ALCUNI SETTIMANALI
domenica 12 marzo 2018
internazionale 11.3.18
Pechino alle prese con l’abuso di antibiotici
La diffusione di batteri sempre più resistenti a causa dell’uso eccessivo di antibiotici è un problema mondiale che colpisce in particolare l’Africa e l’Asia. Le autorità cinesi corrono ai ripari
Di Eeje Rammeloo, MO, Belgio
Il trasferimento a Shanghai non ha lasciato indifferente Adam. Il ragazzo di 22 anni è tornato a vivere con i genitori dopo quindici anni passati in campagna con i nonni. I pomi e le macchie rosse sulle sue braccia si sono estese al petto e alle gambe. Sua madre gli mette pomate e prepara infusi con le erbe mandate dalla nonna, ma nulla sembra funzionare. Neanche il dottore sa fare una diagnosi. In Cina in questi casi si ricorre all’artiglieria pesante: per tre mattine il medico somministra ad Adam una flebo di antibiotici. Se non funziona, proveranno un’altra cura. L’artiglieria pesante in Cina non è più così pesante: anche per un semplice raffreddore viene prescritta una terapia. In fondo gli antibiotici costano poco e funzionano quasi sempre.
Nel 2010 la Cina ha usato dieci miliardi di dosi di antibiotici contro i sei miliardi abbondanti degli Stati Uniti. Significa che i medici hanno prescritto antibiotici al 22 per cento dei pazienti. Per quelli ricoverati in ospedale la quota saliva al 68,9 per cento. Solo che i batteri si sono abituati ai farmaci e hanno trovato un modo di sopravvivere, così gli antibiotici non funzionano più. “È una crisi internazionale”, dice il professor Xiao Yonghong, specialista della materia. “Nel 2050 in Asia occidentale moriranno 473 milioni di persone all’anno per infezioni provocate da batteri resistenti agli antibiotici”, avverte. “La mancanza d’informazioni dai paesi a basso e medio reddito fa sì che non conosciamo con precisione le dimensioni del fenomeno, ma è chiaro che abbiamo un problema”, spiega Marc Sprenger, direttore del dipartimento dell’Organizzazione mondiale della sanità contro la resistenza agli antibiotici. “Il nodo del problema è in Africa e in Asia. I paesi con un sistema sanitario debole avranno le difficoltà maggiori”.
Xiao guida la battaglia in Cina. Ha stilato un piano d’azione per fare in modo, tra le altre cose, che i medici siano più cauti nella prescrizione di antibiotici. Dal 2010 la preparazione di medici e farmacisti è migliorata, vengono formati più microbiologi e le regole sulle prescrizioni sono diventate più severe. Ma l’economia alimenta le abitudini pericolose. Il dottor Yao, nel paesino di Xincheng, ha un ambulatorio di tre stanze. Dietro alle listelle di plastica che fanno da porta c’è un bancone dove il dottore vende i medicinali. Accanto, ci sono uno stanzino usato come studio e una sala d’aspetto con tre persone sedute. Un liquido marrone filtra dalle flebo. La penicillina dovrebbe dare sollievo, dice una donna con gli occhi umidi. “L’influenza non vuole saperne di passare”, sospira. Il fatto che i medici di famiglia, che in campagna sono anche farmacisti, abbiano un tornaconto se prescrivono un antibiotico è un problema in tutta la Cina. Negli ospedali solo un decimo della spesa sanitaria è coperto dal governo, il resto è a carico delle strutture. La nuova regola che proibisce di aggiungere un sovrapprezzo ai medicinali toglie la tentazione di venderne il più possibile, ma non è chiaro come faranno le autorità a controllare che la legge sia rispettata nelle zone più sperdute.
Altre vie
L’assunzione di antibiotici, in ogni caso, avviene anche attraverso altri canali. La Cina è il paese che usa più antibiotici negli allevamenti: 16mila tonnellate all’anno che potrebbero diventare 34mila nel 2030, molto più delle 10mila tonnellate degli Stati Uniti. I residui degli antibiotici finiscono nella carne e, attraverso gli escrementi, nelle falde acquifere. Nel 2013 tra il bestiame è comparso un batterio resistente alla colistina, un antibiotico molto usato negli allevamenti. Di recente il governo di Pechino ha deciso di vietarne l’uso sugli animali e non è chiaro per quanto il farmaco sarà efficace sulle persone (per i suoi effetti collaterali, la colistina è comunque poco impiegata). La Cina non è l’unico paese a dover affrontare il problema dell’uso degli antibiotici negli allevamenti. Ma è l’unico in cui si producono tutte le sostanze di base di questo tipo di farmaci e in cui c’è poco controllo sul trattamento delle sostanze di scarto. Eppure gli esperti sono relativamente ottimisti. Se non altro le autorità corrono ai ripari. E se i grandi ospedali cambieranno politica, anche gli ambulatori come quello del dottor Yao li seguiranno. Adam non è riuscito ad ambientarsi a Shanghai e si è ritrasferito dai nonni. E lo sfogo cutaneo è scomparso come neve al sole.
internazionale 11.3.18
Cina
Le due sessioni incoronano Xi
Il 3 e il 5 marzo a Pechino si sono aperte le cosiddette “due sessioni”, le riunioni annuali del congresso nazionale del popolo (il parlamento) e della conferenza politica consultiva del popolo cinese (il principale organo politico consultivo del paese). Il parlamento ratificherà alcune decisioni prese durante il congresso del Partito comunista cinese (Pcc) lo scorso ottobre, tra cui l’inclusione nella costituzione del “pensiero di Xi Jinping” e la linea del governo per i prossimi cinque anni, e approverà la rimozione del limite di due mandati alla presidenza. Questa misura, annunciata una settimana prima della sessione, apre la strada a un governo a tempo indeterminato di Xi Jinping. All’apertura del parlamento è stato annunciato un aumento dell’8,1 per cento della spesa militare, il più alto in tre anni. La notizia ha allarmato paesi vicini come Giappone e Taiwan, ma il China Daily ha replicato che si tratta di un aumento equilibrato.
internazionale 11.3.18
Le opinioni
La sinistra italiana guarda solo al passato
Di David Broder
La sconfitta del Partito democratico (Pd) in Italia è storica. Nel 2013 c’era stata una brutta sorpresa, quando il ritorno del berlusconismo e l’ascesa del Movimento 5 stelle avevano fatto sfumare le prospettive di vittoria del centrosinistra. Quella del 4 marzo però non è una sconfitta, ma una crisi. I social network sono pieni di considerazioni pessimiste, anche se esagerate, sul fatto che l’Italia è diventata “di destra al 70 per cento” . Pensando a quello che è successo in altri paesi europei, ci si potrebbe chiedere se le difficoltà attuali del Pd non siano un esempio locale di un fenomeno più vasto. Nei sondaggi in Germania i socialdemocratici della Spd sono dietro la formazione di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd) e perfino nei paesi scandinavi la socialdemocrazia è in difficoltà. La stampa dei paesi anglofoni parla di “pasokizzazione” della socialdemocrazia, riferendosi al crollo del Pasok, il partito socialista greco, sceso dal 44 per cento del 2009 al 4,7 per cento del 2015. Il Partito democratico resta il principale partito di centro in Italia e non rischia di essere inghiottito dalla sinistra radicale, com’è successo al Pasok. Inoltre il Pd, nato dallo scioglimento del Partito comunista, non sembra disposto a ispirarsi ai laburisti britannici di Jeremy Corbyn. Tutto fa pensare che resterà aggrappato alle sue ricette centriste, cercando di rimanere a galla. I guai del Pd nascono dal suo allontanamento dalla base. I partiti da cui proviene riuscivano a mobilitare il popolo di sinistra ma il Pd, a partire dalla crisi del 2008, è stato abbandonato dai giovani e dai lavoratori. O meglio li ha abbandonati. La disoccupazione giovanile alimenta la disperazione sociale, i valori della solidarietà non trovano più terreno fertile. Ed è in questo pantano che cresce la protesta. La crisi della sinistra italiana ha radici lontane nel tempo e nello spazio. La svolta neoliberista degli anni ottanta ha portato con sé l’esternalizzazione, la parcellizzazione del lavoro e l’atomizzazione della classe operaia, base storica della sinistra. Ma negli anni novanta e nei primi duemila i partiti di centrosinistra europei, mentre si spostavano sempre più verso il liberismo, sono riusciti a comprarsi gli emarginati con le politiche di welfare e l’aumento della spesa pubblica. Tuttavia per i lavoratori non specializzati le nuove parole d’ordine della socialdemocrazia, come “sogni” e “new economy”, erano solo chiacchiere. Negli anni novanta, diversamente che nel dopoguerra, i difensori degli oppressi hanno cominciato a raccogliere consensi tra gli elettori laureati. Dal 1991 il Pd-ex Ds-ex Pds ha cercato di importare questa “terza via” in Italia. Il partito nato negli anni novanta dalle correnti del Pci e dai naufraghi della Democrazia cristiana ha fatto sue le ricette di Tony Blair. Lo spauracchio del berlusconismo e il sistema maggioritario hanno permesso al centrosinistra di far entrare nella sua coalizione i potenziali avversari alla sua sinistra. Dal 2008 però è cominciato il disfacimento. Il mito del successo di Matteo Renzi alle europee del 2014, quando il Pd ha preso il 40 per cento, ha reso il partito cieco nei confronti dei danni che aveva fatto alla sua base. Parole d’ordine come quella della “disciplina nei conti pubblici” hanno fatto presa sugli elettori anziani del ceto medio, ma il Pd non ha offerto niente agli strati ben più numerosi della popolazione, i cui redditi venivano erosi dalla crisi. Nei dieci anni successivi la crisi economica ha favorito un pessimismo generale. Il caos istituzionale, l’arrogante indifferenza dei politici e la scelta di non proporre nessuna alternativa all’austerità hanno alimentato il disprezzo per la politica.
Il Movimento 5 stelle è un grido di rabbia, più che di speranza. Eppure ha preso il posto della sinistra: secondo l’istituto di sondaggi Ipsos, prima delle elezioni i cinquestelle avevano il 40,6 per cento dei consensi tra gli operai, il Pd solo il 13,6 per cento. Il Partito democratico non è stato solo “pasokizzato”. In Grecia gli elettori del Pasok si sono spostati verso Syriza. In Francia e in Spagna sono emerse formazioni nuove che rappresentano i giovani e i disoccupati. Nel Labour britannico, dopo una sida interna, è stato rovesciato il blairismo. In Italia rinnovamenti simili non si sono visti ed è difficile immaginare da dove possano venire. Le recenti sconfitte e l’eredità del passato pesano sulle formazioni a sinistra del Pd. Il Movimento 5 stelle, quando era all’opposizione, malgrado la sua mancanza di proposte è riuscito a esprimere un forte spirito antisistema, anche se condito con parole d’ordine reazionarie. La sinistra italiana guarda all’estero o al passato, ma mai al futuro. Per recuperare terreno non dovrebbe solo condannare il populismo “irresponsabile”, ma anche dare qualche speranza a chi lavora per cinque euro all’ora. Gli umiliati e offesi hanno subìto le conseguenze del caos già prima del 4 marzo: distanti dalla retorica del centrosinistra, sono stati attratti da altre sirene, da partiti che non li deridevano chiamandoli analfabeti, pigri o choosy (schizzinosi). Abbandonati e senza speranze, erano in una brutta situazione e hanno votato per dei brutti partiti.
internazionale 11.3.18
Le opinioni
L’autoritarismo della Cina non ci deve sorprendere
Di Pankaj Mishra
In una stagione di sconvolgimenti politici, il fatto che Xi Jinping stia acquistando un potere assoluto è riuscito a stupire molti esperti di Cina. L’Economist ha dichiarato con enfasi che “la scommessa sulla Cina fatta venticinque anni fa dall’occidente è fallita”. Invece di avanzare verso la democrazia, secondo questa teoria, Pechino sta scivolando ancora di più verso l’autoritarismo. Vale la pena di chiedersi, se non altro per evitare altri shock del genere in futuro, perché “l’occidente” abbia deciso di scommettere sulla Cina. La speranza che la Cina si potesse integrare pacificamente in un ordine globale modellato dall’occidente, cambiando radicalmente durante questo processo, è sempre stata un’illusione. In un articolo del 1997 sul passaggio di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina, l’opinionista del New York Times Nicholas Kristof si chiese se Pechino non stesse ereditando un “colossale cavallo di Troia” che in seguito avrebbe fatto cadere il suo regime. Nel gennaio del 2013 Kristof prevedeva che Xi Jinping avrebbe avviato grandi riforme politiche ed economiche, tra le quali la rimozione del corpo di Mao Zedong dal suo mausoleo in piazza Tiananmen. Non erano solo i giornalisti a mostrare una fede quasi religiosa nella speranza che la Cina potesse redimersi con la democrazia e il libero mercato. Per convincere l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) a far entrare la Cina nelle sue ile, nel 1997 Bill Clinton dichiarò che la liberalizzazione del sistema politico cinese era “inevitabile come inevitabile era stata la caduta del muro di Berlino”. Chi ha sbagliato opinione su Xi Jinping in maniera così evidente almeno può sostenere che non si sapeva molto su di lui prima che diventasse leader del paese. Ma ci sono meno scuse per chi non ha capito la semplice lezione che viene dalla storia della Cina contemporanea: tutti i regimi cinesi, dal crollo della monarchia Qing nel 1911, hanno consolidato la sovranità nazionale per poi inseguire in modo febbrile la ricchezza e il potere con tutti i mezzi necessari. Non è mai stato un segreto che il Partito comunista cinese (Pcc) nacque dall’evento politico fondante del 1919, il movimento studentesco del 4 maggio. Il Pcc si nutrì, alimentandolo a sua volta, di un sentimento popolare diffuso: la Cina aveva subìto un’ingiustizia (con il trattato di Versailles, alla fine della prima guerra mondiale), era stata disonorata dalle potenze occidentali e doveva ricostruire la sua autorevolezza. L’antioccidentalismo di Mao poteva essere considerato la strategia opportunistica di un megalomane. Ma anche il suo successore, il riformista Deng Xiaoping, insisté su questo e fece mettere manifesti in tutto il paese con la sua immagine e la frase: “Il nostro paese deve svilupparsi. Se non ci svilupperemo, verremo umiliati”. La Cina ha raggiunto lo sviluppo, al punto che oggi si pensa sia lei a prevaricare sulle aziende e i governi stranieri piuttosto che il contrario. In questo la Cina non fa che confermare la stessa logica geopolitica di cui un tempo era la vittima. Quello che dovrebbe sorprenderci ancora di meno è il crescente autoritarismo della Cina, il fatto che lo sviluppo economico non sia stato accompagnato dall’avvento della democrazia. Come scriveva negli anni cinquanta il filosofo francese Raymond Aron, “nessun paese europeo sotto un regime rappresentativo e democratico è mai passato dalla fase di crescita economica che stanno vivendo oggi l’India e la Cina”. In realtà all’inizio del novecento in paesi in ascesa come il Giappone e la Germania la democrazia fu stroncata dai gravi problemi dello sviluppo moderno, peggiorati dalle successive crisi economiche globali. L’arrivo di masse sradicate nelle aree urbane, la crescita non uniforme e le disuguaglianze contribuiscono ad alimentare l’autoritarismo. Oggi i leader di grandi paesi che in passato si sono sentiti trascurati, come l’India e la Cina, cercano di recuperare terreno sui vincitori della storia. Usano le idee e le tecnologie dei paesi occidentali e potrebbero perfino adottare una parte della loro ideologia. Ma sono legati ai propri programmi politici, e il destino delle loro società alla fine verrà determinato dalle contraddizioni sociali ed economiche più che dalle illusioni degli osservatori stranieri. La storia inoltre ci dimostra in modo allarmante che, intrappolati nella loro stessa retorica, i regimi autoritari tendono a inasprirsi. È così che la Germania e il Giappone finirono per dichiarare guerra al loro partner commerciale più stretto, gli Stati Uniti. Meglio non farsi illusioni: il mondo era un luogo pericoloso molto prima che Xi Jinping diventasse il leader supremo della Cina e Donald Trump cominciasse ad annunciare guerre commerciali. I pericoli non si vedevano a causa dell’intossicazione ideologica e dell’amnesia storica creata dal crollo dell’Unione Sovietica e da quello dei regimi dell’Europa orientale. Si credeva che la storia dovesse muoversi verso il capitalismo e la democrazia occidentale. La stretta sul potere di Xi ci ricorda che è arrivato il momento di mettere da parte le illusioni e di fare i conti con la realtà.
