domenica 11 marzo 2018

Il Sole domenica 11.3.18
I due silenzi
di Gianfranco Ravasi


Nella vita, come nell’arte, è difficile dire qualche cosa che sia altrettanto efficace
quanto il silenzio.
Ho alle spalle un mare di parole mie dette e scritte. Forse è proprio per questo che riconosco la verità dell’affermazione del filosofo Ludwig Wittgenstein appena citato. Già la tradizione neopitagorica dichiarava che il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio. Certo, c’è silenzio e silenzio. Il mutismo è semplicemente vuoto per cui non sempre è vero che chi tace acconsente, perché spesso chi tace semplicemente non dice e non sa dire niente. C’è, però, un altro silenzio che è linguaggio del cuore, come accade a due innamorati che si guardano negli occhi senza pronunciare verbo e quel linguaggio è più eloquente delle parole. C’è un silenzio che è ascolto dell’altro. C’è il silenzio della riflessione intima della mente e della coscienza e, infine, c’è il silenzio della mistica, della contemplazione, della meditazione. Perciò ha ragione il proverbio giapponese che dice: «L’uomo in silenzio è più bello da ascoltare».

Il Sole domenica 11.3.18
La ricerca
Princìpi di costituzionalismo universale
di Sabino Cassese


Il mondo, per secoli funestato da guerre, diviso da valori diversi, separato da frontiere, va verso l’unificazione? Pur nelle tante diversità esistenti tra nazioni e comunità nazionali, si può riconoscere uno strato comune di valori, principi e regole? Hanno prodotto qualche effetto il desiderio di pace tra le genti, l’apertura al commercio, la tendenza a rispettare un corpo sia pur minimo di “regole del gioco”?
A queste domande cercano di rispondere questi due volumi collettanei, che affrontano il tema in modi diversi, il primo studiando la convergenza di principi costituzionali nazionali, il secondo esaminando l’affermazione di principi costituzionali superiori a quelli statali.
Il volume sui valori costituzionali, frutto di una ricerca collettiva di durata quindicennale, muove dal riconoscimento che non c’è bisogno di un governo mondiale per avere un insieme di diritti riconosciuti universalmente: basta una relativa apertura degli ordini nazionali e un loro convergere verso principi comuni. Un primo elemento è importante: di 197 Costituzioni nazionali esistenti nel mondo nel 1991, solo 20 risalgono ad anni precedenti al 1950. Quindi, c’è stato un rinnovamento recente del patrimonio costituzionale mondiale. Inoltre, a mano a mano che questo patrimonio si è rinnovato, l’elenco dei diritti garantiti ai cittadini si è arricchito. Per accertare se si è venuto stabilendo un “corpus” di valori globalmente affermatisi per convergenza di prescrizioni nazionali, i 21 coautori autori hanno scelto 15 Paesi molto diversi tra di loro, appartenenti a continenti diversi, Europa, America, Asia, Africa, e si sono chiesti se vi sono disposizioni costituzionali comuni, applicate coerentemente dalla giurisprudenza, tra le quali sono stabilite comuni scale di priorità. La conclusione è che c’è un notevole numero di principi e diritti consacrati nazionalmente (circa 60), un accrescimento del loro riconoscimento, un notevole numero di prestiti testuali, notevoli sovrapposizioni. Ma alla somiglianza dei testi non fa riscontro la stessa applicazione giurisprudenziale e le realtà non corrispondono alle dichiarazioni costituzionali: se queste ultime convergono, le prime divergono, perché di principi comuni si fanno applicazioni diverse. La vita concreta dei diritti è influenzata da fattori storici, culturali, religiosi, procedurali.
Se, a livello nazionale, alla convergenza dei testi non corrisponde la convergenza dei contesti, e, quindi, le dichiarazioni costituzionali sono sempre più comuni, mentre le “living constitutions” continuano a divergere, possiamo sperare nell’affermazione di una Costituzione globale, superiore, universale, che possa imporsi dall’alto su quelle nazionali? C’è, in altre parole, un movimento verso un costituzionalismo cosmopolitico?
Gli autori del volume sul costituzionalismo globale si sono posti tre domande: il mondo globale sta diventando più costituzionale? Che cosa spiega la progressione del costituzionalismo globale? E questo sviluppo è desiderabile? A queste domande i coautori rispondono da diversi punti di vista, storico, politico, giuridico e sociologico, considerando idee, istituzioni, pratiche. Della storia, gli autori considerano gli sviluppi nel mondo antico, nel medioevo, nell’epoca degli imperi, nell’epoca moderna. Delle componenti ideologiche delle politiche di globalizzazione gli autori esaminano cosmopolitismo, liberalismo, “costruttivismo”, realismo e teorie critiche, interrogandosi sul modo in cui queste hanno contribuito alla formazione di ideologie che vanno al di là dei nazionalismi. La conclusione è che vi è un contesto unitario che si è sviluppato, anche se in modo non uniforme, e che al costituzionalismo globale si è andata accompagnando, sia pur più lentamente, una (imperfetta) costituzionalizzazione globale.
Singolari due assenze. Da un lato, nel volume non si tiene conto dell’ampio sviluppo delle istituzioni globali che tendono a stabilire i parametri della democrazia e a imporne il rispetto o a promuoverne l’attuazione in singoli Paesi (ad esempio, il fondo delle Nazioni Unite per la democrazia o la similare istituzione europea). Dall’altro, è assente l’esame del diritto amministrativo globale, cioè di quel gran numero di regimi regolatori che, specialmente nell’ultimo trentennio, hanno regolato quasi ogni attività umana, dai trasporti alla finanza, all’uso del mare, all’uso dell’energia nucleare, a internet, e così via. Questi regimi costituiscono la base su cui si sviluppano i condizionamenti costituzionali e le relative regole.
An inquiry into the existence of global values. Through the lens of comparative constitutional law , a cura di D. Davis,
A. Richter, C. Saunders, Oxford-Portland, Hart, pagg. 493, € 49,55
Handbook on Global Constitutionalism ,
a cura di A. F. Lang Jr, A. Wiener, Cheltenham-Northampton, Elgar,
pagg. 458, € 172

