamentate, un socio anziano aveva detto scherzando che le donne avrebbero dovuto essere “lusingate” dalle sue attenzioni. La Kleiner Perkins ha smentito le accuse e le ha contestate in tribunale. Incontro Pao nel ristorante dell’hotel Four Seasons, nel centro di San Francisco. È presto, intorno alle sei di sera, e il ristorante, uno dei ritrovi preferiti di investitori e fondatori di aziende tecnologiche, è quasi vuoto. Pao è vestita in modo informale, pantaloni kaki e maglietta blu, e mentre parliamo siede dritta con le mani in grembo. Mi racconta che quando è entrata nel settore, alla fine degli anni novanta, gli uomini erano molto più numerosi delle donne, ma l’atmosfera non era così aggressiva e non c’era l’ossessione per i soldi che c’è oggi. Molti dei primi investitori e imprenditori erano “sempliciotti” uniti dalla “comune passione per la tecnologia”. L’ambiente è cambiato, afferma Pao, quando le prime società di capitale di rischio hanno cominciato a investire nella tecnologia. “Erano tutti maschi bianchi che si erano laureati nelle stesse università d’élite”, afferma. “E volevano investire in nuove società fondate da persone che conoscevano, o che erano come loro”. Questo ha dato vita a un sistema di assunzioni e investimenti che alcuni chiamano il “modello Gates, Bezos, Andreessen o Google”, e che qualche tempo fa Melinda Gates ha definito così: “Formato da maschi bianchi e nerd che non sono riusciti a laurearsi a Harvard o Stanford”. Negli anni le cose non sono molto migliorate: da due studi recenti è emerso che nel 2016 solo il 7 per cento dei soci delle società di capitale di rischio erano donne e solo il 2 per cento dei finanziamenti arrivava alle donne imprenditrici. Secondo Pao c’è stato un altro fatto, avvenuto nel 2012, che ha contribuito a quel cambiamento: la quotazione in borsa di Facebook per una cifra superiore a cento miliardi di dollari, che ha confermato l’idea che la Silicon valley sia un posto in cui si può fare fortuna in poco tempo. Le aziende tecnologiche hanno cominciato a fare concorrenza alle banche e ai fondi d’investimento per accaparrarsi i laureati più ambiziosi. “Sono arrivati i laureati delle grandi università, e la cultura è cambiata”, dice. “C’era semplicemente un’atmosfera diversa. La gente parlava più delle cose fantastiche che aveva fatto che dei prodotti a cui stava lavorando”. Il libro scritto da Pao, Reset: my fight for inclusion and lasting change (reset: la mia battaglia per l’inclusione e un cambiamento duraturo), è una critica sarcastica alla cultura dei soldi che governa quel mondo. Alla Kleiner Perkins “i dirigenti erano in lotta tra loro per avere sempre di più: più posti in consiglio di amministrazione, più case, più terreni e sempre più aerei”. Sognavano di possedere squadre di basket, di diventare produttori di Hollywood e di “avere un jet per poter fuggire in Nuova Zelanda” (nel caso di un innalzamento del livello dei mari, di una pandemia o di una rivolta dei lavoratori). In quell’ambiente, sostiene Pao, pochi si rendevano conto del fatto che i guardiani dell’industria stavano rendendo dificile, se non impossibile, l’accesso a persone estranee. “È un circolo vizioso, e ci hanno costruito intorno una cultura. Come fai a spezzarlo?”, dice Pao. “Aggiungerci un gruppetto di donne non è sufficiente a cambiare le cose”. Pao ha perso la causa. Ma il processo ha comunque portato alla luce il problema. Altre donne che lavorano nel settore le hanno scritto