internazionale 11.3.18
Stati Uniti
I codici non scritti della Silicon valley
Di Sheelah Kolhatkar, The New Yorker, Stati Uniti
Le aziende tecnologiche sono associate all’innovazione e alla modernità. In realtà sono dominate dal sessismo e dalle discriminazioni di genere. Ma da qualche anno un gruppo di donne sta cercando di cambiare le cose
Un giorno del 2013 AJ Vandermeyden è arrivata alla sede centrale della Tesla a Palo Alto, in California, si è seduta su una panchina davanti all’ingresso principale e si è messa ad aspettare, nella speranza d’incontrare qualcuno che sembrasse un dipendente dell’azienda. Vandermeyden aveva trent’anni e lavorava come rappresentante farmaceutica, ma voleva fare un lavoro diverso in quello che per lei era il centro del mondo: la Silicon valley. Sapeva che Elon Musk, eccentrico e ambizioso cofondatore della Tesla, che produce automobili elettriche, possedeva anche una serie di aziende per la ricerca sui voli nello spazio e l’energia solare. Vandermeyden ne era affascinata. La Tesla stava crescendo rapidamente e offriva ai dipendenti molte opportunità per fare carriera. Come ripeteva sempre Musk, l’azienda si fondava sulla “meritocrazia”, e Vandermeyden voleva farne parte. Ha visto un uomo che indossava una maglietta con la scritta “Tesla” e gli si è avvicinata per presentarsi. Quando ha scoperto che lavorava nel reparto vendite, proprio quello che le interessava, ha deciso di fargli subito il discorsetto che si era preparata. Lui è sembrato colpito dalla sua faccia tosta. Qualche settimana dopo Vandermeyden è stata assunta come specialista di prodotto nel reparto vendite interno. All’inizio le cose andavano benissimo. Dopo un anno Vandermeyden è stata promossa a coordinatrice di progetto nel reparto vernici. Il nuovo incarico prevedeva che andasse a lavorare nella fabbrica di Fremont, in California, dove centinaia di bracci automatici rossi assemblavano le auto della Tesla in un capannone bianco. Il ronzio dei robot in movimento dava la sensazione di vivere in un futuro fantascientifico. Ma c’era qualcosa nel modo in cui le persone si comportavano che sembrava decisamente primitivo, e profondamente sbagliato. Vandermeyden, che lavorava a stretto contatto con altri otto dipendenti, ha scoperto subito che il suo stipendio era più basso di quello di tutti gli altri, compresi alcuni nuovi assunti appena usciti dall’università. Lei era l’unica donna del gruppo. I suoi capi erano uomini e tutta la catena di comando, fino allo stesso Musk, era formata da uomini. Alla Tesla, come in molte aziende tecnologiche, le battute volgari erano diffuse anche tra alcune donne. La sensazione era che i dirigenti non avessero idea dei problemi che le donne dovevano affrontare nell’azienda. Un’ex dipendente mi ha detto che erano meno del 10 per cento nel suo gruppo di lavoro. A un certo punto c’erano più uomini di nome Matt che donne. Vandermeyden lavorava duramente. Quando si è sparsa la voce che aveva lavorato per 26 ore di seguito a un progetto, un dirigente del reparto assemblaggio l’ha convinta a entrare nella sua squadra. Ha cominciato a indossare stivali con la punta di ferro e occhiali protettivi. Notava che a volte, quando una donna attraversava certi reparti della fabbrica, gli uomini fischiavano e facevano commenti offensivi. Le colleghe la chiamavano la “zona dei predatori”. Nel luglio del 2015, tre mesi dopo che Vandermeyden era entrata nella squadra, molti dei suoi colleghi sono stati promossi. Aveva l’impressione che presto anche lei avrebbe avuto una promozione e un aumento, ma secondo i documenti presentati in tribunale non ha ottenuto nessuna delle due cose. Ha scritto una prima email al suo capo, elencando tutto quello che aveva fatto e ricordandogli che i giudizi su di lei erano sempre stati positivi. Lui non ha preso sul serio le sue osservazioni, così Vandermeyden ha cominciato a mandare email anche all’ufficio risorse umane. Ha preso un appuntamento con il capo del suo capo, che lo ha annullato all’ultimo momento, subito prima di partire per due settimane di vacanza. Due mesi dopo Vandermeyden ha avuto finalmente una risposta dai dirigenti: per avere un aumento, le hanno detto, avrebbe dovuto aumentare la sua produttività del cento per cento entro un anno. Secondo Vandermeyden era un obiettivo assurdo e irraggiungibile, e non ha potuto fare a meno di pensare che l’azienda sperasse in un suo fallimento per poterla licenziarla. Così ha deciso di chiamare un avvocato. Il 20 settembre del 2016 ha citato in giudizio la Tesla, accusando l’azienda di discriminazione di genere, ritorsione e altre violazioni dei diritti dei lavoratori.
Potere asimmetrico
Dall’ottobre del 2017, quando decine di donne hanno denunciato di essere state molestate dal produttore cinematografico Harvey Weinstein, il problema degli abusi sessuali e delle discriminazioni di genere è al centro del dibattito pubblico. Dopo aver taciuto per molto tempo, le donne si stanno facendo avanti e stanno accusando molti uomini di potere. Buona parte degli abusi denunciati riguarda l’ambiente dello spettacolo, che sembra strutturato in modo da facilitare lo sfruttamento delle donne, con generazioni di giovani attrici in cerca di successo in un ambiente controllato da produttori e registi maschi. Ma l’ondata di denunce in altri ambiti, dalle università alle amministrazioni locali e alle aziende, ha dimostrato che negli Stati Uniti sono molti i settori lavorativi con dinamiche simili a quelle di Hollywood. Dopo le rivelazioni su Weinstein e altri personaggi pubblici – storie terribili di stupri e molestie, che tutti gli accusati hanno smentito – al confronto questioni come la disparità salariale possono sembrare poco importanti. Ma anche se non sono gravi come i reati commessi da Weinstein, sono problemi creati da uomini come lui. È lo squilibrio di potere e di stipendi che mette gli uomini in condizione di molestare, che garantisce un controllo illimitato sulla vita economica delle donne e, di conseguenza, influisce sulla loro vita materiale. Queste forme più sottili di discriminazione, che quasi tutte le donne conoscono bene, possono essere particolarmente pericolose, perché per le aziende, e anche per le vittime, è più facile minimizzarle. Il problema è particolarmente evidente nel settore tecnologico. Nel 2015 un gruppo di investitrici e dirigenti della Silicon valley ha condotto un’indagine su duecento donne che occupavano posizioni di rilievo nelle aziende tecnologiche. Lo studio, intitolato “L’elefante nella valle”, ha dimostrato quanto siano comuni le discriminazioni e quanto siano intrecciate tra loro. Nell’84 per cento dei casi le donne hanno dichiarato di essere state giudicate “troppo aggressive”, nel 66 per cento di essere state escluse da eventi importanti in quanto donne e nel 60 per cento di aver ricevuto avance indesiderate in ufficio. Il più delle volte a fare le avance erano i loro superiori, e un terzo delle donne ha espresso preoccupazione per la propria sicurezza personale. Quasi il 40 per cento ha detto di non aver mai denunciato gli incidenti per timore di ritorsioni. “Gli uomini che umiliano, mortificano o mancano di rispetto alle donne hanno potuto continuare a farlo impunemente, non solo a Hollywood, ma anche nel settore della tecnologia, della finanza e in altri campi in cui la loro influenza e i loro investimenti possono creare o distruggere una carriera”, mi ha detto Melinda Gates, che dirige insieme al marito la Bill & Melinda Gates foundation. “L’asimmetria di potere facilita gli abusi”.
Nella Silicon valley i problemi sono in parte dovuti al fatt0 che gli uomini sono molto più numerosi delle donne. Da vari studi risulta che le donne sono solo un quarto dei dipendenti e l’11 per cento dei dirigenti del settore. Naturalmente esistono da sempre luoghi di lavoro a maggioranza maschile conosciuti per questo tipo di comportamenti, dal mondo della finanza a quello della pubblicità. Ma il settore tecnologico si differenzia dagli altri anche perché si presenta come il regno degli innovatori instancabili che vogliono migliorare il mondo. Lo slogan di chi lavora nella Silicon valley, preso dal codice di condotta di Google, è “non essere malvagio”. Per molti aspetti l’industria tecnologica rappresenta il futuro: ha attirato una generazione di ingegneri promettenti , scienziati e programmatori e li ha pagati profumatamente, permettendogli di condizionare le idee e i valori degli Stati Uniti. Per questo è preoccupante osservare che molte di queste aziende e dei loro amministratori delegati hanno creato una cultura interna che, almeno per le molestie sessuali e le disparità di genere, somiglia a quella del mondo della pubblicità degli anni sessanta, senza le cravatte strette e i pranzi a base di Martini. La situazione alla Tesla dimostra che un’azienda dominata dagli uomini – anche se fortemente innovativa – può dare alle donne la sensazione di essere impotenti. Quando Vandermeyden ha presentato la sua denuncia, a poco a poco la voce si è diffusa in tutta l’azienda. Qualche mese dopo è partita un’email indirizzata a tutte le dipendenti della Tesla con un invito a un evento per festeggiare la giornata internazionale della donna. All’evento hanno partecipato vicepresidenti e alti dirigenti, tra i quali c’era solo una donna. L’atmosfera si è fatta subito tesa. Alcune ingegnere hanno cominciato a parlare di parità salariale chiedendo che l’azienda rendesse pubblici gli stipendi degli uomini e delle donne. Una dipendente di nome Justine ha annunciato: “Presto lascerò la Tesla per via delle condizioni di lavoro. Guardando i nostri capi in prima fila, vedo solo maschi bianchi”. Un’altra donna ha raccontato di un evento a cui aveva partecipato anche Musk. “Avrebbe dovuto parlare di iniziative contro la discriminazione e le molestie, ma ha abilmente aggirato il problema. Non ha detto: ‘Le molestie sono sbagliate, la discriminazione è sbagliata’. Ha fatto salire sul palco una serie di persone e ha detto: ‘Se v’impegnerete sul serio, ci riuscirete’”. Il moderatore dell’incontro ha letto i commenti delle dipendenti della Gigafactory, una fabbrica del Nevada che produce batterie per le auto. Le donne si lamentavano di non sapere come denunciare i casi di molestie. Ad alcune era stato consigliato di chiamare un numero di telefono dedicato, al quale però rispondeva una segreteria telefonica. A quanto ne sapevano, nessuno ascoltava mai i messaggi. Il 29 maggio 2017 Vandermeyden è stata invitata a un incontro con Gabrielle Toledano, la nuova direttrice del personale della Tesla, per parlare di come migliorare la condizione delle donne. Per lo meno era quello che si aspettava Vandermeyden. Quando è arrivata al colloquio, Toledano ha esordito dicendo: “Ti faccio vedere quello che ho preparato”. Era una proposta di buonuscita. “Se firmi questa, non ti rovinerai la vita con una causa”. Ha aggiunto che, se avesse collaborato, Musk avrebbe inviato un’email a tutto il personale in cui comunicava che lei lasciava l’azienda, e la Tesla l’avrebbe aiutata a trovare un altro lavoro. Vandermeyden era sbalordita. Non aveva fatto niente di male e non se ne sarebbe andata. “La Tesla è la mia vita”, ha detto a Toledano. Per tutta risposta è stata licenziata. La Tesla sostiene di aver indagato sulle rivendicazioni della donna: “Dopo aver esaminato con cura i fatti in diverse occasioni ed esserci convinti che non aveva alcun diritto di fare rivendicazioni, non avevamo altra scelta che interrompere il rapporto con lei”, ha detto un portavoce. L’avvocata di Vandermeyden, Therese Lawless, titolare con la sorella dello studio Lawless & Lawless di San Francisco, sostiene che è illegale licenziare chi denuncia i comportamenti scorretti del proprio datore di lavoro, ma è un tipo di ritorsione molto comune contro le donne che si lamentano di essere discriminate. “È il messaggio che ti manda l’azienda se parli. Per questo la gente ha paura”, dice Lawless. Vandermeyden, aggiunge, è stata “un agnello sacrificale”.