Il Sole domenica 11.3.18
Evoluzione umana
Il testamento di Neandertal
di Guido Barbujani


Ma allora, questo Neandertal? Per decenni l’abbiamo rappresentato come un bruto, una creatura che di umano aveva solo il nome scientifico; poi abbiamo cominciato a pensarlo come un fratellastro un po’ tonto; e adesso salta fuori che probabilmente i Neandertal praticavano l’arte prima di noi. Un po’ alla volta le nostre conoscenze sono aumentate, e abbiamo capito un po’ meglio questi strani, vecchi europei. Ma è cambiato anche il nostro modo di immaginarceli, i neandertaliani, e per strada abbiamo perso parecchi pregiudizi.
Li abbiamo persi tutti? O addirittura troppi? Non si sa, ma a fare il punto sulla situazione arriva tempestivo il bel libro di Silvia Condemi e François Savatier, Mio caro Neandertal. Il punto per modo di dire, perché non è mai finita: è di questi giorni la scoperta di pitture rupestri in Spagna datate a 64mila anni fa, quando in Europa c’erano solo loro, i Neandertal. Dunque, a dipingere non hanno imparato da noi; e neanche a farsi belli. Oggi si sa che già prima di incontrarci i neandertaliani non trascuravano il look, si decoravano il corpo con pigmenti e penne d’uccello.
Come la veda Silvana Condemi, paleoantropologa, (Savatier invece è un giornalista scientifico) lo si capisce alla prima occhiata alla copertina: «L’uomo di Neandertal non è mai scomparso: vive in noi», ci si legge. Prima di arrivare a conclusioni tanto impegnative, Condemi e Savatier ripercorrono le tappe della preistoria europea, cominciando dalla specie che oggi chiamiano Homo heidelbergensis. Alcuni di loro (pochi: qualche migliaio), sarebbero migrati in Europa, 800mila anni fa o giù di lì, e si sarebbero evoluti dando origine ai Neandertal; altri, rimasti in Africa, avrebbero invece dato origine a popolazioni sempre più simili a noi, Homo sapiens, che meno di 50mila anni fa si sono spinte fino in Europa. Due gruppi imparentati, quindi, che attraverso percorsi evolutivi diversi in continenti diversi si sono poi incontrati di nuovo, 800mila anni dopo.
Cosa è successo in tutti questi anni, e poi al momento dell’incontro, e dopo? Quando e perché i Neandertal sono diventati quello che sono diventati? Conta molto il clima freddo in cui hanno dovuto sopravvivere. «Piccoli, tarchiati, ma possenti»: così Condemi e Savatier li descrivono. Ma attenzione a non restare ancorati a vecchi stereotipi. Condemi e Savatier spiegano bene come funziona la scienza, come siamo arrivati a ricostruire l’evoluzione dei neandertaliani e la loro vita quotidiana, sempre precisando cosa è certo, cosa è probabile, e quelle che sono ipotesi ragionevoli, ma difficili o impossibili da dimostrare. E siccome alcune ipotesi sono anche affascinanti, cominciano ogni capitolo con un brano narrativo. Ci sono precedenti illustri, (La danza della tigre di Bjorn Kurtén, Muzzio), o un po’ meno illustri (di recente lo abbiamo fatto anche Andrea Brunelli e io, in Il giro del mondo in sei milioni di anni, Il Mulino). Ma funziona: la fiction ci avvicina a gente vissuta tanto tempo fa.
Fra le ipotesi non provate c’è quella che sia rimasto DNA neandertaliano in ciascuno di noi. Qui ho qualche dubbio più degli autori. Dopo aver descritto in pagine ben documentate e spesso molto piacevoli la dieta, la struttura sociale e la cultura neandertaliane (e come facciamo a conoscerle), 10 si affronta un tema caldo, la possibile ibridazione fra Neandertal e noi. In questo caso, «noi» vuol dire gli antenati di tutti quelli che oggi vivono fuori dall’Africa. C’è un dato su cui non si discute: i DNA degli attuali abitanti dell’Eurasia sono più simili a quello di Neandertal di quanto non lo siano i DNA degli africani: un po’ di più, fra l’1 e il 4%. Può voler dire che, uscendo dall’Africa, questi nostri antenati si sono mescolati e riprodotti con i Neandertal, portando poi con sé, nelle successive migrazioni, un po’ del loro DNA. Però potrebbe voler dire, semplicemente, che gli antenati di chi oggi sta in Eurasia erano già da prima un po’ più simili ai Neandertal degli africani. L’uomo assomiglia più allo scimpanzé che al canguro, non perché ci siamo accoppiati con gli scimpanzé, ma perché condividiamo con loro un pezzo più lungo della nostra storia evolutiva.
Non è il caso, qui, di riassumere in poche righe un dibattito scientifico complesso. Diciamo che qualche liaison, non si sa quanto dangereuse, è provata: oltre al Neandertal di Riparo Mezzena, citato nel libro, il DNA di una mandibola di 30mila anni fa indica che un sapiens romeno aveva un trisavolo neandertaliano. Ma un conto è dire che qualcuno di noi ha fatto figli con qualcuno di loro, un altro dire che tutti noi eccetto gli africani, discendiamo da questi figli ibridi. Come Condemi e Savatier notano, l’unione fra maschi neandertaliani e femmine sapiens era probabilmente sterile; però il DNA suggerisce che neanche l’unione fra femmine neandertaliane e maschi sapiens abbia lasciato discendenti. E allora, chi si è unito con chi? Gli incroci possibili sono solo questi due, direi.
Non c’è da scandalizzarsi se questioni così importanti restano aperte. I grandi progressi della paleontologia, dell’archeologia e della genetica non devono farci dimenticare che abbiamo solo qualche osso, qualche oggetto scheggiato e qualche frammento di DNA per ricostruire la storia di miliardi di persone, attraverso milioni di anni. È emozionante poter lanciare uno sguardo su vicende così remote, ma tante cose sono destinate comunque a sfuggirci.
Mio caro Neandertal si conclude con un salto nel futuro sorprendente ma giustificato, che ci avvicina a creature vissute tanto tempo prima di noi. Neandertal ci ha lasciato un testamento, scrivono Condemi e Savatier; sta a noi trarne qualche insegnamento:Sono sopravvissuto senza crescere/Sono scomparso perché incapace di crescere/Tu sei sopravvissuto perché cresci sempre/Scomparirai perché non decresci mai?
Silvana Condemi, François Savatier,
Mio caro Neandertal , Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 220, € 24