per ringraziarla e raccontare le loro storie. Durante il processo due donne hanno fatto causa per discriminazione a Facebook e a Twitter, e i giornalisti hanno cominciato a parlare dell’“effetto Pao”. Tuttavia, la sua esperienza fa capire perché raramente le donne sporgano denuncia contro le molestie. “Non lo augureresti neanche al tuo peggior nemico, è un’esperienza orribile”, dice Pao. “Ti prosciuga, dal punto di vista sia emotivo sia economico”. Joelle Emerson, un’avvocata dei diritti delle donne dirigente della Paradigm Strategy, una società che offre alle aziende consulenze sul rispetto delle diversità, dice di aver notato una particolare riluttanza a fare causa “tra le professioniste che hanno veramente voglia di fare carriera. Sanno bene quali conseguenze negative ci possono essere”. Pao, che all’epoca del processo era amministratrice delegata ad interim di reddit, ha ricevuto critiche e molestie online, anche perché alcuni utenti di reddit non condividevano le sue scelte, compresa la decisione di bloccare i post pornografici vendicativi. Quattro mesi dopo il verdetto è stata costretta a dimettersi. I silenzi di Google Intanto l’industria tecnologica continua ad alzare barriere contro le azioni legali. Da una recente ricerca dello studio legale Carlton Fields Jorden Burt è emerso che negli ultimi anni nella Silicon valley c’è stato un enorme aumento dell’uso delle clausole di arbitrato nei contratti di assunzione. Si tratta di una strategia legale introdotta dalle società di Wall street e prevede che le dispute su temi come le molestie siano affrontate con un arbitrato invece che portate in tribunale. L’arbitrato non è aperto al pubblico e generalmente favorisce i datori di lavoro. Le aziende hanno anche cominciato a stipulare accordi di riservatezza con i loro dipendenti. Apparentemente servono a proteggere il segreto aziendale, ma in alcuni casi sono così restrittivi che impediscono ai dipendenti di confrontare gli stipendi o di parlare in pubblico delle loro esperienze di lavoro. Un ex dipendente di Google mi ha detto: “Vorrei che ci fosse una moratoria di 24 ore sugli accordi di riservatezza. Scatenerebbe un terremoto in tutta l’industria tecnologica”. Therese Lawless, che oltre a rappresentare AJ Vandermeyden è stata una delle avvocate di Pao, sostiene che le strategie per limitare il diritto dei dipendenti a fare reclami sono particolarmente dannose per le donne e le minoranze: “È così che tengono fuori i sindacati. Ed è così che mettono a tacere le donne e gli impediscono di parlare dei loro stipendi”. Lawless sostiene che queste misure hanno portato molte aziende tecnologiche a pensare di poter fare tutto quello che vogliono. “Stanno lentamente cancellando tutti i progressi che il movimento dei lavoratori ha fatto nel corso degli anni con la scusa che ‘questa è la California e qui tutto è così fico’”.
Non è una coincidenza se i primi processi per discriminazione sessuale, e anche molti dei nuovi processi contro le aziende tecnologiche, sono partiti dalle denunce di donne non bianche. Il problema delle disparità razziali è spesso legato in modo inestricabile a quello delle disparità di genere e le donne delle minoranze sono spesso vittime sia del razzismo sia del sessismo. Dopo anni di pressioni pubbliche, nel 2014 Google ha reso noti i dati sulla composizione del suo personale. Nel settore tecnico le donne erano solo il 17 per cento, gli ispanici il 2 per cento e i neri l’1 per cento. Nel