I figli di Wall street
Dal punto di vista giuridico il concetto di molestie sessuali negli Stati Uniti è nato negli anni settanta, quando due donne afroamericane fecero causa ai loro capi bianchi e costrinsero i tribunali a prendere atto del problema. Negli anni novanta furono presentate molte denunce contro banche e società d’investimento di Wall street, come la Morgan Stanley e la Merrill Lynch, che pagarono risarcimenti per milioni di dollari. Sembra che una filiale della Smith Barney, che poi sarebbe stata acquistata dalla Morgan Stanley, avesse nel seminterrato una “stanza bum bum”, dove i broker festeggiavano i compleanni con delle spogliarelliste. Inoltre le donne erano pagate meno e avevano otto volte meno probabilità di essere promosse al ruolo di broker. Più di duemila donne parteciparono alla causa contro la compagnia e alla ine la Smith Barney dovette sborsare 150 milioni di dollari. A Wall street continuano a emergere nuove accuse – a ottobre c’è stata una denuncia per molestie sessuali contro la Fidelity Investments, e una per discriminazione contro la Goldman Sachs – ma la maggior parte delle grandi banche e degli studi legali alla fine ha adottato delle misure che hanno eliminato almeno i comportamenti più oltraggiosi. Oggi la Silicon valley ha preso il posto di Wall street come centro di ricchezza e potere. E, come Wall street, fin dall’infzio è stata dominata dagli uomini. È sempre prevalso un atteggiamento tollerante verso i comportamenti sessisti, e il modello commerciale del settore tecnologico contribuisce ad aggravare il problema. Spesso all’inizio le startup sono formate da un piccolo gruppo di giovani imprenditori che lavorano insieme in una stanza, senza regole precise. Quando cominciano, non hanno un reparto risorse umane, quindi nessuno si occupa di ascoltare eventuali reclami. E l’enfasi degli investitori sulla “crescita a qualsiasi costo” spesso porta le startup e i consigli di amministrazione a ignorare i problemi che nascono sul luogo di lavoro – oltre ad altri illeciti più gravi – purché il valore della società continui a crescere. L’opinione pubblica ha cominciato a rendersi conto delle difficili condizioni delle donne nel settore tecnologico nel 2014, quando è scoppiato il cosiddetto Gamergate: molte donne che lavoravano nel settore dei videogiochi, tra cui la giornalista Anita Sarkeesian, sono state violentemente attaccate online. Dei molestatori anonimi hanno reso pubblici i loro indirizzi e altre informazioni personali, minacciandole di morte e di stupro. Sarkeesian lo ha definito “un tentativo organizzato e concertato di rovinare” la loro vita. Alcune delle donne sono state costrette a nascondersi. Quello stesso anno Whitney Wolfe, una delle fondatrici di Tinder, ha fatto causa a uno dei fondatori dell’azienda, che aveva frequentato per un periodo, accusandolo di molestie. All’epoca Wolfe aveva 24 anni. L’amministratore delegato, che era il migliore amico dell’accusato, ha costretto Wolfe a dimettersi. Sembra che in un messaggio l’ex fidanzato, preoccupato che lei vedesse qualcun altro, avesse scritto: “Preferisci fartela con un maiale musulmano di mezza età per fare carriera”. L’uomo è stato assolto, e oggi Wolfe è amministratrice delegata di Bumble, un’app di incontri. Il problema della discriminazione è tornato alla ribalta nel febbraio del 2017, quando Susan Fowler, che aveva lavorato per Uber, ha raccontato sul suo sito l’esperienza nell’azienda, descrivendo le avance sessuali del suo capo. Era andata all’ufficio risorse umane con le registrazioni delle chat che dimostravano le molestie, dando per scontato che l’uomo sarebbe stato punito. Invece “gli alti dirigenti” le avevano detto che il suo molestatore era un “collaboratore prezioso” e quindi lei avrebbe dovuto trovarsi un altro gruppo con cui lavorare nell’azienda, oppure restare con lui. Poi avevano minacciato di licenziarla per essersi lamentata. Più tardi aveva conosciuto altre dipendenti con storie simili alla sua. Alcune, ha scritto Fowler, erano state molestate dalla stessa persona. Il racconto di Fowler ha fatto partire un’inchiesta all’interno dell’azienda, condotta dall’ex ministro della giustizia Eric Holder. A giugno Uber aveva già licenziato venti dipendenti e ne aveva punite altre quaranta, ma sull’onda dello scandalo e di altri problemi Travis Kalanick, cofondatore e amministratore delegato dell’azienda, è stato costretto a dimettersi. “Naturalmente sono indignata, ma non così sorpresa”, dice Melinda Gates. “Le uniche persone che non sapevano cosa stesse succedendo nella Silicon valley erano quelle che facevano di tutto per non vedere. Non credo che esista una donna con esperienza di lavoro nel mondo della tecnologia che non abbia subìto qualche tipo di molestia, me compresa”.
Il caso scuola
Quasi ogni volta che nella Silicon valley si parla di molestie e discriminazioni, tutti citano un caso particolare: il processo del 2015 in cui era coinvolta Ellen Pao. Non era lei a essere sotto accusa, ma osservando la vicenda da lontano sembrava che lo fosse. Era una ex socia della Kleiner Perkins Cauield & Byers, una delle più influenti società di investimenti della Silicon valley, tra le prime a investire in Amazon e in Google.
Pao accusava l’azienda di alimentare un sessismo, sia palese sia dissimulato, che aveva ostacolato la sua carriera. Sosteneva anche che i dirigenti avevano ignorato il comportamento di un socio che aveva molestato diverse dipendenti, lei compresa. Durante un viaggio di lavoro si era presentato nella stanza di una collega indossando solo un accappatoio, e le aveva fatto delle avance. Pao aveva avuto una breve relazione con lui prima di sposarsi e, quando l’aveva interrotta, l’uomo si era vendicato. Quando lei e altre donne si erano lamentate, un socio anziano aveva detto scherzando che le donne avrebbero dovuto essere “lusingate” dalle sue attenzioni. La Kleiner Perkins ha smentito le accuse e le ha contestate in tribunale. Incontro Pao nel ristorante dell’hotel Four Seasons, nel centro di San Francisco. È presto, intorno alle sei di sera, e il ristorante, uno dei ritrovi preferiti di investitori e fondatori di aziende tecnologiche, è quasi vuoto. Pao è vestita in modo informale, pantaloni kaki e maglietta blu, e mentre parliamo siede dritta con le mani in grembo. Mi racconta che quando è entrata nel settore, alla fine degli anni novanta, gli uomini erano molto più numerosi delle donne, ma l’atmosfera non era così aggressiva e non c’era l’ossessione per i soldi che c’è oggi. Molti dei primi investitori e imprenditori erano “sempliciotti” uniti dalla “comune passione per la tecnologia”. L’ambiente è cambiato, afferma Pao, quando le prime società di capitale di rischio hanno cominciato a investire nella tecnologia. “Erano tutti maschi bianchi che si erano laureati nelle stesse università d’élite”, afferma. “E volevano investire in nuove società fondate da persone che conoscevano, o che erano come loro”. Questo ha dato vita a un sistema di assunzioni e investimenti che alcuni chiamano il “modello Gates, Bezos, Andreessen o Google”, e che qualche tempo fa Melinda Gates ha definito così: “Formato da maschi bianchi e nerd che non sono riusciti a laurearsi a Harvard o Stanford”. Negli anni le cose non sono molto migliorate: da due studi recenti è emerso che nel 2016 solo il 7 per cento dei soci delle società di capitale di rischio erano donne e solo il 2 per cento dei finanziamenti arrivava alle donne imprenditrici. Secondo Pao c’è stato un altro fatto, avvenuto nel 2012, che ha contribuito a quel cambiamento: la quotazione in borsa di Facebook per una cifra superiore a cento miliardi di dollari, che ha confermato l’idea che la Silicon valley sia un posto in cui si può fare fortuna in poco tempo. Le aziende tecnologiche hanno cominciato a fare concorrenza alle banche e ai fondi d’investimento per accaparrarsi i laureati più ambiziosi. “Sono arrivati i laureati delle grandi università, e la cultura è cambiata”, dice. “C’era semplicemente un’atmosfera diversa. La gente parlava più delle cose fantastiche che aveva fatto che dei prodotti a cui stava lavorando”. Il libro scritto da Pao, Reset: my fight for inclusion and lasting change (reset: la mia battaglia per l’inclusione e un cambiamento duraturo), è una critica sarcastica alla cultura dei soldi che governa quel mondo. Alla Kleiner Perkins “i dirigenti erano in lotta tra loro per avere sempre di più: più posti in consiglio di amministrazione, più case, più terreni e sempre più aerei”. Sognavano di possedere squadre di basket, di diventare produttori di Hollywood e di “avere un jet per poter fuggire in Nuova Zelanda” (nel caso di un innalzamento del livello dei mari, di una pandemia o di una rivolta dei lavoratori). In quell’ambiente, sostiene Pao, pochi si rendevano conto del fatto che i guardiani dell’industria stavano rendendo dificile, se non impossibile, l’accesso a persone estranee. “È un circolo vizioso, e ci hanno costruito intorno una cultura. Come fai a spezzarlo?”, dice Pao. “Aggiungerci un gruppetto di donne non è sufficiente a cambiare le cose”. Pao ha perso la causa. Ma il processo ha comunque portato alla luce il problema. Altre donne che lavorano nel settore le hanno scritto per ringraziarla e raccontare le loro storie. Durante il processo due donne hanno fatto causa per discriminazione a Facebook e a Twitter, e i giornalisti hanno cominciato a parlare dell’“effetto Pao”. Tuttavia, la sua esperienza fa capire perché raramente le donne sporgano denuncia contro le molestie. “Non lo augureresti neanche al tuo peggior nemico, è un’esperienza orribile”, dice Pao. “Ti prosciuga, dal punto di vista sia emotivo sia economico”. Joelle Emerson, un’avvocata dei diritti delle donne dirigente della Paradigm Strategy, una società che offre alle aziende consulenze sul rispetto delle diversità, dice di aver notato una particolare riluttanza a fare causa “tra le professioniste che hanno veramente voglia di fare carriera. Sanno bene quali conseguenze negative ci possono essere”. Pao, che all’epoca del processo era amministratrice delegata ad interim di reddit, ha ricevuto critiche e molestie online, anche perché alcuni utenti di reddit non condividevano le sue scelte, compresa la decisione di bloccare i post pornografici vendicativi. Quattro mesi dopo il verdetto è stata costretta a dimettersi. I silenzi di Google Intanto l’industria tecnologica continua ad alzare barriere contro le azioni legali. Da una recente ricerca dello studio legale Carlton Fields Jorden Burt è emerso che negli ultimi anni nella Silicon valley c’è stato un enorme aumento dell’uso delle clausole di arbitrato nei contratti di assunzione. Si tratta di una strategia legale introdotta dalle società di Wall street e prevede che le dispute su temi come le molestie siano affrontate con un arbitrato invece che portate in tribunale. L’arbitrato non è aperto al pubblico e generalmente favorisce i datori di lavoro. Le aziende hanno anche cominciato a stipulare accordi di riservatezza con i loro dipendenti. Apparentemente servono a proteggere il segreto aziendale, ma in alcuni casi sono così restrittivi che impediscono ai dipendenti di confrontare gli stipendi o di parlare in pubblico delle loro esperienze di lavoro. Un ex dipendente di Google mi ha detto: “Vorrei che ci fosse una moratoria di 24 ore sugli accordi di riservatezza. Scatenerebbe un terremoto in tutta l’industria tecnologica”. Therese Lawless, che oltre a rappresentare AJ Vandermeyden è stata una delle avvocate di Pao, sostiene che le strategie per limitare il diritto dei dipendenti a fare reclami sono particolarmente dannose per le donne e le minoranze: “È così che tengono fuori i sindacati. Ed è così che mettono a tacere le donne e gli impediscono di parlare dei loro stipendi”. Lawless sostiene che queste misure hanno portato molte aziende tecnologiche a pensare di poter fare tutto quello che vogliono. “Stanno lentamente cancellando tutti i progressi che il movimento dei lavoratori ha fatto nel corso degli anni con la scusa che ‘questa è la California e qui tutto è così fico’”.
Non è una coincidenza se i primi processi per discriminazione sessuale, e anche molti dei nuovi processi contro le aziende tecnologiche, sono partiti dalle denunce di donne non bianche. Il problema delle disparità razziali è spesso legato in modo inestricabile a quello delle disparità di genere e le donne delle minoranze sono spesso vittime sia del razzismo sia del sessismo. Dopo anni di pressioni pubbliche, nel 2014 Google ha reso noti i dati sulla composizione del suo personale. Nel settore tecnico le donne erano solo il 17 per cento, gli ispanici il 2 per cento e i neri l’1 per cento. Nel suo terzo rapporto sulla diversità, pubblicato a giugno del 2017, le percentuali erano leggermente migliorate, passando a 20, 3 e 1 per cento rispettivamente. Erica Joy Baker, ingegnera e alta dirigente della piattaforma per artisti Patreon, ha lavorato a Google dal 2006 al 2015 e ha chiesto pubblicamente più diversità nell’azienda. Baker, che è afroamericana, racconta che ad avere le maggiori opportunità lavorative erano solo i dipendenti di un certo tipo. “Per tutta la mia carriera a Google la storia è stata sempre la stessa: ‘Lo so che vorresti lavorare su questa cosa, ma affideremo il compito a un maschio bianco. Mi dispiace, ma gli permetteremo di passarti avanti’. Era molto frustrante”. A un certo punto Baker lavorava in un gruppo che ofriva supporto tecnico agli alti dirigenti di Google. Un giorno, nel 2008 o 2009, il suo collega, un uomo di nome Frank, non era in ufficio e lei era seduta nella loro stanza da sola. Eric Schmidt, l’amministratore delegato di Google, è entrato perché aveva bisogno di aiuto e le ha chiesto dove fosse Frank. Baker gli ha detto: “Non c’è, posso fare qualcosa per lei?”. Schmidt le ha risposto di lasciare un messaggio a Frank spiegandogli qual era il problema tecnico, un problema che lei era perfettamente in grado di risolvere. “Gli ho detto: ‘Posso occuparmene io’. E lui ha risposto: ‘Ah, lei non è la sua assistente?’”. Poi le ha consigliato di mettere un cartello sulla porta per specificare quale fosse il suo ruolo, anche se nessun ufficio aveva quel tipo di cartelli. Gli alti funzionari di Google spesso la confondevano con l’unica altra donna nera che svolgeva un lavoro tecnico nella sua squadra. “Per gioco ci chiamavamo le gemelle, anche se non ci somigliavamo per niente”. L’impressione di Baker era che molti dei suoi colleghi non riuscissero a “distinguere tra due donne di colore completamente diverse” (Google non ha voluto fare commenti su questo incidente).