Il Sole domenica 11.3.18
Teoria del «tutto»
Se l’universo sfugge all’algoritmo
di Vincenzo Barone


«Tutto» in fisica può voler dire due cose: da un lato, l’universo nella sua interezza, oggetto di studio della cosmologia, dall’altro, l’insieme di tutti i fenomeni naturali. È in questa seconda accezione che si parla di «teorie del tutto», per indicare quelle teorie che si propongono di descrivere e comprendere, sotto poche leggi universali, tutto ciò che avviene in natura a livello fondamentale. Ma, come spiega il fisico Frank Close in un saggio appena pubblicato da Bollati Boringhieri, che ha il duplice pregio della sintesi e della chiarezza, buona parte del «tutto» ci è ancora ignota, e dunque la costruzione di una teoria del tutto non può che partire dall’unificazione dei fenomeni conosciuti. Questo processo, che passa per la formulazione di «teorie del qualcosa» e di «teorie del quasi tutto», è reso possibile da una fortunata caratteristica della natura – la sua organizzazione a «strati», approssimativamente indipendenti l’uno dall’altro –, che ci consente di fare progressi nonostante l’incompletezza delle nostre esperienze.
Sebbene l’unità sia da sempre un valore in fisica, è con Einstein che l’elaborazione di una teoria unificata diventa un obiettivo esplicito e sistematico della ricerca. “Il fine della scienza – affermava il padre della relatività – è, da una parte, la comprensione più completa possibile della connessione fra le esperienze sensoriali nella loro totalità, dall’altra, il raggiungimento di questo fine mediante l’uso di un numero minimo di concetti e di relazioni primarie”. All’epoca, le forze di natura conosciute (e le rispettive classi di fenomeni) erano due: la gravità e l’elettromagnetismo. Einstein cercò per trent’anni di unificarle producendo una decina di proposte teoriche, tutte fallimentari (“Gli uomini non dovrebbero unire ciò che Dio ha separato”, ebbe a dire in proposito un altro genio della fisica, il caustico Wolfgang Pauli). Diffidando della meccanica quantistica, Einstein riteneva che la teoria unitaria dovesse essere una teoria classica dei campi. Oggi le cose si sono complicate, perché le forze sono diventate nel frattempo quattro, con l’aggiunta delle due forze nucleari, “forte” e “debole”. In compenso, sappiamo che l’ingrediente disdegnato da Einstein è essenziale: le teorie fondamentali non possono che essere quantistiche. Dalla sintesi di relatività ristretta e meccanica quantistica è nata la teoria quantistica dei campi, il formalismo alla base del Modello Standard, che descrive le particelle elementari e le tre forze rilevanti del microcosmo (elettromagnetica, forte e debole). Questa teoria, però, è solo parzialmente unificata e presenta un alto grado di arbitrarietà. Inoltre – problema ben più grave – non si sa come quantizzare la quarta forza, la gravità (quando si tenta di farlo compaiono quantità infinite prive di senso fisico).
Close paragona l’attuale situazione della fisica teorica a quella di inizio Novecento, quando, in una famosa lezione alla Royal Institution di Londra, Lord Kelvin pronunciò alcune parole passate alla storia: «La limpida bellezza della teoria dinamica – disse – è al momento oscurata da due nubi». Kelvin pensava che sarebbe bastato dissipare con qualche abile mossa quelle nubi – riguardanti il moto della Terra nell’etere e la descrizione statistica di materia e radiazione – per mettere tutto a posto. Non poteva immaginare la tempesta che stava per scatenarsi: di lì a poco, proprio da quelle nubi sarebbero scaturite le due teorie che hanno sovvertito la fisica contemporanea, la relatività e la meccanica quantistica. Oggi come allora, alcune «nubi» oscurano il cielo della fisica fondamentale. Una di esse consiste nel cosiddetto problema della «gerarchia»il fatto che enormi fluttuazioni quantistiche si cancellino alla perfezione lasciando esattamente quei piccoli residui che corrispondono alle proprietà misurate delle particelle elementari. Un’altra riguarda la costante cosmologica, responsabile dell’espansione accelerata dell’universo. L’origine più naturale di tale costante sarebbe l’energia del vuoto, che secondo la teoria quantistica dei campi permea tutto l’universo, ma la discrepanza tra il valore osservato e la stima teorica è inimmaginabile: 1 seguito da 120 zeri! Queste e altre «nubi» indicano chiaramente che occorre andare al di là dell’attuale paradigma teorico, e le proposte in tal senso non mancano: il panorama comprende modelli di grande unificazione basati sulla supersimmetria (che però non incorporano la gravità), vari approcci di gravità quantistica e uno schema molto più generale, che tenta di unificare tutto, la teoria delle stringhe. Ma la risoluzione di ogni singolo problema ne fa comparire altri, alcuni dei quali piuttosto indigesti (come il multiverso, che sfida i criteri stessi di scientificità delle teorie).
Nel 1980, in una conferenza intitolata «Fine in vista per la fisica teorica?» (che Close cita in apertura), Stephen Hawking previde, con una probabilità del 50%, che i fisici avrebbero raggiunto la teoria finale entro la fine del millennio. Tornando sulla questione dieci anni dopo e constatando che i progressi erano stati più lenti di quanto ci si aspettasse, si limitò a spostare in avanti il traguardo di altri dieci anni. Nel 2018 la meta appare ancora lontana e nessuno si sbilancia più sul futuro. Troveremo mai una teoria del tutto? E prima ancora, è immaginabile una simile teoria? Hawking suggeriva tre scenari: 1) Esiste una teoria definitiva, che un giorno saremo in grado di scoprire; 2) Non esiste una teoria finale, ma solo una sequenza infinita di teorie che descrivono l’universo con precisione crescente; 3) Non esiste alcuna teoria dell’universo: al fondo delle cose, gli eventi sono soggetti solo al caso. La preferenza del fisico inglese andava alla prima opzione. Ma molti la pensavano (e la pensano) in maniera diversa: «Se scoprissimo davvero la teoria finale che spiega tutto – scrisse nel 1994 Tullio Regge – rimarrei deluso dall’universo e lo considererei opera di un dilettante». Regge, come il suo collega e amico Freeman Dyson, propendeva per un universo inesauribile, infinito anche nella sua struttura logica (la seconda opzione). Quanto alla terza opzione, a sostenerla per primo è stato John Archibald Wheeler, uno dei fisici più inventivi del Novecento. Secondo Wheeler, dopo l’era «galileiana», caratterizzata dalla descrizione quantitativa dell’universo, e l’attuale era «newtoniana», caratterizzata dalle leggi matematiche della natura, dobbiamo aspettarci una terza era, quella della «legge senza legge», in cui scopriremo che le leggi fisiche fondamentali emergono da un substrato caotico, costituito da una miriade di eventi quantistici elementari.
C’è anche un quarto scenario, proposto dallo stesso Regge e dal fisico matematico Roger Penrose: la loro idea, decisamente radicale, è che la teoria del tutto sia non computabile nel senso logico-matematico del termine. Le attuali teorie sono algoritmi che ci consentono di calcolare porzioni del mondo, ma, a partire dagli studi di Kurt Gödel e Alan Turing, sappiamo che ci sono problemi che non ammettono algoritmi risolutivi. Perché non immaginare che il problema del «tutto» sia di questo tipo? Se così fosse, l’universo avrebbe escogitato un bel modo per rendersi irriducibile a quel suo infinitesimo sottosistema che è la nostra mente.
vincenzo.barone@uniupo.it
Frank Close, Teorie del tutto , trad. di Francesca Pe’, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 136, € 19