suo terzo rapporto sulla diversità, pubblicato a giugno del 2017, le percentuali erano leggermente migliorate, passando a 20, 3 e 1 per cento rispettivamente. Erica Joy Baker, ingegnera e alta dirigente della piattaforma per artisti Patreon, ha lavorato a Google dal 2006 al 2015 e ha chiesto pubblicamente più diversità nell’azienda. Baker, che è afroamericana, racconta che ad avere le maggiori opportunità lavorative erano solo i dipendenti di un certo tipo. “Per tutta la mia carriera a Google la storia è stata sempre la stessa: ‘Lo so che vorresti lavorare su questa cosa, ma affideremo il compito a un maschio bianco. Mi dispiace, ma gli permetteremo di passarti avanti’. Era molto frustrante”. A un certo punto Baker lavorava in un gruppo che ofriva supporto tecnico agli alti dirigenti di Google. Un giorno, nel 2008 o 2009, il suo collega, un uomo di nome Frank, non era in ufficio e lei era seduta nella loro stanza da sola. Eric Schmidt, l’amministratore delegato di Google, è entrato perché aveva bisogno di aiuto e le ha chiesto dove fosse Frank. Baker gli ha detto: “Non c’è, posso fare qualcosa per lei?”. Schmidt le ha risposto di lasciare un messaggio a Frank spiegandogli qual era il problema tecnico, un problema che lei era perfettamente in grado di risolvere. “Gli ho detto: ‘Posso occuparmene io’. E lui ha risposto: ‘Ah, lei non è la sua assistente?’”. Poi le ha consigliato di mettere un cartello sulla porta per specificare quale fosse il suo ruolo, anche se nessun ufficio aveva quel tipo di cartelli. Gli alti funzionari di Google spesso la confondevano con l’unica altra donna nera che svolgeva un lavoro tecnico nella sua squadra. “Per gioco ci chiamavamo le gemelle, anche se non ci somigliavamo per niente”. L’impressione di Baker era che molti dei suoi colleghi non riuscissero a “distinguere tra due donne di colore completamente diverse” (Google non ha voluto fare commenti su questo incidente).
All’inizio del 2017 il dipartimento del lavoro statunitense ha condotto un primo controllo sulla politica salariale di Google e ha scoperto, secondo una testimonianza rilasciata in tribunale ad aprile, “sistematiche disparità salariali a svantaggio delle donne a quasi tutti i livelli”, dimostrando, ha detto un funzionario, che in quasi tutte le categorie c’erano varie differenze statisticamente rilevanti tra il salario degli uomini e quello delle donne. Ma Google si è sempre rifiutata di mostrare le cifre complete dei salari al dipartimento e, dopo che il governo glielo ha imposto, ha lottato in tribunale per mesi, sostenendo che la richiesta era un’imposizione irragionevole. In un comunicato l’azienda ha dichiarato che dalla sua indagine interna non era emersa nessuna disparità, ma il giudice ha ordinato di consegnare altri dati entro luglio. A settembre tre donne hanno presentato una causa collettiva a nome di tutte le dipendenti dell’azienda, accusando i vertici di “segregarle” nelle posizioni che prevedono un salario più basso e di pagarle meno dei loro colleghi che fanno “sostanzialmente lo stesso lavoro” (in un comunicato Google ha respinto quest’accusa).
Ci sono state cause collettive basate sulla discriminazione di genere anche contro Twitter, Microsoft e Uber. Nel 2016 la Qualcomm ha risolto una causa ancora prima che fosse discussa, pagando quasi venti milioni di dollari di risarcimenti. Nel 2017 il dipartimento del lavoro ha citato in giudizio per discriminazione anche la Oracle (la causa è in corso).