All’inizio del 2017 il dipartimento del lavoro statunitense ha condotto un primo controllo sulla politica salariale di Google e ha scoperto, secondo una testimonianza rilasciata in tribunale ad aprile, “sistematiche disparità salariali a svantaggio delle donne a quasi tutti i livelli”, dimostrando, ha detto un funzionario, che in quasi tutte le categorie c’erano varie differenze statisticamente rilevanti tra il salario degli uomini e quello delle donne. Ma Google si è sempre rifiutata di mostrare le cifre complete dei salari al dipartimento e, dopo che il governo glielo ha imposto, ha lottato in tribunale per mesi, sostenendo che la richiesta era un’imposizione irragionevole. In un comunicato l’azienda ha dichiarato che dalla sua indagine interna non era emersa nessuna disparità, ma il giudice ha ordinato di consegnare altri dati entro luglio. A settembre tre donne hanno presentato una causa collettiva a nome di tutte le dipendenti dell’azienda, accusando i vertici di “segregarle” nelle posizioni che prevedono un salario più basso e di pagarle meno dei loro colleghi che fanno “sostanzialmente lo stesso lavoro” (in un comunicato Google ha respinto quest’accusa).
Ci sono state cause collettive basate sulla discriminazione di genere anche contro Twitter, Microsoft e Uber. Nel 2016 la Qualcomm ha risolto una causa ancora prima che fosse discussa, pagando quasi venti milioni di dollari di risarcimenti. Nel 2017 il dipartimento del lavoro ha citato in giudizio per discriminazione anche la Oracle (la causa è in corso).
Al bar dell’albergo
Più o meno la metà delle donne che entrano nel settore della tecnologia alla fine lo abbandona, più del doppio degli uomini. Secondo uno studio del 2017, la perdita di donne e persone appartenenti alle minoranze costa alla Silicon valley più di 16 miliardi di dollari all’anno. Lo stesso studio ha dimostrato che, in circa il 60 per cento dei casi, le impiegate che erano state molestate sessualmente avevano preso la decisione di cambiare lavoro anche per quel motivo. Secondo un altro studio, le principali differenze tra le esperienze delle dipendenti che se ne vanno e quelle delle dipendenti che rimangono sono legate alla loro percezione negativa dell’ambiente lavorativo in termini di correttezza e opportunità. La prospettiva di una corsa a ostacoli per fare carriera può essere particolarmente scoraggiante per una generazione di donne che, come Kathryn Minshew, fondatrice del sito The Muse, “è stata cresciuta da genitori che l’hanno convinta di poter fare qualsiasi cosa”. Per anni non aveva mai preso sul serio l’idea che essere donna fosse uno svantaggio dal punto di vista professionale. E quando la McKinsey & Company, la società di consulenza con cui ha cominciato a lavorare, ha organizzato un reclutamento alla Duke university che comprendeva anche un pranzo per sole donne, ha pensato che fosse una cosa paternalistica e inutile. Ma presto ha cambiato idea. “All’epoca ero ingenua”, dice, “ma appena entrata nel mondo del lavoro mi sono subito resa conto che le donne sono percepite in modo diverso dagli uomini”. Alla McKinsey le è apparso subito chiaro che per alcuni clienti “ero lì solo per portare il caffè, mentre i ragazzi erano tutti geni della matematica e maghi della tecnologia”. Nel 2011 Minshew ha contribuito a fondare The Muse, che inizialmente mirava a dare alle donne che cominciavano la loro carriera consigli su questioni di vario tipo: da come chiedere un aumento a come cavarsela con i capi. Le teorie più diffuse su questi temi si basavano su quello che funzionava per gli uomini, mentre Minshew pensava che molte delle regole che valevano per gli uomini non andassero bene per le donne. Minshew e le sue socie hanno cominciato a cercare finanziamenti per la nuova azienda, cosa che riusciva con relativa facilità a molti dei loro compagni di università che erano diventati imprenditori. “Quello è stato un momento rivelatore del sessismo e dei pregiudizi di genere nel mondo della tecnologia”, dice. “Coprivano una gamma di atteggiamenti che andava dalle proposte sessuali esplicite ai commenti e agli atteggiamenti paternalistici nei miei confronti perché ero una donna”. Mi ha raccontato di un appuntamento con un investitore che all’ultimo minuto aveva spostato l’incontro nel bar del suo albergo. Avevano ordinato da bere e avevano parlato del suo progetto. “Eravamo lì seduti e improvvisamente lui era molto vicino a me”, dice. Si era ritrovata incastrata tra la fine del divano e il corpo dell’uomo piegato su di lei. Era chiaro che non era più un incontro di lavoro, e se n’era andata molto agitata. “È strano, perché se mi avessero chiesto cosa avrei fatto in quella situazione, avrei risposto che sarei stata molto più aggressiva e decisa”, dice. “Ma poi è successo a me…”. La legge di Al Capone Minshew mi ha detto che la reazione dei suoi amici che lavoravano nel settore le aveva dato la sensazione che fosse inutile denunciare l’incidente. “Quando il giorno dopo l’ho raccontato a molti imprenditori maschi, l’atteggiamento generale è stato: ‘Cosa ti aspettavi? Sei una bella ragazza ed è naturale che quelli cerchino tutti di saltarti addosso’”. La loro reazione era stata “doppiamente demoralizzante”. Si era anche resa conto che fino a quel momento pochissimi investitori avevano avuto a che fare con imprenditrici donne e alcuni non sapevano come comportarsi. Anche se molti incontri erano stati positivi, gli investitori spesso non riuscivano a concepire un’azienda che si rivolgesse alle donne che già lavoravano a tempo pieno. Continuavano a dirle che la sua azienda sarebbe fallita appena le donne che usavano l’app avessero superato i trent’anni e avessero cominciato ad avere figli. Molte delle loro mogli non lavoravano, e questo le appariva come una prova del fatto che la loro teoria era corretta. Spesso, ricorda, le parlavano “come se pensassero che ero così carina a giocare con loro, come se fossi un animale da circo”. Si è anche sentita dire più di una volta che avrebbe dovuto chiedere un finanziamento alla Golden Seeds, una compagnia d’investimenti che finanzia esclusivamente aziende guidate da donne. Ma lei non si è arresa, e nel 2012 The Muse è diventata una delle prime imprese formate solo da donne ammesse al prestigioso y Combinator, un programma che sostiene i giovani imprenditori del settore tecnologico. Quel successo faceva chiaramente capire che il modo in cui era stata trattata all’inizio era dovuto alle dinamiche di potere dell’industria. Mishew sottolinea che appena la sua azienda si è affermata gli investitori hanno smesso di avere quell’atteggiamento da predatori. “Hanno capito che sarebbe stato molto più rischioso fare un commento inopportuno”, dice.
Valerie Aurora, la principale consulente delle Frame Shift Consulting, che si occupa di diversità e inclusione, e Leigh Honeywell, esperta di tecnologia dell’American civil liberties union (Aclu), sostengono che le molestie sessuali sono spesso il segnale di una serie di altre scorrettezze commesse in un’azienda. Hanno chiamato la loro tesi “teoria Al Capone delle molestie sessuali”, e nell’estate 2017 l’hanno pubblicata online. Al Capone era un gangster dell’era del proibizionismo che le autorità federali avevano cercato per anni di processare per reati gravi, tra cui il contrabbando e l’omicidio, ma che alla fine fu arrestato per un reato completamente diverso: l’evasione fiscale. Aurora e Honeywell hanno sviluppato questa teoria dopo aver notato uno schema ricorrente nel mondo della tecnologia che ricorda il caso di Al Capone: le molestie sessuali sono spesso accompagnate da altre violazioni. “È probabile che chi molesta o aggredisce sessualmente rubi, plagi, sia apertamente razzista o danneggi in altri modi la sua azienda”, scrivono. “Tutti questi comportamenti sono tipici di chi si sente in diritto di appropriarsi di qualcosa che appartiene a un altro, che si tratti di idee, lavoro, denaro o del suo corpo. Un altro fattore comune è il desiderio di dominare e di controllare”. Secondo loro non è una coincidenza che nel caso di Harvey Weinstein la procura federale abbia aperto un’inchiesta sulle sue attività benefiche, anche se è accusato di stupro. Quando chiedo ad Aurora perché pensa che esista questo collegamento, risponde: “Per diversi motivi, ma il più interessante è che i molestatori spesso si sentono in diritto di fare qualsiasi cosa. È come se pensassero che sono più importanti di tutti gli altri”. E aggiunge: “È molto utile avere Donald Trump come presidente, ora sappiamo bene come si comportano i narcisisti”. Come in altri campi, le donne che lavorano nella tecnologia hanno sempre avuto le loro reti d’informazioni, formali e informali, online e offline, per scambiarsi consigli professionali e di altro tipo. Come dimostra la valanga di post sui social network degli ultimi mesi, internet è diventato il nuovo luogo delle denunce, e ora le accuse non si fanno sottovoce. Minshew spera che il dibattito pubblico sulle discriminazioni delle donne contribuisca a cambiare la cultura delle aziende tecnologiche: “Per tanti anni abbiamo avuto l’impressione che parlando avremmo detto addio alla nostra carriera. Quest’estate ho visto per la prima volta quello che può succedere a chi si comporta male. E questo mi dà forza. Prima sembrava che nessuno ci avrebbe mai finanziato e che niente sarebbe mai cambiato”. Therese Lawless dice che il suo studio legale è stato tempestato di telefonate di donne: “Spero proprio che le abitudini stiano cambiando, e che spingano la gente a pensare: ‘Non possiamo più nascondere queste cose sotto il tappeto. Le donne stanno cominciando a farsi avanti e a parlare’”. Altre donne che ho intervistato erano meno ottimiste. Un’ex dipendente della Tesla mi ha detto che nel settore tecnologico l’ipocrisia ha radici profonde. “Una cosa è particolarmente preoccupante: è un’industria che dovrebbe rappresentare il futuro. Sembrano tutti impegnati a fare cose diverse e migliori. Ma non stanno affrontando questo problema e meno che mai stanno cercando di risolverlo”. Ha fatto una pausa e ha concluso: “Sinceramente, non credo siano capaci di cambiare”.
internazionale 11.3.18
Spagna
Bambini dimenticati Per decenni la chiesa e le istituzioni spagnole hanno sottratto alle madri decine di migliaia di neonati. Le vittime aspettano ancora giustizia
Di Gorka Castillo, Ctxt, Spagna.
Non esiste un’eredità del passato spagnolo più carica di sofferenza e vergogna di quella dei bambini rubati. Le stime parlano di decine di migliaia di neonati strappati alle loro madri, in un arco di tempo che va dal 1936 all’inizio degli anni duemila. Finivano in mano a una rete di poteri che disponeva in totale impunità di ospedali, carceri e case famiglia per ragazze madri gestite dalla chiesa, senza che nessuno muovesse un dito. Erano orfani, figli dei repubblicani, bambini della diaspora che tornavano in Spagna da un’Europa in fiamme e neonati di donne disperate o sole negli anni della transizione. Secondo la Fibgar, la fondazione per i diritti umani dell’ex magistrato Baltasar Garzón, più di trentamila neonati sono stati sottratti o adottati illegalmente. Secondo la piattaforma Te estamos buscando e altre organizzazioni simili, la cifra sarebbe molto più alta. Alcuni parlano di centomila neonati, altri di 180mila. L’associazione nazionale delle adozioni irregolari (Anadir) arriva a trecentomila. Un disastro che si consuma nell’incredulità e nello sconcertante disinteresse delle istituzioni spagnole. Secondo il presidente dell’associazione Camino de la justicia, Pedro Caraballo, “un naufragio morale così grande richiede la realizzazione urgente di un censimento nazionale”. Il sistema ha cominciato a incrinarsi nel 2008, quando sono arrivate le prime denunce ai tribunali spagnoli. A quel punto le autorità pubbliche e private hanno deciso di indagare. Il caso dei neonati rubati, degli scambi e delle adozioni irregolari non è solo una vicenda spregevole. “È stata un’operazione così organizzata e spietata da sembrare quasi surreale”, dice Caraballo. Il fatto che il 95 per cento delle denunce presentate sia stato archiviato per mancanza di prove è significativo. Le vittime cercano da sole indizi per avere una certezza o un improbabile conforto nella ricerca della loro vera identità. Il parlamento spagnolo sta cercando di prendere in mano questa situazione delicata e caotica, che il silenzio contribuisce ad alimentare. “Una commissione d’inchiesta potrebbe accedere ai documenti che rivelano il destino di centinaia di bambini sottratti ai genitori e affidati ad altre famiglie in quell’epoca di impunità”, dice Caraballo. Crimini contro l’umanità
Nel 2014 l’Onu aveva chiesto al governo spagnolo di facilitare “l’accesso agli archivi e ai registri ufficiali e non ufficiali di nascita” entro novanta giorni. ma quell’appello è caduto nel vuoto. Poco dopo, nel 2015, si è espressa anche la Commissione europea, invitando le vittime a presentare i loro casi alla corte europea di Strasburgo. “Sono denunce contro lo stato spagnolo per crimini contro l’umanità”, ha scritto la presidente della commissione per le petizioni del parlamento europeo, Cecilia Wikström, al ministro degli esteri spagnolo Alfonso Dastis. L’Unione europea ha chiesto la creazione di una banca del dna per incrociare i dati delle vittime e l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare. Inoltre ha invitato la chiesa ad ammettere il suo coinvolgimento nei rapimenti dei neonati. Nel 2017 il governo spagnolo ha destinato centomila euro a queste iniziative, e il parlamento ha ascoltato le prime testimonianze. È un piccolo passo. ma su più di cinquemila persone che dal 2011 hanno denunciato la loro situazione, solo quattordici hanno trovato quello che cercavano. E ce l’hanno fatta grazie alla loro tenacia, non all’intervento della giustizia. Una di queste persone è Paloma Pérez Calleja. Ha ottime ragioni per essere orgogliosa del suo coraggio. È una delle poche persone con due certificati di nascita. Il primo è datato 4 marzo 1957 e riporta il nome di Augustina, il secondo è falso e fu creato da un gruppo di suore, ostetriche e medici per placare l’angoscia sconsolata di una donna che aveva partorito, o così le avevano detto, una bambina morta. La chiamarono María de la Paloma e quello è rimasto il suo nome. Fino a quando, tredici anni fa, è riuscita a strappare alla sua falsa madre la verità. “L’11 febbraio 2004, per l’esattezza. Una data che non dimenticherò mai”, spiega. Accadde tutto nel vecchio istituto di ostetricia e ginecologia di calle O’Donnell, a Madrid, uno dei centri fondati dall’opera pia di Francisco Franco a cui si rivolgevano molte donne in difficoltà. “A un certo punto il sospetto era diventato così grande che non ce l’ho fatta più. Ho fatto sedere mia madre adottiva e le ho chiesto direttamente: ‘Sono tua figlia?’”, ricorda Paloma, cercando di trattenere una lacrima. Per quanto si aspettasse la risposta della madre, non è comunque stato facile accettarla. “mi ha detto che aveva avuto tanti figli che non lo ricordava più, ma io ho insistito, e allora mi ha detto la verità”, aggiunge con la voce rotta. Accanto a lei, suo marito le accarezza le spalle nel silenzio turbato di alcuni amici presenti. Paloma prende fiato e alza lo sguardo: “La mia vera madre era una donna umile che lavorava al servizio di un signorino che l’aveva messa incinta. Fu costretta ad abbandonarmi per cinquecento pesetas”, dice, senza mostrare la minima commozione.