Il Sole domenica 11.3.18
Rossana rossanda
Saper fare i conti con il corpo
di Eliana Di Caro


Non è mai semplice decidere le copertine di un libro, ma quella di Questo corpo che mi abita appare particolarmente indovinata: ritrae due mani intrecciate, eleganti, adagiate su un contrastante sfondo color mattone che ne esalta la delicatezza.
Lo studio del pittore rinascimentale Andrea del Sarto sembra evocare le mani dell’autrice, Rossana Rossanda, che in un capitolo centrale della raccolta, quello che dà il nome al volume, si sofferma sul decadimento del suo corpo e di come vi è venuta a patti in una fase della vita in cui ha scoperto anche l’importanza del sé. Ricorda le sue mani, «loro sì che erano “la forma”. Erano bellissime»; poi, invecchiando, hanno denunciato l’inesorabilità del tempo: «A ogni articolazione c’è una collinetta, un cornetto sconnesso, irregolare, come se sotto le sue ossa premessero per uscire». Sul tema del diktat del corpo, della bellezza e dell’incombere della vecchiaia ci sono pagine di spietata sincerità, sia su se stessa sia sulla “condanna” cui è sottoposta la donna che è anzitutto «vista: è lo sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui prima di tutto è bella o brutta, bionda o bruna, gambe e seni e fianchi. Lei non può non vedersi vista. (...) Siamo così avvezze a curare la nostra apparenza, che appare eccentrico il non farlo».
Il libro - a cura di Lea Melandri, che aveva ospitato i singoli contributi sulla rivista «Lapis» - riprende alcuni momenti della riflessione di Rossanda, dedita per molti anni esclusivamente al partito e alla sua causa, e per questo a volte criticata o poco compresa dalle militanti femministe: ai loro occhi, come ricorda la stessa autrice, non si era resa autonoma ma aveva finito per «martirizzarsi» nell’antica dipendenza dall’universo dell’uomo. Nel saggio «Autodifesa di un io politico» l’intellettuale comunista rifiuta questa lettura e spiega chiaramente l’urgenza della sua scelta: «Ho visto attorno a me, vicino o lontano, gente che non riusciva a essere perché costretta da inutili illibertà. Inutili nel senso che derivavano da prepotenze, arroganze o azioni di potere che si possono condannare e scartare da sé. (...) Non tollero che non abbiamo gli stessi diritti di gestire la nostra sorte e la nostra intrinseca, non coatta, liberatoria diversità perché bloccati dalle necessità imposte dal potere, dal denaro, da tutto ciò che fa di alcuni oggetto di scelte altrui. Questo per me è “politica”, sono “gli altri” - non è una privazione, è come respirare». Vuol dire lotta contro la disuguaglianza, rifiuto di rassegnarsi di fronte a un destino predeterminato, distanza rispetto al ripiegamento delle donne su stesse.
Un tema, quest’ultimo, su cui torna più avanti, nel contributo «Il profondo e la storia», scritto nei drammatici giorni della fine dell’89, dove invita le altre a realizzare che non sono fuori dalla storia come credono («nessuno lo è») ma, se mai, «molti e quasi tutte le donne sono state messi fuori dai luoghi di decisione della storia». Rossanda, la ragazza del secolo scorso che fa politica non solo femminile, ma interviene anche «nell’altra politica» rivendicando questo impegno con orgoglio (e senza considerare gli uomini dei nemici), è considerata un «caso». Una che non «sarà mai liberata dalle furie che ha alle calcagna finché vorrà capire. Sii soltanto donna, estranea, parziale». Impossibile, sottolinea lei: «Io non sono due, sono una sola».
eliana.dicaro@ilsole24ore.com
Rossana Rossanda, Questo corpo
che mi abita , a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri, Torino,
pagg. 120, € 12

Il Sole domenica 11.3.18
Italia e cultura
Scienze umane in fuorigioco
di Tullio Gregory