Al bar dell’albergo
Più o meno la metà delle donne che entrano nel settore della tecnologia alla fine lo abbandona, più del doppio degli uomini. Secondo uno studio del 2017, la perdita di donne e persone appartenenti alle minoranze costa alla Silicon valley più di 16 miliardi di dollari all’anno. Lo stesso studio ha dimostrato che, in circa il 60 per cento dei casi, le impiegate che erano state molestate sessualmente avevano preso la decisione di cambiare lavoro anche per quel motivo. Secondo un altro studio, le principali differenze tra le esperienze delle dipendenti che se ne vanno e quelle delle dipendenti che rimangono sono legate alla loro percezione negativa dell’ambiente lavorativo in termini di correttezza e opportunità. La prospettiva di una corsa a ostacoli per fare carriera può essere particolarmente scoraggiante per una generazione di donne che, come Kathryn Minshew, fondatrice del sito The Muse, “è stata cresciuta da genitori che l’hanno convinta di poter fare qualsiasi cosa”. Per anni non aveva mai preso sul serio l’idea che essere donna fosse uno svantaggio dal punto di vista professionale. E quando la McKinsey & Company, la società di consulenza con cui ha cominciato a lavorare, ha organizzato un reclutamento alla Duke university che comprendeva anche un pranzo per sole donne, ha pensato che fosse una cosa paternalistica e inutile. Ma presto ha cambiato idea. “All’epoca ero ingenua”, dice, “ma appena entrata nel mondo del lavoro mi sono subito resa conto che le donne sono percepite in modo diverso dagli uomini”. Alla McKinsey le è apparso subito chiaro che per alcuni clienti “ero lì solo per portare il caffè, mentre i ragazzi erano tutti geni della matematica e maghi della tecnologia”. Nel 2011 Minshew ha contribuito a fondare The Muse, che inizialmente mirava a dare alle donne che cominciavano la loro carriera consigli su questioni di vario tipo: da come chiedere un aumento a come cavarsela con i capi. Le teorie più diffuse su questi temi si basavano su quello che funzionava per gli uomini, mentre Minshew pensava che molte delle regole che valevano per gli uomini non andassero bene per le donne. Minshew e le sue socie hanno cominciato a cercare finanziamenti per la nuova azienda, cosa che riusciva con relativa facilità a molti dei loro compagni di università che erano diventati imprenditori. “Quello è stato un momento rivelatore del sessismo e dei pregiudizi di genere nel mondo della tecnologia”, dice. “Coprivano una gamma di atteggiamenti che andava dalle proposte sessuali esplicite ai commenti e agli atteggiamenti paternalistici nei miei confronti perché ero una donna”. Mi ha raccontato di un appuntamento con un investitore che all’ultimo minuto aveva spostato l’incontro nel bar del suo albergo. Avevano ordinato da bere e avevano parlato del suo progetto. “Eravamo lì seduti e improvvisamente lui era molto vicino a me”, dice. Si era ritrovata incastrata tra la fine del divano e il corpo dell’uomo piegato su di lei. Era chiaro che non era più un incontro di lavoro, e se n’era andata molto agitata. “È strano, perché se mi avessero chiesto cosa avrei fatto in quella situazione, avrei risposto che sarei stata molto più aggressiva e decisa”, dice. “Ma poi è successo a me…”. La legge di Al Capone Minshew mi ha detto che la reazione dei suoi amici che lavoravano nel settore le aveva dato la sensazione che fosse inutile denunciare l’incidente. “Quando il giorno dopo l’ho raccontato a molti imprenditori maschi, l’atteggiamento generale è stato: ‘Cosa ti aspettavi? Sei una bella ragazza ed è naturale che quelli cerchino tutti di saltarti addosso’”. La loro reazione era stata “doppiamente demoralizzante”. Si era anche resa conto che fino a quel momento pochissimi investitori avevano avuto a che fare con imprenditrici donne e alcuni non sapevano come comportarsi. Anche se molti incontri erano stati positivi, gli investitori spesso non riuscivano a concepire un’azienda che si rivolgesse alle donne che già lavoravano a tempo pieno. Continuavano a dirle che la sua azienda sarebbe fallita appena le donne che usavano l’app avessero superato i trent’anni e avessero cominciato ad avere figli. Molte delle loro mogli non lavoravano, e questo le appariva come una prova del fatto che la loro teoria era corretta. Spesso, ricorda, le parlavano “come se pensassero che ero così carina a giocare con loro, come se fossi un animale da circo”. Si è anche sentita dire più di una volta che avrebbe dovuto chiedere un finanziamento alla Golden Seeds, una compagnia d’investimenti che finanzia esclusivamente aziende guidate da donne. Ma lei non si è arresa, e nel 2012 The Muse è diventata una delle prime imprese formate solo da donne ammesse al prestigioso y Combinator, un programma che sostiene i giovani imprenditori del settore tecnologico. Quel successo faceva chiaramente capire che il modo in cui era stata trattata all’inizio era dovuto alle dinamiche di potere dell’industria. Mishew sottolinea che appena la sua azienda si è affermata gli investitori hanno smesso di avere quell’atteggiamento da predatori. “Hanno capito che sarebbe stato molto più rischioso fare un commento inopportuno”, dice.