Suor María
Un’altro caso è quello di Marga Pérez, 58 anni. Il 5 aprile 1981 diede alla luce il suo terzo figlio, un maschietto, nel reparto di maternità dell’ospedale di Santa Cristina di Madrid. Dopo ore interminabili di travaglio sentì che finalmente il bambino si muoveva e respirava per la prima volta. Senza darle neanche il tempo di accarezzare il neonato, una suora lo mise su un lettino e lo portò via. “Gli dissi che volevo vedere il mio bambino, di riportarmelo, che lo volevo tenere con me”. Marga non l’ha più rivisto. Lo dice con gli occhi scuri velati di lacrime. Abbassa lo sguardo e sospira. “Suor María l’aveva preso per fargli degli esami, e poi mi disse che era morto”, continua. ma non era vero. A Marga non fu mai restituito il cadavere del figlio, non poté neanche fargli una carezza per consolarsi e alleviare il suo dolore. Non solo: “La suora minacciava di portarmi via gli altri bambini se avessi continuato a chiedere di lui”. Marga non ha mai dimenticato quel momento terribile. Era così sicura che il bambino non fosse morto che continuò a tornare al reparto di maternità, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ino a quando non incontrò un’assistente sociale che prese a cuore la sua storia. Cercò la sua cartella e gliela fece avere. “Il bambino non era morto”, dice. Nonostante tutto, il caso di Marga è uno dei tanti che sono stati archiviati da un tribunale di Madrid. Secondo la giustizia non c’erano prove sufficienti per aprire un’inchiesta e accertare le responsabilità. Sono centinaia i casi come questo. Quella suora che l’aveva separata dal suo bambino è un personaggio chiave della rete che per anni ha agito impunemente negli ospedali pubblici e nelle cliniche private di tutta la Spagna. Si chiamava María Florencia Gómez Valbuena, apparteneva all’ordine delle Figlie della carità di san Vincenzo de’ Paoli ed è morta il 22 gennaio 2013. Il suo nome è legato a quello del dottor Eduardo Vela, ex direttore della clinica San Ramón di Madrid, citato nella maggior parte dei fascicoli aperti dai tribunali. La firma di María Valbuena compare in centinaia di documenti di adozione, e nel 2012 la giustizia non ha potuto evitare d’imputarle la sottrazione di Pilar Alcalde dalla clinica Santa Cristina. ma non c’è stato tempo per processarla. È morta l’anno dopo. O almeno questo è quello che hanno dichiarato le altre religiose dell’ordine, perché l’enigma di suor María è proseguito nell’aldilà: il numero del suo certificato medico di morte e quello che appare nel registro ufficiale non coincidono. Quattro numeri su otto sono diversi. Un errore insolito. Forse si è trattato solo di uno sbaglio, ma i sospetti sono aumentati quando si è saputo che teoricamente María Valbuena era stata sepolta prima dell’annuncio della sua morte. Un mistero che farebbe la gioia di qualunque detective. Anche Consuelo García del Cid ha conosciuto il mondo del traffico illegale di neonati. Da adolescente, nella Barcellona degli anni settanta, fu arrestata e trasferita a Madrid nel centro di calle del Padre Damián, gestito da un ordine di suore. Lì dentro la situazione era tremenda. “ma il centro di Peñagrande era ancora peggio. Era l’unico per minorenni incinte. Un giorno arrivarono da lì due ragazze. Avevano appena partorito. Avevano il seno fasciato e piangevano, dicevano che gli avevano tolto i bambini dopo il parto. Il furto di neonati lì era considerato una cosa normale”, racconta.
Chi gestiva la tratta di neonati in Spagna? Le testimonianze di centinaia di vittime coincidono, e Consuelo García ha studiato a fondo la questione. “Il Patronato di protezione delle donne presieduto da Carmen Polo, la moglie di Franco. Era un’istituzione che dipendeva dal ministero della giustizia, attiva dal 1952 al 1978. Durante la transizione cambiò nome e diventò l’Istituto per la promozione della donna, ma non cambiò i suoi metodi. Controllava decine di centri in tutta la Spagna gestiti da ordini religiosi dove finivano donne povere, ragazze considerate dissolute, figlie ribelli di buona famiglia”, racconta García. Il rompicapo che deve affrontare qualsiasi commissione che cerchi di identificare le migliaia di persone coinvolte potrebbe essere risolto con un registro delle impronte digitali dei neonati. ma ancora oggi non esiste niente di simile. Il pediatra Antonio Garrido-Lestache, 84 anni, ha creato anni fa un metodo infallibile per stabilire la filiazione, “un semplice documento d’identità al momento della nascita”. Con una lunghissima esperienza professionale nel campo dell’assistenza ai bambini, ha intrapreso uno studio dei processi d’identificazione di neonati. Per anni ha visitato cliniche private e ospedali pubblici, ha scritto lettere alle autorità, ha parlato con la polizia giudiziaria ed è perfino andato alla sede delle Nazioni Unite a New York per denunciare alcune pratiche vergognose. “Quello che vedevo mi faceva vergognare. In posti come il reparto di maternità dell’ospedale di la Paz, dove nascevano cento bambini al giorno, ho visto i braccialetti che si mettono ai neonati sparsi per terra. E la cosa peggiore era che al personale non importava niente”, denuncia Garrido-Lestache.
Nessuna risposta
Qualche anno fa il pediatra ha scritto un libro, La identidad del ser humano, che non solo fornisce informazioni sul rapimento e lo scambio di neonati in Spagna, ma propone una soluzione alla tratta di persone e alla violazione d’identità da parte dei regimi totalitari. Il pediatra si è documentato a lungo, analizzando modelli di filiazione infallibili. Uno di questi è un libretto in cui la madre e il neonato lasciano l’impronta indelebile delle falangi al momento del parto. “Dal 2000 è obbligatorio negli ospedali spagnoli, ma non si fa quasi mai e, se si fa, si fa male, perché non c’è stato un piano specifico di formazione”, denuncia. Oggi si prende solo l’impronta della pianta del piede del bambino su un foglio giallo. “Un dato che non serve a niente”, aggiunge il pediatra. Qualche mese fa Garrido-Lestache ha scritto una lettera di protesta alla presidente della comunità autonoma di Madrid, Cristina Cifuentes. La risposta è stata desolante. “mi ha detto che qui tutto viene fatto bene, punto e basta”, racconta GarridoLestache indignato. Secondo lui la sottrazione dei neonati e le adozioni illegali sono uno scandalo di proporzioni eccezionali. “È stato un business a cui hanno partecipato medici, infermiere e suore. Lo vedevo con i miei occhi, l’ho denunciato durante il franchismo e anche dopo il ritorno della democrazia”, dice. Per migliaia di persone è una catastrofe personale inspiegabile. Per questo il pediatra porta avanti il suo impegno per rendere la carta d’identità obbligatoria per i bambini anche in Spagna, come accade in quasi tutti i paesi che hanno firmato la Dichiarazione dei diritti del fanciullo. E per le vittime che non vogliono smettere di cercare, per avere le prove che gli permettano di riscrivere la loro storia: chi sono in realtà, e perché è successo a loro.
Da sapere
L’igiene della razza
Il regime di Francisco Franco, che guidò la Spagna dalla fine della guerra civile nel 1939 alla morte del dittatore nel 1975, sosteneva un’ideologia della purificazione razziale improntata a quella della Germania nazista e basata soprattutto sulle idee dello psichiatra militare Antonio Vallejo-Nájera. Secondo le sue teorie eugenetiche, i comunisti erano “individui mentalmente inferiori e pericolosi per la loro malvagità intrinseca”. L’unico modo per evitare la degenerazione della razza spagnola era quindi sottrarre i figli ai dissidenti e farli crescere in ambienti “sani”. A partire dagli anni sessanta la sottrazione dei neonati perse parte delle sue motivazioni ideologiche e si trasformò in un traffico di adozioni a scopo di lucro.