Le riforme del Cnr hanno portato a una perdita di centralità di istituti che vantano anni di storia e precisi ambiti di ricerca
È noto come nell’ambito delle cosiddette “scienze dure” sia sempre stata diffusa qualche perplessità, a volte opposizione, relativa alla presenza nel CNR delle scienze storiche, filologiche, filosofiche, linguistiche, archeologiche, giuridiche sociologiche e psicologiche, ed è confermato dalla storia del CNR dopo la riforma del 1963: se quella riforma ebbe il merito – e il coraggio – di inserire nel CNR le scienze umane, secondo il prevalente schema europeo, nella successione delle varie riforme la loro presenza è stata infatti progressivamente marginalizzata. Basti pensare che nel 1963 la legge istitutiva del nuovo CNR prevedeva tre comitati di consulenza per le scienze umane, più un quarto interdisciplinare per i beni culturali. Dunque una presenza forte (complessivamente i Comitati di consulenza erano dieci), che diede subito ottimi risultati con l’avvio di strutture e di ricerche che hanno fortemente inciso sulla cultura italiana, universitaria e del CNR. Successivamente una riforma del 1999 soppresse i Comitati di consulenza – espressione della comunità dei ricercatori – poi sostituiti (2003) con i Dipartimenti, strutture equivoche fra ricerca e amministrazione, con forte diminuzione della presenza delle scienze storiche, filologiche, ecc.: su undici Dipartimenti, due soli per queste discipline (Identità culturale; Patrimonio culturale). Poi un’altra mini riforma ridusse (2012) i due dipartimenti a uno solo (Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale) che comprende dalla psicologia all’archeologia, dalla linguistica alla sociologia, dalla filologia all’informatica. Nessuno avrebbe mai proposto di riunire, per esempio, scienze mediche e scienze della terra! L’accorpamento in un unico dipartimento di tutte le scienze umane ha portato al bando di concorsi dissennati, ove sono stati messi a confronto contributi scientifici fra loro non paragonabili, dall’edizione critica di un testo greco a una ricerca di scienze cognitive, dallo scavo archeologico al diritto europeo. Senza dire dell’altrettanto dissennata adozione di criteri imposti dall’ANVUR (ove i nomoteti non sanno neppure cosa sia un’edizione critica), in base ai quali la ricerca scientifica (abbassata a livello aziendalistico di “prodotto”) perde valore rispetto ad altre attività che distraggono il ricercatore dai compiti suoi propri.
Da questo complesso panorama, qui solo accennato, è facile capire la considerazione nella quale sono tenuti nel CNR gli istituti afferenti al Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale, i quali, si badi, nelle valutazioni promosse dallo stesso CNR, occupano i primi posti, anche rispetto agli istituti afferenti alle cosiddette scienze dure. Su questa situazione si dovrà riflettere, e l’attuale presidente del CNR (come il direttore del Dipartimento) non portandone alcuna diretta responsabilità, perché l’ha trovata, potrebbe promuovere un esame del ruolo della scienze umane nel CNR; d’altra parte la comunità stessa del CNR e delle Università dovrà decidere se continuare a subire una situazione sempre periferica di queste scienze (dalle quali dipende in gran parte il prestigio internazionale della nostra cultura) e se, contemporaneamente, non sia il caso di rifiutare, con disobbedienza civile, le norme dettate dall’ANVUR che non hanno alcun rispetto per la ricerca scientifica e i suoi risultati.
Preoccupa peraltro la serpeggiante prospettiva di una nuova piccola riforma interna, anche questa senza alcun progetto culturale, che punta alla distruzione degli istituti esistenti nel Dipartimento di scienze umane e sociali, per creare nuovi istituti, non più diciannove, ma al massimo sette (numero probabilmente scelto per attenti calcoli cabalistici e significati riposti): ciò significa – almeno per le discipline delle quali stiamo parlando – che non si intende accertare se esistano programmi culturali che comportino nuove forme di collaborazione fra alcuni istituti, ma che per principio i saperi rappresentati dalle scienze umane non hanno un’identità precisa, e anche le ricerche più specialistiche possono essere condotte da qualsivoglia istituto a prescindere dalle metodologie proprie di ciascuno. In questa serpeggiante riforma l’unico ideale sembra essere espresso nella formula “più grande è più bello”, non, si badi, più efficiente. Sicché si rischia di vedere soppressi istituti con molti decenni di storia, a volte più di mezzo secolo, con ambiti di ricerca ben precisi, affermati a livello internazionale come luoghi esemplari di ricerche originali, valutati di primaria importanza in tutto il mondo. Così si configura il rischio che un’impresa come quella monumentale ed esemplare dell’OVI (Istituto Opera del vocabolario italiano) – con la grande banca dati dell’italiano delle origini sino alla fine del Trecento – si trovi accorpata con un istituto di linguistica computazionale che, come si comprende facilmente, con ricerche di italianistica non ha nulla in comune, salvo l’uso del computer; o che un altro istituto, da oltre cinquant’anni impegnato in ricerche sul lessico di cultura (Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee), con oltre 125 volumi pubblicati per il solo Lessico, si trovi unito a uno di Storia del pensiero filosofico e scientifico moderno: due istituti che non hanno nulla in comune per quanto riguarda la propria storia, la propria metodologia, le proprie ricerche e pubblicazioni, il profilo dei ricercatori.
Si potrebbe continuare: ma lo scenario è già abbastanza preoccupante perché non meriti una particolare attenzione da parte del presidente del CNR e di tutta la comunità degli studiosi. Non si mettono in liquidazione strutture efficienti e storicamente affermate con una riforma priva di ogni programma culturale, ignorando, sembra, che sono proprio le discipline umanistiche ad assicurare all’Italia posizioni di primo piano nelle valutazioni internazionali della ricerca scientifica.