Valerie Aurora, la principale consulente delle Frame Shift Consulting, che si occupa di diversità e inclusione, e Leigh Honeywell, esperta di tecnologia dell’American civil liberties union (Aclu), sostengono che le molestie sessuali sono spesso il segnale di una serie di altre scorrettezze commesse in un’azienda. Hanno chiamato la loro tesi “teoria Al Capone delle molestie sessuali”, e nell’estate 2017 l’hanno pubblicata online. Al Capone era un gangster dell’era del proibizionismo che le autorità federali avevano cercato per anni di processare per reati gravi, tra cui il contrabbando e l’omicidio, ma che alla fine fu arrestato per un reato completamente diverso: l’evasione fiscale. Aurora e Honeywell hanno sviluppato questa teoria dopo aver notato uno schema ricorrente nel mondo della tecnologia che ricorda il caso di Al Capone: le molestie sessuali sono spesso accompagnate da altre violazioni. “È probabile che chi molesta o aggredisce sessualmente rubi, plagi, sia apertamente razzista o danneggi in altri modi la sua azienda”, scrivono. “Tutti questi comportamenti sono tipici di chi si sente in diritto di appropriarsi di qualcosa che appartiene a un altro, che si tratti di idee, lavoro, denaro o del suo corpo. Un altro fattore comune è il desiderio di dominare e di controllare”. Secondo loro non è una coincidenza che nel caso di Harvey Weinstein la procura federale abbia aperto un’inchiesta sulle sue attività benefiche, anche se è accusato di stupro. Quando chiedo ad Aurora perché pensa che esista questo collegamento, risponde: “Per diversi motivi, ma il più interessante è che i molestatori spesso si sentono in diritto di fare qualsiasi cosa. È come se pensassero che sono più importanti di tutti gli altri”. E aggiunge: “È molto utile avere Donald Trump come presidente, ora sappiamo bene come si comportano i narcisisti”. Come in altri campi, le donne che lavorano nella tecnologia hanno sempre avuto le loro reti d’informazioni, formali e informali, online e offline, per scambiarsi consigli professionali e di altro tipo. Come dimostra la valanga di post sui social network degli ultimi mesi, internet è diventato il nuovo luogo delle denunce, e ora le accuse non si fanno sottovoce. Minshew spera che il dibattito pubblico sulle discriminazioni delle donne contribuisca a cambiare la cultura delle aziende tecnologiche: “Per tanti anni abbiamo avuto l’impressione che parlando avremmo detto addio alla nostra carriera. Quest’estate ho visto per la prima volta quello che può succedere a chi si comporta male. E questo mi dà forza. Prima sembrava che nessuno ci avrebbe mai finanziato e che niente sarebbe mai cambiato”. Therese Lawless dice che il suo studio legale è stato tempestato di telefonate di donne: “Spero proprio che le abitudini stiano cambiando, e che spingano la gente a pensare: ‘Non possiamo più nascondere queste cose sotto il tappeto. Le donne stanno cominciando a farsi avanti e a parlare’”. Altre donne che ho intervistato erano meno ottimiste. Un’ex dipendente della Tesla mi ha detto che nel settore tecnologico l’ipocrisia ha radici profonde. “Una cosa è particolarmente preoccupante: è un’industria che dovrebbe rappresentare il futuro. Sembrano tutti impegnati a fare cose diverse e migliori. Ma non stanno affrontando questo problema e meno che mai stanno cercando di risolverlo”. Ha fatto una pausa e ha concluso: “Sinceramente, non credo siano capaci di cambiare”.