internazionale 11.3.18
L’anima sacra di Pechino
Di Ian Johnson, The New York Times, Stati Uniti
Dopo gli anni della rivoluzione culturale, il governo sta recuperando i simboli più antichi della metropoli cinese. La trasformazione della città raccontata da un premio Pulitzer
Quando sono stato a Pechino per la prima volta, nel 1984, la città aveva l’aria polverosa e dimenticata di un’antica capitale ricca di templi e palazzi che Mao aveva giurato – evidentemente con successo – di trasformare in una distesa di fabbriche e ciminiere. La fuliggine penetrava dai davanzali delle finestre e nei vestiti. La gente girava per le vecchie strade ventose su semplici biciclette d’acciaio e autobus che puzzavano di nafta. Allora, come oggi, era diicile immaginarsi questa città tentacolare come il cuore sacro dell’universo spirituale della Cina. Ma per gran parte della sua storia, Pechino è stata esattamente questo. Non era una città santa come Gerusa
lemme, la Mecca o Varanasi, mete di pellegrinaggio dove la terra stessa è sacra. Le strade, le mura, i templi, i giardini e i vicoli della capitale cinese andavano a comporre un arazzo finemente intrecciato che rifletteva le costellazioni celesti, le forze geomantiche della terra e uno strato invisibile di montagne sacre e divinità. era una vera e propria opera d’arte, simbolo del sistema religioso e politico che ha retto la Cina per millenni. era l’incarnazione del sistema di valori e credenze del paese. La cosmologia di Pechino cominciò a cambiare nel novecento, soprattutto dopo che nel 1949 il Partito comunista arrivò al potere. Le grandi mura della città e molti dei suoi templi e dei vicoli, gli hutong, furono distrutti per lasciare spazio ai nuovi ideali di una società atea e industriale. Con gli anni ottanta arrivarono le riforme economiche e uno sviluppo immobiliare incontrollato, che cancellò quasi completamente quel che restava della città vecchia. Andarono persi non solo una città medievale di 64 chilometri quadrati, ma anche uno stile di vita, al pari delle culture locali delle altre grandi città del mondo spazzate via dalla nostra epoca inquieta. Nel corso degli anni ho osservato alcune di queste trasformazioni, prima da studente, poi come giornalista e oggi come scrittore e insegnante. Come molte persone innamorate di questa città, ero demoralizzato dalla perdita della cultura di Pechino. Negli ultimi anni, però, ho cominciato a pensare che forse mi sbagliavo. La cultura di Pechino non è morta, sta rinascendo in alcuni angoli della città e nei modi più inaspettati. Pechino non è la stessa del passato, ma è ancora una città vivace e vera, con uno stile di vita e un sistema di valori che rispecchiano i vecchi tempi. Occasioni speciali Adesso che ci vivo, questo ritorno al passato è evidente soprattutto in due luoghi. Uno è il quartiere del tempio del sole, nella parte orientale della città, l’altro è un tempio taoista nella parte occidentale. sembravano luoghi dimenticati e irrilevanti, ma negli ultimi anni hanno lentamente riacquistato importanza in una Cina postcomunista alla ricerca di nuovi valori e princìpi. Per quasi tutto il tempo che sono stato a Pechino, ho vissuto a poche centinaia di metri dal tempio del sole. Al centro di un parco di venti ettari nel quartiere diplomatico di Jianguomenwai, il tempio fu costruito nel 1530 ed era uno dei quattro santuari dove l’imperatore celebrava il culto dei principali corpi celesti. Gli altri sono dedicati alla Luna, alla Terra e al cielo. Il tempio del Cielo è sicuramente il più famoso, ma il tempio del sole è forse ancora più rivelatore, perché è meno appariscente. Come ogni luogo famoso a Pechino, il tempio fu gravemente danneggiato durante la rivoluzione culturale, tra il 1966 e il 1976, un periodo di violenze e radicalismo in cui furono vandalizzati tutti i luoghi di culto e molti simboli del passato. L’altare di pietra principale, un disco piatto di sei metri di diametro sollevato di circa mezzo metro da terra, fu fatto a pezzi dai fanatici di Mao. Quando poi furono abbattute le mura della città il parco diventò una discarica di detriti e calcinacci. ho scoperto il parco otto anni dopo la ine di quel periodo drammatico. Dal 1984 al 1985 ho studiato lingua e letteratura cinese all’università di Pechino e venivo in bicicletta da queste parti perché il quartiere era diventato il principale polo diplomatico del paese ed era uno dei pochi posti in cui gli occidentali che avevano nostalgia di casa potevano comprare cioccolata e cartoline. Nell’era post Mao la Cina si stava aprendo al mondo e cominciava a costruire ambasciate e nuovi ediici residenziali per ospitare diplomatici e giornalisti stranieri. Il quartiere era diventato uno snodo internazionale, con un Negozio dell’amicizia, un Club internazionale e un albergo in stile occidentale che aveva una delle poche panetterie della città. Venivo per i croissant, ma poi rimanevo per ammirare le strade alberate e il tempio del sole. Mi ricordo che passeggiavo nel parco e l’altare era stato appena ricostruito, ma i palazzi intorno erano talmente fatiscenti che la zona sembrava abbando nata. ogni tanto ci veniva qualcuno per far volare gli aquiloni dalle antiche balaustre di pietra, incrinate e scolorite come vecchie ossa. I igli dei diplomatici correvano intorno al basso muro di cinta dell’altare per provarne l’acustica: se sussurravi vicino al muro ti sentivano a quattro metri di distanza. Nel 1994 sono tornato in Cina per lavoro: ho fatto per sette anni il corrispondente, prima per il Baltimore sun e poi per il wall street Journal. sono andato ad abitare in uno dei complessi residenziali riservati ai diplomatici e il quartiere è diventato la mia casa. sono tornato al tempio del sole. Bisognava pagare per entrare, e il parco era relativamente vuoto, specialmente in quella che era diventata una città afollata e vivace. L’ingresso costava poco, ma la Cina era ancora relativamente povera e la gente non aveva voglia di passare il tempo a fare ginnastica. si lavorava, si tornava a casa e si riposava. I parchi erano per le occasioni speciali. Percorrendo i due chilometri scarsi del sentiero perimetrale s’incontravano poche persone, di solito diplomatici delle ambasciate vicine o spioni che si guardavano in giro. Il tempio del sole non era solo deserto, aveva anche un aspetto spoglio. era l’epoca in cui nei parchi cinesi non c’era l’erba ma solo la terra dura, compatta e arida di Pechino che i giardinieri rastrellavano ogni quattro giorni. L’effetto era strano, ma dava al parco una bellezza austera che creava una bizzarra sintonia con gli alberi di ginkgo e i cachi lungo i sentieri. Quando sono tornato in Cina nel 2009 per fare lo scrittore e l’insegnante tutto era cambiato. La Cina veniva da trent’anni di grande crescita economica e le casse dello stato erano strapiene. oltre che per le compagnie aeree, le olimpiadi e i treni ad alta velocità, i soldi venivano spesi per i parchi e il verde pubblico. oggi nel tempio del sole ci sono prati, nuovi alberi, aiuole di tulipani in primavera, gerani in estate e canne di bambù talmente estranee a questa regione fredda della Cina che ogni volta che viene l’autunno bisogna legarle insieme per proteggerle dal gelo. C’è ancora di meglio, o di peggio, a seconda del proprio grado di egoismo: le autorità hanno abolito l’ingresso a pagamento. Improvvisamente il parco è diventato parte della città, accolto a braccia aperte da residenti ansiosi di fare attività all’aperto. A diferenza di dieci anni fa, oggi molti cinesi vogliono fare ginnastica e il parco si è riempito di persone che fanno jogging in tute di lycra nera sfrecciando davanti ai lavoratori dei ristoranti con i grembiuli sporchi di grasso. Questo bisogno di spazio si scontra con un’altra tendenza in atto Cina: la cessione delle aree pubbliche ai ricchi. Mentre le piste ciclabili di Pechino diventavano corsie per le auto e i marciapiedi venivano invasi da motorini che consegnano pasti caldi alla media e alta borghesia, un’enorme fetta del tempio del sole è stata sacriicata per una minoranza facoltosa. Dagli anni duemila ho calcolato che il 15 per cento della supericie del parco è stato dato in aitto a ristoranti di fascia relativamente alta, a un club esclusivo, a una birreria tedesca, a una scuola di yoga, a uno strano negozio di mobili antichi sempre vuoto (e che sembra una copertura per qualche afare losco), a un ristorante russo e a una serie di negozi che vendono merci all’ingrosso per i commercianti russi: tutte attività che non c’entrano niente con l’antico e glorioso parco. Visto che buona parte del parco è occupata dalle attività commerciali, il tempio del sole si riduce all’altare ricostruito al centro, a cui si aggiungono una collinetta, un laghetto e il sentiero principale. Da quando è stato abolito l’ingresso a pagamento, il sentiero è talmente afollato che a volte sembra una ruota del criceto impazzita su cui si sale e scende a proprio rischio. eppure, nonostante tutto, amo ancora il parco. seguendo il lusso in senso antiorario intravedo i grattacieli tra i salici piangenti, i maestri di tai chi in riva al lago e i vecchi pini sopravvissuti ai tumulti. sento perino il cigolio del pacchiano luna park per bambini con i suoi trenini elettrici mezzi rotti. Ma il parco non è solo una inestra sulla vita quotidiana della gente. Il governo non perde occasione per legittimarsi. Le autorità hanno aperto un piccolo museo che espone delle riproduzioni dei pezzi dell’altare distrutto come se fossero vere, e hanno piazzato una recinzione d’acciaio intorno all’altare per far vedere quanto ci tengono alla tutela del patrimonio culturale. Davanti al tempio c’è un pannello informativo che ne racconta la storia senza mai citare le perdite dell’epoca di Mao. Lo scopo è rassicurare i cinesi: il Partito comunista, che una volta attaccava la tradizione, adesso ne è il custode. Ultimamente questo messaggio è stato rinforzato da una serie di manifesti di propaganda che esaltano i valori della famiglia tradizionale. si parla di famosi pensatori di millenni fa, con tanto di spiegazione sommaria delle loro opere. Apprendiamo che è virtuoso ubbidire e ascoltare i genitori, oltre che prendersi cura di loro: sono le nuove preoccupazioni di un governo che per decenni, con le sue severe misure di pianiicazione familiare, è stato il principale responsabile dell’invecchiamento della popolazione e della ribellione di una gioventù che trascura le generazioni precedenti. Valori tradizionali ogni tanto, con un certo imbarazzo, lo stato comunista ricrea perino gli antichi rituali. A marzo alcuni miei amici, pensionati che fanno i cantanti e i musicisti dilettanti, sono stati ingaggiati come comparse per la cerimonia dell’equinozio di primavera. In trenta hanno indossato le tonache e i cappelli dell’epoca della dinastia Qing e hanno marciato solennemente verso l’altare. Accompagnati da una piccola orchestra di musicisti che suonavano gong, piatti e timpani, si sono avvicinati a una tavola piena di inti animali morti lasciati in sacriicio. Un ragazzo vestito da imperatore si è inchinato e ha presentato le oferte rituali, il tutto sotto la rigida supervisione di un gruppo di esperti dell’uicio locale degli afari culturali che avevano letto alcune ricostruzioni delle antiche pratiche. Più tardi sui social network hanno cominciato a circolare dei video della cerimonia, rafforzando l’idea che il passato sta tornando. recuperare i valori tradizionali è uno dei principali obiettivi del leader cinese Xi Jinping sul fronte interno, eppure l’idea stessa di un ritorno al passato sembrava impossibile fino agli anni ottanta. essendo cresciuto in una famiglia molto religiosa, ero curioso di sapere in cosa credevano i cinesi. Non mi aspettavo né desideravo che i cinesi condividessero i miei valori, ma mi immaginavo che credessero in qualcosa. Mi sbagliavo. Un pomeriggio d’autunno ho pedalato per un’ora fino al tempio della Nuvola bianca, il centro nazionale del taoismo, la religione locale della Cina. Il taoismo nasce nel secondo secolo da una combinazione di credi religiosi popolari e insegnamenti di ilosoi come Laotzu e Changtzu. Il tempio della Nuvola bianca risale al tredicesimo secolo ed è la sede dell’associazione nazionale taoista. Il tempio è magniico, ma sembra costruito in modo incoerente. L’asse principale di cinque sale dedicate a varie divinità è scampato in gran parte alle devastazioni della rivoluzione culturale. Il problema è che mancano i fedeli. Le sale e i cortili ricordano i luoghi simbolici di culto degli ex paesi comunisti, più simili a musei che a centri funzionanti di una pratica religiosa viva. Circondato da palazzine residenziali di epoca comunista e da una centrale elettrica puzzolente, l’ediicio è come il tempio del sole, un relitto di un’era passata. Negli ultimi dieci anni, però, i cinesi hanno cominciato a cercare un signiicato nella loro vita. Dopo aver abbracciato per decenni ideologie straniere come il fascismo, il comunismo e in neoliberismo, si chiedono cosa resta della loro cultura. I templi come quello della Nuvola bianca e le pratiche religiose come il taoismo sono una parziale risposta a questi interrogativi. e così, giustamente, il governo ha investito sulle religioni come il taoismo (e anche sul buddismo e sulle religioni popolari, meno sul cristianesimo e l’islam). Il tempio della Nuvola bianca sta cercando di recuperare parte del patrimonio della medicina tradizionale cinese aprendo una clinica in un’ala appena ristrutturata dell’ediicio. Lo stato ha fondato anche una nuova accademia taoista per l’istruzione di nuovi sacerdoti. In tutta la Cina c’è un ritorno del taoismo. Lo si capisce attraversando il tempio. Il biglietto d’ingresso di cinque euro è proibitivo per molti visitatori, ma il tempio è comunque pieno di sacerdoti che vanno ai seminari. su i due lati dell’asse principale ci sono nuovi cortili con templi dedicati a varie divinità.
Fuori controllo
Per vedere che tipo di prodotti taoisti la gente compra oggi per la casa, vale la pena di visitare il principale negozio di souvenir del tempio. Dopo l’entrata principale ce n’è uno pieno di prodotti insoliti come orologi da muro decorati con gli otto trigrammi e il simbolo del tai chi e poi scettri, spade e addirittura tonache taoiste. Vende anche litograie di alcune stele dei templi, tra cui strane rappresentazioni di corpi umani che illustrano i canali energetici, o meridiani, della medicina cinese. rispetto alla città sacra del passato, la Pechino di oggi è un’area metropolitana vagamente fuori controllo con strade ad alto scorrimento, grandi condomini, treni sotterranei e periferie. Il vecchio arazzo cosmologico è stato fatto a brandelli. Ma è ancora una città dove i luoghi hanno un signiicato. Lo storico dell’urbanistica Jefrey F. Meyer, che ha scritto The dragons of Tiananmen: Beijing as a sacred city (I draghi di Tiananmen: Pechino come città sacra), osserva che le capitali cinesi rispecchiano sempre l’ideologia del governo. Questo, ovviamente, è vero per tutte le capitali, e Meyer ha scritto un libro anche su washington e l’idea che sta dietro ai suoi monumenti. Ma a diferenza delle società aperte, che sono più caotiche e dove il messaggio uiciale spesso si perde o quantomeno è attenuato dalle voci contrastanti, Pechino è ancora la capitale di uno stato autoritario. Il messaggio di Pechino è ancora il messaggio dello stato, forse in modo imperfetto ma comunque visibile. Uno stato che una volta disprezzava la tradizione, e che invece oggi la difende. Così la città cambia, non per tornare al passato, ma per rilanciare e mescolare insieme una serie di idee del passato: la pietà iliale, il rispetto per l’autorità, le religioni tradizionali, e anche i privilegi dei ricchi. Come dice Meyer, allora come oggi, “Pechino era un’idea prima di essere una città”.