Il Sole domenica 11.3.18
Antiche mnemotecniche
Sublime arte per smemorati
di Lina Bolzoni


Memoria artificiale? E ce ne parla, e ce la mette sotto gli occhi con le sue immagini, un manoscritto del Quattrocento? Tutto questo oggi ci risuona familiare e strano nello stesso tempo. Per noi è normale pensare a strumenti (dal computer al tablet, al telefonino) che appunto in modo artificiale sorreggono, al limite sostituiscono la nostra memoria; si tratta però appunto di macchine, di strumenti, non di tecniche che si affidano alla nostra mente, non di procedure, semplici e arzigogolate nello stesso tempo, che cercano di porre ordine nelle sterminate praterie, nei misteriosi spazi, nelle tenebrose caverne della nostra memoria (così se la raffigurava sant’Agostino). Eppure il manoscritto di cui parliamo è solo un esempio di una tradizione millenaria - l’arte della memoria - che ha cercato di rafforzare le nostre capacità naturali di ricordare affidandosi al controllo della mente. Ha cercato di porre un ordine tra i fantasmi disordinati che, carichi di passioni, si presentano nei nostri sogni e nei nostri ricordi, ha cercato di rimodellare i territori della memoria, proiettandovi spazi su cui scrivere (di libro della memoria parla all’inizio della Vita nuova Dante, che quel libro leggerà e riscriverà sul modello dei manoscritti miniati che gli erano familiari), vi ha costruito palazzi, templi, teatri, edifici in cui collocare le immagini cui affidare i ricordi, così da ritrovare le une e gli altri quando con la mente si ripercorreranno quei luoghi. Nel mondo classico l’arte della memoria serve agli oratori, a chi deve recitare in pubblico un discorso; nel Medioevo si intreccia con la novità della religione cristiana: è al servizio dei predicatori, ma guida anche alla purificazione morale e alla contemplazione, scandisce e imprime nella mente le tappe che portano a una trasformazione interiore; nel Quattrocento ha un’ampia diffusione e viene incontro a bisogni diversi: serve a medici e giuristi, a letterati e ambasciatori, ma anche a giocare a carte ricordando quelle che sono già uscite, oppure a tenere a mente crediti, debiti, date e nomi , oppure le merci imbarcate su di una nave, assume insomma un carattere più tecnico e più pratico.
A questa fase “pratica” dell’arte della memoria, o memoria artificiale, come recita il titolo, appartiene il manoscritto italiano, oggi conservato a Parigi, nella Biblioteca Sainte-Geneviève (ms.3368), che questo splendido libro ci fa vedere e conoscere: vedere perché ce ne offre una preziosa riproduzione in facsimile, di alta qualità; conoscere perché il testo è trascritto criticamente, accompagnato da un accurato commento e da una serie di saggi che da diverse prospettive disciplinari ci permettono di capire cosa abbiamo di fronte, ci danno tutti gli strumenti necessari per apprezzare questo oggetto strano e bellissimo: una specie di fossile giunto a noi da un mondo alieno, in cui ricordare era una necessità vitale, una pratica riconosciuta e ricercata, e insieme qualcosa che ha una sorta di inquietante familiarità, perché ha a che fare col potere delle immagini e con i meccanismi attraverso cui la nostra mente fissa e trasforma i suoi ricordi.
Federica Pich e Andrea Torre hanno curato il volume, hanno scritto due dei saggi introduttivi e coordinato i contributi, affidati a studiosi di età e di nazioni diverse: Sabine Seelbach ha inserito il testo nella tradizione quattrocentesca mostrando come sia influenzato dalle Artificialis memoriae regulae che nel 1434 Jacopo Ragone dedica al marchese di Mantova; Federica Toniolo ha analizzato le illustrazioni, collocandole nella Venezia degli anni Sessanta-Settanta del Quattrocento, in una bottega in cui operava un maestro di formazione tardogotica; Carlo Alberto Girotto ha fornito una descrizione codicologica del manoscritto; Sara Shroukh ha interrogato il testo in un’ottica antropologica, sottolineando le modalità cognitive che esso mette in scena. Come interagiscono parole e immagini nel teatro della memoria che il manoscritto descrive e insieme via via costruisce ce lo mostrano in modo preciso e avvincente i due saggi di Federica Pich e di Andrea Torre. Quello che rende speciale il nostro manoscritto è infatti la ricca presenza delle immagini, disegni e miniature a tempera, a volte incompiuti. Già nella dedica l’anonimo autore sottolinea questa componente: ha scritto, dice, il testo dietro le insistenti preghiere di Bartolomeo, che ha un «ardentissimo disio» di avere a disposizione la memoria artificiale non solo scritta «ma in apparente imagine». Non si tratta cioè soltanto di costruire le immagini mentali, le imagines agentes, capaci di colpirci emotivamente, che la tradizione raccomandava, ma di dar corpo e visibilità a quelle immagini, così che accompagnino, commentino il testo, lo integrino, ne suggeriscano lo sviluppo. E quel che abbiamo davanti è uno straordinario set di immagini fantastiche, quasi surreali: corvi neri che spuntano da stivali rossi, scale che si arrampicano nel vuoto, sirene accovacciate sul pavimento che suonano il flauto, improbabili botteghe, scaffali su cui si allineano oggetti e esseri disparati, banchetti in cui i commensali reggono strani oggetti e fanno gesti incongrui. Nello spazio teatrale delle stanze della memoria, la cui mappa si dispiega all’inizio del manoscritto, compare, elegantemente vestito, chi pratica l’arte. Costruisce le immagini per ricordare, ma assiste anche alle scene violente e sanguinose di chi ferisce, uccide, caccia le immagini e i personaggi che le incarnano perché ha bisogno di liberarsi dai ricordi. Se l’arte della memoria è difficile, ancor più lo può essere, a volte, l’arte dell’oblio.
Di l’artificial memoria. Ms.3368 Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi ,
a cura di Federica Pich e Andrea Torre,
La Stanza delle Scritture, Napoli,
pagg. 275, € 130

Il Sole domenica 11.3.18
Voglia di altri mondi
Filosofi sedotti dagli alieni
di Armando Torno