Ian Johnson è un giornalista e scrittore. Nel 2001 ha vinto il premio Pulitzer per i suoi reportage sulla repressione del Falun Gong, una disciplina spirituale ferocemente osteggiata dal governo cinese.
l’espresso 11.3.18
Ritrovare Moro
Il leader dc fu rapito e ucciso 40 anni fa, in una fase cruciale per il Paese. Come quella di oggi
di Marco Damilano
Moro tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali, vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci. Scorro per ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro, dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta, con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti, via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno 1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve ancora compiere quarant’anni. L’immagine pubblica esisteva già anche in una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica, sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica, la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa cupezza e depressione. Quando il grigio era il colore dominante si intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica che l’Italia non aveva
mai avuto. Fino ai due ultimi scatti, quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Rafaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi, invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo progetto, il suo metodo. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975. Dopo Moro è finito il suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile, insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse, la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi. Nessuno può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio, un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla ine del colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un braccio di Scalfari. Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani, il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta ino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta ino in fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato in qui la democrazia italiana...». Nel quarantesimo anniversario del rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sida di cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini. Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato. Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la politica era vissuto e ifnine morto e che nella politica, tuttavia, non aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità». Negli ultimi giorni della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a quadretti e una penna come sola arma a disposizione per farsi sentire, con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità. Ciò che manca oggi a una politica che si percepisce come onnipotente, forte di consensi e successi, che si auto-celebra per i milioni di voti raccolti, ma che non possiede un atomo di verità sul Paese e su se stessa. E dunque è destinata a essere perdente, sempre.
l’espresso 11.3.18
Visto dalla storia
Un politico, l’Italia
di Umberto Gentiloni
Curioso e paradossale che un politico possa diventare un punto di riferimento, un modello, un confidente riservato, un conforto per cercare serenità e benessere. Sembra l’immagine di un tempo lontano, perduto e incomprensibile: quello delle culture politiche che uniscono, del confronto delle idee, delle strategie collettive, dei soggetti partecipativi capaci di costruire leadership e classi dirigenti. Un’Italia distante non misurabile sull’arco dei quarant’anni che ci separano dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro. Quella vicenda è molto di più di un delitto efferato, di un attacco terrorista al cuore dello Stato, di una striscia di sangue che ha segnato una fase della nostra storia. Moro è un simbolo da colpire, la sua biografia si sovrappone al dopoguerra della Repubblica: dall’Assemblea Costituente ino alla tragica primavera del 1978. Ma se le Brigate Rosse cercano di colpire un uomo e una storia, il paese si stringe attorno al prigioniero cercando di seguire le sorti di una vita come se dal destino dell’ostaggio dipendessero le condizioni di tante famiglie, lo stesso cammino di una comunità smarrita. Non si doveva interrompere un itinerario collettivo, spezzare una trama che aveva permesso a tanti di sentirsi parte di una storia comune. E dai punti di partenza più diversi si poteva cercare di migliorare, di avere obiettivi e orizzonti raggiungibili, di dare un senso a tante azioni quotidiane. Poche ore dopo la strage di via Fani comincia a muoversi un fiume carsico e disordinato in cerca di un’interlocuzione possibile con la signora Moro. Mentre vanno in onda le edizioni speciali dei telegiornali, la famiglia è sommersa da un fiume di lettere: pensieri, disegni, foto, preghiere, piccoli grandi gesti di vicinanza e solidarietà. Una corrispondenza impossibile spontanea e disordinata che spesso non ha neppure un indirizzo corretto o un destinatario adeguato: famiglia Moro, via Fani, piazza del Gesù o la via Trionfale di Roma dove la famiglia risiedeva. Scrivono italiani e italiane di tutte le età: bambini delle scuole o pensionati, politici più o meno affermati e tanti comuni cittadini che partecipano a un funerale collettivo, quello della Repubblica e delle sue basi fondanti. Pacchi di temi arrivano dalla scuole di ogni ordine e grado: iniziative tenute insieme dal dolore di quelle ore, dalla speranza di una soluzione positiva, dalla voglia di partecipare, di essere presenti in un passaggio cruciale della vita democratica. Ma cosa ha rappresentato quel tornante nella coscienza più profonda della società italiana? Cosa si è mosso allora in termini di sentimenti, speranze, aspettative mal riposte? In fondo quei 55 giorni di prigionia hanno unificato il paese nell’attesa, nella trepidante ricerca di notizie in un sentire comune che si dissolve mentre la tragedia si consuma inesorabilmente. Una grande emozione collettiva sulla sorte del prigioniero che si ripiega su stessa disperdendosi in mille rivoli nei mesi e negli anni successivi. Un patrimonio diffuso che si manifesta nel gesto individuale di scrivere qualcosa, lasciare un segno, un’intenzione, un pensiero da condividere: chi racconta passeggiate e incontri fortuiti, chi chiede consigli, chi riavvolge il nastro della propria vita, chi cerca aiuto per un lavoro o per una segnalazione vantaggiosa. E sul versante pubblico nelle manifestazioni politiche o sindacali, nelle prese di posizione di istituzioni locali, condomini, associazioni sportive o ricreative e tanto altro. Un paese ferito che si riconosce, incredulo e speranzoso.
l’espresso 11.3.18
Reportage
Nei secoli Fidel
Il fratello Raúl, 87 anni, sta per ritirarsi. Al suo posto, un uomo di apparato. Ma nelle strade si parla poco o niente del governo
di Wlodek Goldkorn dall’Avana (Cuba)
L a tomba di Fidel Castro, al cimitero di Sant’Ifigenia di Santiago di Cuba, consiste di una grande pietra ovale color grigio, una panchina di marmo davanti, con qualche fiore posato e una scritta a lettere dorate su una piastra nera: Fidel. I turisti si mettono in posa, scattano le foto, poi attendono il cambio di guardia; un’attrazione pari alla cerimonia davanti a Buckingham Palace a Londra. Ogni mezz’ora suona una campana e un gruppetto di soldati e soldatesse, divisa verde che per la rigidità dell’uniforme richiama il design sovietico, marcia al passo dell’oca. Dietro la tomba di Castro, due grandi monumenti, l’uno ai martiri del 26 luglio, i morti nell’assalto alla caserma Moncada, 65 anni fa; l’altro ai “caduti per compiere il dovere internazionalista”, i soldati uccisi nelle guerre africane, negli anni Ottanta. A pochi passi dalla pietra che commemora il comandante in capo della Rivoluzione, scomparso novantenne nel 2016, ecco il massiccio mausoleo di José Martí. Il monumento ha la forma circolare, vi si sale con una ampia scala, e sporgendosi da una balaustra in pietra, sotto, al pianterreno, si può vedere l’urna con le ceneri avvolta nella bandiera nazionale. Per chi non lo sapesse, Martí è considerato il padre dell’indipendenza cubana: poeta - suoi i versi di “Guantanamera”- filosofo influenzato dall’utopia di Ralph Waldo Emerson, prigioniero degli spagnoli, ebbe le gambe piagate dalle catene e morì in battaglia, appena sbarcato in patria, nel 1895. Quanto sopra non è una guida turistica per chi volesse visitare Santiago (ne vale la pena comunque), ma un tentativo di suggerire quanto nella narrazione del regime l’identificazione tra Fidel e Martí sia fondamentale. E quanto nella costruzione del consenso al regime contino la storia e la memoria, più che l’avvenire. Intanto c’è ancora, vivo, il ricordo della schiavitù. Il gentilissimo poliziotto che sorveglia il balcone al monumento di Martí invita il visitatore a vedere un altro memoriale: «C’è la scultura di Marianna a sancire la liberazione dalla schiavitù». Scopre l’avambraccio e con il dito dell’altra mano tocca la propria pelle, nera, con lo stesso gesto con cui tanti signori e signore indicano il numero tatuato, qui in Europa, 75 anni fa, sul loro avambraccio. Indipendenza significa a Cuba anche liberazione dalla schiavitù. Il 19 aprile ci sarà un cambio di personale al potere. Raúl, il fratello 87enne che regge le sorti del Paese si ritira. La nuova Assemblea nazionale, eletta l’11 marzo, dovrebbe scegliere il successore. Probabilmente sarà il 57enne Miguel Díaz-Canel, un uomo di apparto di lungo corso. Ma, a girare per le strade, a parlare con la gente, le vicende del governo, presente e futuro, sembrano interessare poco. Colpisce anche la mancanza di richiami al futuro radioso, così comune invece una volta negli ex Paesi del socialismo reale. All’ingresso di ogni città c’è una gigantografia con la figura di Fidel, oppure del Che, qualche volta di Raúl. Ma niente ritratti di Marx e di Lenin. Niente bandiere rosse, né falci e martelli. E anche, niente, o quasi, edicole con i giornali. Le librerie non sono poche, ma molto povere. Alla Fiera internazionale del libro, all’Avana, poche settimane fa, il volume che andava per la maggiore era dedicato ai funerali di Fidel. Ecco, la narrazione del regime è tutta rivolta al passato e per molti versi assomiglia alla creazione di una nuova religione, civile, ma poco laica. Poco laica perché le immagini di Ernesto Guevara si confondono come quelle di Cristo sanguinante (in alcune chiese si vedono le figure di Gesù con il petto squarciato e il cuore sanguinante, appunto); mentre la figura di Madonna si sovrappone al racconto della madre, dolorante per il martirio del figlio cui era legatissima, di José Martí. “Granma”, l’organo del Partito comunista, non è onnipresente, come lo erano la “Pravda” nelle contrade dell’Urss o la “Neues Deutschland” nella Ddr. Lo si può comprare da venditori ambulanti per pochi spiccioli. Otto pagine scarne. Leggerlo significa fare un viaggio nel tempo. Certo, c’è una pagina internazionale dedicata alle gesta del presidente Nicolás Maduro, campione venezuelano dell’antimperialismo, e c’è qualche doveroso artico lo in difesa di Lula, ex presidente brasiliano, accusato di corruzione. Ma poi ci sono tanti testi, in cui si raccontano storie degli anni Cinquanta: l’epopea della Sierra Maestra, la sparuta pattuglia di guerriglieri sopravvissuti all’assalto alla caserma di Moncada, appunto, che lotta contro le truppe del regime di Fulgencio Batista; ricordi di combattenti a fianco di Fidel; biografie, romanzate e scritte benissimo, di dirigenti politici e militari, morti chi nel proprio letto, chi per mano dei sicari della dittatura abbattuta nel 1959. Colpisce anche la struttura narrativa dei racconti: allude ai Vangeli; un uomo (talvolta una donna) che a un certo punto della vita scopre l’esigenza della giustizia, incontra Fidel; segue catarsi e rinascita. È come se il tempo si fosse fermato per ordine supremo delle autorità. E non per nostalgia, ma perché gli eroi vanno raccontati da giovani. E pazienza se la loro giovinezza risale a mezzo secolo fa. E, del resto, l’altro giornale si chiama “Juventud Rebelde”, gioventù ribelle, malinconico richiamo ai tempi mitici, in un Paese in cui i giovani sognano l’America e la ribellione non è ben vista. Tracce della ribellione, malconce, si trovano nei musei della Rivoluzione, nei memoriali agli eroi. L’ex caserma Moncada, assaltata a Santiago il 26 luglio 1953 dai giovani ribelli comandati da Fidel, è oggi una scuola. Nel cortile, bambini in divisa che riprende i colori della bandiera nazionale: e, va detto, a Cuba non si vedono bambini che chiedono l’elemosina, non ci sono le favelas e le bidonville dell’America Latina, non ci si imbatte in una misera degradante, la povertà (mancano molte merci) è decorosa e dignitosa. In un’ala della scuola c’è appunto il museo che ricorda l’inizio della Rivoluzione. All’ingresso le foto: Fidel con Breznev, Fidel con Honecker, Fidel con Arafat. A tutti quanti il comandante in capo mostra un fucile, perché qui il Vangelo guevarista e castrista, la nuova religione, questo dice: il potere nasce dalla canna del fucile. I capi sono militari, non solo politici e sicuramente non teorici del marxismo-leninismo. E per rafforzare questo concetto, in altri luoghi simili, per esempio all’Avana, a due passi dal Malecón, il lungo mare con i suoi edifici coloniali mangiati dalla salsedine, al Museo della Rivoluzione, tra le foto degli eroi, gli zaini dei capi in Sierra Maestra, ovunque ci sono gli scarponi militari: di Fidel, del “Che” e del comandante Camilo Cienfuegos, figlio di anarchici spagnoli, morto in un incidente aereo poco prima che Fidel si dichiarasse marxista-leninista. E poi: le camicie insanguinate, la barella del Che in Bolivia. Non sono icone perché l’icona presuppone e implica astrazione, sono invece reliquie, segni appunto di una fede che prolunga il passato per farlo vivere nell’eterno presente. E forse l’operazione ha un certo successo: le foto, simili ai santini, del “Che” ci sono in ogni negozio, in ogni bottega di barbiere. Capita in una spiaggia frequentata dai cubani di sentire il vicino di ombrellone raccontare aneddoti sul “Che”. E anche l’impressione è quella di una nuova Trinità: Fidel, alla sua destra il “Che”, alla sinistra Camilo. Poi esiste una realtà. La crisi economica morde. Trump non aiuta - per usare un eufemismo - e il turismo statunitense langue. Chi non è in grado di aprire una “casa particular” (stanze private in affitto agli stranieri), o non ha parenti all’estero che mandano i soldi, vive male. Gli intellettuali sono disperati. Ma non si respira un’aria di paura. Capita di incontrare uomini che con uno straniero raccontano liberamente di aver combattuto in Angola e di essere arrabbiati «perché tanti miei compagni sono morti lì per nulla». E il discorso comune è grosso modo: «Abbiamo molto - sanità e scuole - ma vogliamo di più». Poche speranze, però, e tanta postmodernità. A Trinidad, il giorno del compleanno di José Martí, silano gli alunni delle scuole locali. Le ragazze sono truccatissime, portano hot pants e stivaletti, e si muovono, mezze nude, dimenando le anche. Quando arrivano sotto il palco delle autorità, si ode la voce che recita a mo’ di preghiera: «Morire come Che Guevara»
l’espresso 11.3.18
Polemiche
L’intellettuale ha perso
di Marcello Fois
Resta appartato. Non sposta un voto. Oggi è una figura sconfitta. Ma la società ne ha bisogno. La provocazione di uno scrittore
L’intellettuale non può deontologicamente essere simpatico al potere in corso. Mi spingerei fino a dire che uno dei compiti dell’intellettuale è di rappresentarsi, in automatico, come antagonista. Come figura che non cede al ricatto della consolazione, della lamentela, del luogo comune, del consenso. Le società che funzionano, anche a fasi alterne, sono quelle in cui questa precisa forma di antagonismo si esercita senza ricatti. È un mestiere come un altro quello dell’intellettuale, solo un po’ più articolato, perché bisogna sapere più cose senza vergognarsene, avere la tendenza a fare collegamenti senza temere di svuotare le platee, partire dalla complessità senza confonderla con la complicazione, avere il coraggio della parola astrusa o del lemma inusuale. L’intellettuale è quello che ricorda in quanti modi si possa dire la stessa parola di cui tutti paiono accontentarsi. Sa che, per questo semplice contributo, sarà tacciato di saccenteria, ma non si lascia intimidire, accoglie su di sé il peso della povertà lessicale generalizzata e prova a dimostrare che il linguaggio ha valore anche nella scelta, direi selezione, dei termini e non solo nel tono di voce con cui si decide di esprimerli. Prova a spiegare che “la consecutio temporum” migliora la frase, e il messaggio conseguente, come una buona lezione di Pilates migliora il gluteo cadente; che non è affatto vero che anche il figlio dell’ingegner tal dei tali, deportato al MoMa durante la gita scolastica a New York, è in grado di dipingere un quadro di Pollock o di Miró; che quando si parla, e si scrive, per l’ennesima volta, di “silenzio degli intellettuali” bisogna controllare di non essere un intellettuale che ha usato il suo spazio pubblico sulla grande stampa nazionale per lamentare il silenzio degli altri senza aver detto niente del suo silenzio. Gli intellettuali, l’abbiamo appena visto, non spostano un voto. Nel nostro Paese si ha una tendenza perversa a confondere la risonanza con la sostanza. Ci siamo abituati a un’idea di intellettuale pubblico come oracolo consolatorio, con la tendenza all’appiattimento, e quindi all’adeguamento, della lingua e del pensiero. Quel tipo di “intellettuale” parla a comando e quando sta zitto lo fa a ragion veduta. Il suo intento è di trovarsi nel posto giusto nel momento giusto. Quasi sempre il salotto televisivo di turno. Fa il polemico senza esserlo, è presente, lo vediamo tutti, quindi c’è. Ma si muove sempre nei limiti di una performance in cui le parti sono già scritte. Quel tipo di “intellettuale” si rappresenta come popolare, dando a quella parola l’accezione più offensiva e umiliante. Concedendosi mani e piedi al generalizzato adeguamento verso il basso, sminuendosi per affermare la propria superiorità. Ci si rivolge al popolo, dunque si riduce la portata dei concetti, il patrimonio delle parole, al minimo, disprezzando, di fatto, l’interlocutore. Tuttavia, come un buon politico, un buon genitore, un buon insegnante, anche un intellettuale non dovrebbe avere nessun interesse per la popolarità, sapendo, su di sé, di svolgere un compito a rilascio lento, spesso lentissimo. Nel nostro deprimente Paese Pasolini e Bobbio, per fare due esempi semplici, rilasciano ancora senza sosta. E servono come il pane. L’intellettuale dovrebbe sempre tenere presente il peso, fisico e psicologico, delle affermazioni che fa. Dire cose di cui si deve rispondere, significa non usare parole qualunque ma mirare con precisione e dunque avere in mente un preciso scopo. Chi spara nel mucchio, chi non si prende un po’ di tempo per mirare, chi non è in grado di selezionare i propri interlocutori non è un intellettuale. È un’altra cosa, magari anche migliore, ma non un intellettuale. La parola stessa, intellettuale, che noi tendiamo a confinare nella lista nebulosa dei termini a libero accesso come poeta, scrittore, pittore, attore, cantautore, politico, amministratore, direttore di salone del Libro, è invece assai poco accogliente. A differenza di quanto sostengono taluni nessuna di queste funzioni è spaziosa e capiente. Per ognuna di esse occorre attitudine, studio, fatica, coraggio. Non è affatto vero che intellettuali, attori, pittori, poeti, cantautori, politici, amministratori, direttori di Saloni del Libro, possano esserlo tutti. Si può millantare di esserlo, si può persino essere nominati, eletti, rappresentati, pubblicati, senza che questo autorizzi a definirsi tali. Gli intellettuali hanno l’onere di spiegare che la linea del consenso, ai ini dell’incidere sul proprio tempo, è assolutamente ininfluente. Il video su Youtube di un cane a cui vengono applicati quattro piccoli doposci per farlo zompettare sulla neve, e del suo conseguente, per alcuni divertente, disagio nel muoversi, ha ottenuto oltre quaranta milioni di visualizzazioni. E allora? Basta accendere la televisione per percepire con chiarezza quanta differenza ci sia tra la professionalità e l’improvvisazione. Sempre che la si voglia percepire. L’assenza di intellettuali in una società fa in modo che questa percezione si attenui ino a scomparire, ino a diventare un atout anziché un deficit. Permette a chiunque di citare Calvino e la sua presunta leggerezza a sproposito, per esempio. Senza il rompiscatole che ti spiega che tra Valeria Marini e Valeria Moriconi, che pure hanno calcato i palcoscenici del nostro Paese, c’è una diferenza abissale, nonostante l’assonanza onomastica, la nostra memoria collettiva è più povera. E se due o tre persone, dopo la lettura paziente di questo appassionato sproloquio, vorranno digitare su Google il nome Valeria Moriconi, vorrà dire che la mia giornata da intellettuale avrà avuto un senso. L’intellettuale potrebbe persino azzardarsi a spiegare che in campo editoriale i successi sono quelli che sono; che chi esamina le situazioni in corso come se fossero le uniche determinanti per il futuro non ha letto abbastanza; il dibattito sulla “dittatura degli editor” che questa rivista ha recentemente ospitato, per esempio, mi pare un dibattito importante, ma, in qualche modo, pseudointellettuale. Perché chiude in una formula data, direi un po’ limitata, un discorso assai più articolato e, lasciatemelo dire, eminentemente politico con tutta la complessità che ne consegue. Ma se la polemica si limita a “gli editor costruiscono i successi editoriali” non mi interessa, lo dico senza mezzi termini. Vorrei ricordare che non troppo tempo fa i bestseller in questo Paese erano Guido da Verona e Carolina Invernizio, vi dicono niente “Sciogli la treccia”, “Maria Maddalena” o “Il bacio di una morta”? Cercateli su Google. Non posso credere che persone colte e intelligenti confondano il mercato editoriale con la letteratura: sono sempre stati insieme, hanno sempre convissuto. Hanno da sempre svolto compiti diversi. Elsa Morante e Nantas Salvalaggio, coesistevano a pochi centimetri negli scaffali delle librerie, come John Grisham e Joseph Roth. Persino gli U2 e i Jalisse sono stati coevi nella storia della musica recente. Dunque? Quale sarebbe la materia del contendere? Non ci sono mai stati i tempi in cui si pubblicavano solo i migliori, ma quella sensazione ci è rimasta proprio perché, nel tempo, sono rimasti solo i migliori. Tutti gli altri, anche i più famosi del momento, anche i vincitori del vincibile, anche i campioni di incasso e i campioni di presenzialismo, sono deinitivamente scomparsi. Malaparte vive, Pitigrilli è morto. E Pitigrilli contava come Fabio Volo. Discutere come se ci si confrontasse contro un nulla di fatto, come se fossimo all’anno zero, fa un torto a tutti. A chi parla e a chi ascolta. Dire che il più grande scrittore italiano, o francese, o australiano eccetera, coincide col più venduto, è una sciocchezza sesquipedale, che “i più grandi scrittori” in questione contestano per primi. Ma afermare che a causa del loro successo, pilotato, la scrittura muore è altrettanto sciocco. Non sono gli editor frustrati o i Fabio Volo che rovinano la letteratura, anzi spesso la sostengono, perché per ogni Volo che si stravende, per ogni Franchini che si inventa un titolo geniale, si può “rischiare” di pubblicare un Michele Mari o una Laura Pariani. Per ogni Kerbaker che può fare affermazioni di una supericialità sconcertante, che umiliano lui per primo e tutti gli ospiti, molti dei quali ior di intellettuali, del suo “frizzante e leggero” Tempo di Libri 2018, c’è una Chiara Valerio che può svettare per compostezza, dignità e competenza. Per fortuna l’intellettuale sa bene che la gara che sta facendo non si può vincere oggi. Oggi ha già perso. L’intellettuale dovrà tenere conto del fatto che tutto quello che si saprà dei suoi tempi dipenderà dal suo grado di resistenza. Dovrà esserci quando gli altri non ci saranno più ed esercitare il suo presente alla luce di questa importantissima responsabilità
l’espresso 11.3.18
Elogio del danno
di Evelina Santangelo
Il caso potrebbe essere di quelli da archiviare in fretta come uno sproloquio surreale, se non chiamasse in causa figure ed enti culturali di grande rilievo, come l’Associazione italiana editori. In breve. Un giornalista, e dunque uno che in linea di principio rientrerebbe tra chi in una società svolge un ruolo intellettuale, intervista il direttore artistico della Fiera dell’editoria di Milano, bibliofilo, docente universitario, organizzatore culturale. Tema: Non c’è nessuno che possa fare più danno alla Cultura di un intellettuale. Che uno già, dinanzi a una situazione così paradossale, avrebbe subito voglia di chiudere la questione con le parole di Mr Martin della “Cantatrice calva” di Ionesco: «Dimentichiamo, darling, tutto ciò che non è accaduto tra di noi». Perché poi l’intervista è un botta e risposta per dimostrare la superiorità del fare manageriale sul fare intellettuale, dove il fare manageriale è pop e il fare intellettuale è snob. Un po’ come i film noiosi evocati tra i must della sinistra e le scarpette da tennis un po’ di destra del Gaber di Destra-Sinistra. Dunque, festa per i 110 anni dell’Inter come specchietto per allodole-non-lettrici. Una voce che da un altoparlante spara L’infinito oltretombale del Leopardi come versione pop-distopica della Cultura alta. «O parole, quanti delitti si commettono in vostro nome», scriveva Ionesco. E qui sembra che il delitto più grande coincida con la parola «intellettuale». Basta riattraversare alcuni momenti capitali di cosa ha significato ed è costato essere intellettuali per capire che il sospetto non è infondato. Se è abbastanza chiaro a tutti che il termine ha a che vedere con attività riguardanti l’ingegno umano, non è altrettanto evidente se quell’ingegno produca progresso spirituale, artistico, culturale (e, in certi casi, anche materiale) o solo scompiglio. Quasi sempre l’ingegno umano, nelle sue più alte e azzardate manifestazioni, finisce per scompaginare pensieri e visioni consolidate, superare limiti invalicabili. Galileo Galilei era uno scienziato, un uomo che usava intelletto, raziocinio, immaginazione. Se le sue ricerche e scoperte gli sono costate processi e umiliazioni è stato perché avevano conseguenze sul piano intellettuale e culturale, ribaltavano il modo di pensare l’Uomo, la Terra e il Potere. Diversamente nessuno si sarebbe preoccupato di cosa girasse intorno a cosa, se la terra o il sole. Lo stesso vale per Giordano Bruno, accusato di eresia in virtù delle sue concezioni teologiche e ilosoiche. Fu anche e proprio per l’intuizione vertiginosa di mondi ininiti in uno spazio ininito che pagò con morte atroce la colpa d’insinuare smottamenti nella dottrina. E Dante? Non pagò forse con l’esilio quella sua indipendenza di pensiero che innerva i versi della Commedia? Questi timori che da sempre accompagnano la igura dell’intellettuale nel momento in cui può incidere nel pensiero collettivo oggi si tingono di una nuova patina, più sbarazzina: la necessità di andare incontro alle aspettative di svago ed emozioni che sembrano proilarsi come uniche alternative alla fatica di vivere. E qui, il termine «intellettuale» pare evocare un modo di fare cultura, quello di un’intera generazione che, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, per immaginare un futuro possibile tra macerie materiali e spirituali, indentiicò lo scrittore o l’artista con un ruolo civile, facendone portatore di una visione del mondo, di un’emancipazione collettiva ma traducendo questa urgenza nel ruolo di una élite con i suoi riti e le sue parole d’ordine, al punto che tanti (Pasolini, in primis) ne patirono orizzonti limitati o allineamenti. Credo che su questo modo d’intendere il fare intellettuale oggi si alimenti ad arte il sospetto che grava sulla igura dell’intellettuale (la cui accezione implica prevalentemente un’appartenenza più o meno di sinistra insieme a un’idea di snobismo, cerebralismo e privilegio). Nei “Quaderni dal carcere”, un pensatore libero, e per questo buttato in galera, come Antonio Gramsci parlava di un nuovo intellettuale organico alla società, homo faber e homo sapiens insieme, spingendosi a scrivere: «Ogni uomo inine, all’infuori della sua professione, esplica una qualche attività intellettuale… partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, contribuisce a sostenere o a modiicare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare». Una visione che implicava idee dirompenti: responsabilità collettiva, iducia nell’uomo come parte attiva di una società. Mi viene da pensare a quanti uomini e donne oggi svolgono attività di ingegno, coltivano saperi al servizio di una collettività. Penso ai festival piccoli e grandi difusi nel nostro Paese, anche in luoghi diicili o sperduti (come il cuore della Barbagia dove accade L’Isola delle Storie di Gavoi). Penso ai circoli di lettori in aree anche remote. Penso a trasmissioni curate da intellettuali che creano attenzione intorno alla lingua, ai libri: Fahrenheit, La lingua Batte, Quante Storie. Penso a quanti stanno investendo energie nel creare un tessuto difuso di piccola editoria con punte di prestigio come NnEditore. Penso a blog come @CasaLettori con i suoi 62.000 follower. Certo, tutto questo convive col suo contrario, il narcisismo social, il cretinismo che accumula like, il dilettantismo che si fa mestiere, un’orizzontalità che non è spazio di partecipazione democratica ma arroganza di chi pretende il diritto di parola e di ascolto senza prendersi la briga di dare solide fondamenta al proprio pensiero. E convive con il cinismo di chi specula su pregiudizi e ignoranza, anzi li alimenta, grazie a un mezzo potentissimo come Internet, non diversamente da quel che accadde con la Radio nelle mani di gente come Goebbels, che scrisse appunto: «La vera radio è propaganda. Propaganda signiica combattere in ogni campo di battaglia dello spirito, generando, moltiplicando, distruggendo, sterminando, costruendo, disfacendo», alimentando quel che Hannah Arendt chiama il «caos delle opinioni». In un momento in cui è diicile orientarsi tra fake news e pressappochismi che hanno la posa d’intellettualità, e tra le spirali di un mercato in cui è difficile scegliere, dichiarare o avallare la dichiarazione che gli intellettuali fanno danno alla Cultura significa screditare uomini e donne che stanno investendo energie e ingegno in un progetto culturale diffuso contribuendo a costruire una concezione di cultura e società che non si accontenti di pastoni scimmiottanti le tv commerciali o un’idea di pop ridotto a roba frizzantina, difondendo così l’idea che la cultura sia un gioco di prestigio o uno slogan ben confezionato. Se c’è una cosa che dovremmo tenere a mente tutti è che ogni progresso umano, scientifico, culturale, sociale, spirituale e anche materiale, lo dobbiamo a intellettuali, gente di ingegno che, come, si è messa in solitudine pensosa davanti a un colle, un orizzonte, e tenendo isso lo sguardo su quel limite ha saputo immaginare mondi capaci di andare oltre, anche a costo di esili e umiliazioni. Negare questo ruolo signiica essere i peggiori nemici non solo della cultura ma della società tutta, operare per ridurla a un’entità supina e inebetita, per farne quel che più fa comodo al potere di turno.