La città di Königsberg, oggi Kaliningrad, sita nella Prussia orientale, è un’enclave russa. Sono rimasti miseri frammenti del grande passato. Durante il governo di Brežnev, una cinquantina di anni fa, fu demolito il castello dell’ordine teutonico, insieme a pochi altri monumenti tedeschi superstiti. Si salvò soltanto quanto restava della cattedrale, accanto a cui nell’angolo Nord-Est, in un piccolo mausoleo costruito nel 1924, c’è la tomba di Immanuel Kant. Una lapide, in tedesco e russo, ricorda una frase del filosofo tratta dal finale della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me».
Parole che ogni volta sorprendono. Il «cielo stellato sopra di me» fu un pensiero frequente di Kant. In molte sue opere, dalle critiche alla Storia universale della natura e teoria del cielo», il filosofo si poneva continuamente domande su possibili abitanti extraterrestri. Ora Elliott J. Thomas, in un suo divertente libretto dal titolo Siamo soli nell’universo?, ha utilizzato Kant come uno dei maggiori testimoni sull’argomento. Riporta alcune sue citazioni. «Se fosse possibile – scrisse il sommo - decidere la cosa per mezzo di una qualche esperienza, io scommetterei tutta la mia fortuna sul fatto che almeno uno dei pianeti che vediamo è abitato. Ciò non è una semplice opinione, ma una ferma fede…». Tali affermazioni non sono distanti da quelli del regista Stanley Kubrick che – anch’egli riportato da Elliott J. Thomas – dichiarava: «È ragionevole ammettere che debbano esserci innumerevoli miliardi di pianeti dove è emersa la vita biologica, e le probabilità che tale vita abbia sviluppato un’intelligenza sono alte».
Una risposta si trova anche nelle Operette morali di Giacomo Leopardi, nel Dialogo della Terra e della Luna. Quest’ultima replica a una questione su altri “abitatori”, posta dal suo pianeta: non sono «né bestie né uomini, che io non so che razza di creature siano né gli uni né l'altre». Si può continuare con Voltaire o retrocedere al XV secolo con Cusano, il quale ne Il Dio nascosto scriveva: «Gli abitanti delle altre stelle, quali che siano, non sono paragonabili con quelli del nostro mondo». Il mondo greco credeva in tale ipotesi, come provano numerose testimonianze, a cominciare da un esplicito frammento di Anassagora, amico e maestro di Pericle. O dal pitagorico Filolao, vissuto tra il V e il IV secolo prima della nostra era, che popolava la luna di piante e animali che «non espellono alcun rifiuto».
Un discepolo di Democrito, Metrodoro di Chio, nel IV secolo a. C., in un frammento sostenne: «Considerare la Terra l’unico mondo abitato in uno spazio infinito è assurdo come ritenere che in un intero campo seminato a miglio germogli un solo granello». Le ipotesi si moltiplicarono dal XVI secolo in poi. Da Giordano Bruno a Keplero («Ogni pianeta, insieme ai suoi occupanti, è servito dai propri satelliti»), da Fontenelle che credeva alla «pluralità dei mondi» ad Huygens via via sino a Lenin non c’è che l’imbarazzo della scelta.
A volte ci si accorge che le domande poste non erano aiutate dai mezzi tecnici ora disponibili. Basti pensare al Green Bank Telescope, in West Virginia, attivo in una zona dove sono quasi assenti tutte le forme di trasmissione radio. E' il più grande radiotelescopio del mondo, con un diametro di 100 metri. Il 31 agosto dello scorso anno il notiziario dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (www.media.inaf.it) annunciava che erano stati captati misteriosi segnali, “lampi radio veloci”, provenienti da una galassia nana distante tre miliardi di anni luce da noi. La fonte e la natura, sconosciute; non era possibile stabilire chi o che cosa avesse emesso tali impulsi. Messaggi di un pianeta perso negli abissi dello spazio? Altro? Crediamo sempre di esseri soli nell’universo?
Elliot J. Thomas, Siamo soli nell’universo? Filosofia degli extraterrestri, il melangolo, Genova, pagg. 80, € 7

Il Sole domenica 11.3.18
Marsilio Ficino (1433 - 1499)
Tra Talmud e Vangelo
Un bel volume indaga su uno dei temi meno noti dell’ibridazione culturale dell’epoca: quello con l’ebraismo
di Giulio Busi


Purché se ne parli… È regola antica, aurea, intramontabile. Vecchia quanto la Fama, il mostro alato dai mille occhi e dalle ancor più numerose orecchie. Vola la Fama, instancabile, insaziabile. E mentre vola, sparla. Vero, falso, impossibile, cosa importa? Basta che la diceria scorra inarrestabile. Volete essere buoni e dimenticati o cattivi e sulla bocca di tutti? Prendete per esempio due grandi nomi del passato, cominciate a dirne un po’ male, e vedrete che se ne ricorderanno in molti, e a lungo. Due maghi, ecco cosa sono. O meglio, cosa sono stati, perché i poveretti sono morti e sepolti già da un pezzo.
I due incantatori in questione sono nientemeno che Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, i massimi filosofi dell’Umanesimo. È il 1514, e durante le prediche di quaresima, a Santa Maria del Fiore, saltano fuori i dettagli di riti vecchi ormai di decenni, quando Ficino e Pico se ne andavano per la campagna di Careggi, bisbigliando certe invocazioni, spargendo profumi e ripetendo astruse litanie cabbalistiche. E cosa volevano ottenere, di grazia? «Fare miracoli et prophetare», questo lo scopo di tanto affaticarsi con formule e scongiuri, almeno secondo il predicatore, che tuona dal pulpito contro la buonanima, si fa per dire, dei due scapestrati.
Maldicenza o verità storica? Girolamo Benivieni, un amico intimo di Pico, prende carta e penna per confutare le dicerie, e difendere la memora del grande Mirandolano. E già che c’è, prova a scagionare anche Ficino. Ma la sua apologia non ci convince più di tanto. Io stavo con Pico giorno e notte – questo il succo dell’argomentazione – e me ne sarei senz’altro accorto, di manovre magiche così imbarazzanti. Pico è morto già nel 1494, a soli 31 anni, probabilmente avvelenato. E Ficino l’ha seguito nel 1499. Che ci si continui a scandalizzare alle loro spalle, nella Firenze ricaduta in mano medicea, dopo l’avventura della repubblica, savonaroliana prima e guidata da Pier Soderini poi, la dice lunga sul carattere innovativo e provocatorio del sodalizio filosofico tra i due.
Non che siano sempre andati d’accordo. Pico, bello, ricco, blasé, nonostante la giovanissima età, arriva a Firenze nel 1484, proprio per avvicinarsi alla cerchia di Ficino, maestro indiscusso dei platonici, al di qua e al di là delle Alpi. Il Conte della Mirandola è troppo impaziente per stare alla scuola di chicchessia, e dopo solo qualche mese ha da ridire sul platonismo ficiniano, che finisce per trovare demodé. È innegabile però che l’incontro tra Ficino e Pico, subito allargato ad Angelo Poliziano e a Lorenzo de’ Medici, segni l’apogeo intellettuale dell’età laurenziana.
Nella Firenze degli anni Ottanta e dei primissimi Novanta del Quattrocento si cristallizza un’atmosfera intellettuale irripetibile, che influenzerà a lungo la cultura del nostro Paese. È una mescolanza di raffinatezza, azzardo, gusto per l’esperimento, resa possibile dalla protezione e, perché no, dalla spregiudicatezza del Magnifico, signore di fatto della città e accorto arbitro della politica dell’intera Penisola. Nell’aneddoto del 1514 rimane il pettegolezzo, l’eccesso magico imputato favolisticamente a Ficino e a Pico.
La realtà della Firenze medicea è molto più complessa, creativa, sorprendente. La magia, perché c’è anche quella, e l’esoterismo, si inseriscono in un progetto più ampio di armonia tra le sapienze. Nelle biblioteche di Firenze si ammassano codici antichi e rarissimi. La città, ancora ricca e intraprendente, si trasforma in un emporio di cultura, con una concentrazione di conoscenze mai vista prima. Ficino, Pico, Poliziano sono interpreti, ciascuno con accenti propri, di un sogno di compenetrazione tra culture. Sono convinti che ci sia una linea nascosta, che lega la filosofia pre-cristiana, le tradizioni occulte degli ebrei, la sapienza di Hermes Trismegisto e la teologia cristiana. Questa è l’ipotesi su cui si lavora alacremente «all’ombra del Lauro» – ovvero, per metafora, al riparo del potere di Lorenzo il Magnifico.
In un bel volume, ben munito di filologia e carico di prove testuali, Guido Bartolucci va alla scoperta di uno dei temi meno noti dell’ibridazione culturale tardo-quattrocentesca. Di Ficino ermetico e platonico s’è scritto e riscritto. Ma del Ficino ebraista o, per lo meno, ebraizzante, non si sapeva finora quasi nulla. Bartolucci mette in fila le tracce sparse nei testi ficiniani e in alcuni frammenti biografici. Soprattutto dal De Christiana religione, pubblicato per la prima volta in volgare nel 1474, poi in latino nel 1476 e nuovamente rimaneggiato nel 1484, affiora l’idea che esista un’arcana tradizione talmudica, che concorderebbe con il messaggio evangelico. Le prove testuali addotte da Ficino sono false, ovvero si tratta di testi ebraici addomesticati e stravolti. Ma l’esperimento è illuminante, perché ci mostra come il buon Marsilio non solo condivida ma addirittura preceda il gran exploit cabbalistico di Giovanni Pico. È solo nel dicembre 1486, infatti, che Pico pubblica le sue 900 Conclusiones, vero atlante dell’utopia laurenziana di concordia universale delle conoscenze, in cui il misticismo ebraico la fa da padrone.
Come dimostra Bartolucci, le soffiate testuali ebraiche vengono al Ficino da una fonte poco limpida. È un ebreo siciliano, convertito e piuttosto gaglioffo, che conosciamo bene per il suo ruolo di ispiratore e traduttore per Pico. Il nome? Uno solo non gli basta. La vita, si sa, è complicata, soprattutto quando si muta fede, e magari si deve cambiar in fretta aria. Shemuel ben Nissim da ebreo, Guglielmo Raimondo Moncada da cristiano, Flavio Mitridate da latitante, questo il dossier onomastico del dotto trasformista, che nel 1483 è stato coinvolto a Roma in un delitto, probabilmente un omicidio, e ha dovuto far in fretta i bagagli. Grandi eruditi – Ficino, Pico, Poliziano. Un gran signore – Lorenzo de’ Medici. E un gran imbonitore – Flavio Mitridate. La vecchia Fama strabuzza i suoi mille occhi e aguzza le diecimila orecchie. Con protagonisti così, se ne (s)parlerà per secoli.
Guido Bartolucci, Vera religio. Marsilio Ficino e la tradizione
ebraica , Paideia, Torino,
pagg. 158, € 32

Il Sole domenica 11.3.18
Catilina
La congiura nella congiura
di Alessandro Schiesaro


È davvero lunga, a Roma, la stagione delle guerre civili. Quando i contemporanei di Cesare e Cicerone volgono lo sguardo all’indietro contemplano quasi un secolo di lotte intestine, guerre, vendette. Diversi i protagonisti, dai Gracchi a Mario e Silla, e poi proseguendo sulla china disastrosa che conduce al trionfo e alla morte di Cesare stesso. Nata all’insegna del fratricidio, Roma è ormai una città troppo ricca e potente per temere un nemico esterno, solo se stessa. Non stupisce che tutto il secolo prima di Cristo sia percorso da timori e preannunci della fine, quasi che il mondo intero si stia pericolosamente avvicinando al baratro. Roma, dopotutto, è il mondo. Lo avevano annunciato gli aruspici etruschi, per i quali la fine era non solo ineluttabile, ma imminente, quando si erano udite trombe squillare nel cielo sereno. Lo confermavano con regolare insistenza portenti terrificanti: un aspro terremoto a Modena, il rogo dei Libri Sibillini nel tempo di Giove.
È in quest’epoca d’angoscia che nel 63 a.C. una congiura minaccia davvero di far crollare le istituzioni repubblicane. Lucio Sergio Catilina è il rappresentante ideale delle tensioni e delle contraddizioni di una società in affanno. Aristocratico ma in rovina, conservatore per nascita eppure pronto a far leva sui ceti popolari, un senatore che uscito dall’aula si nasconde nelle bettole per complottare contro lo Stato. Non ha nulla da perdere, e come lui molti altri, umili e potenti. Solo uno sconvolgimento radicale del sistema politico e finanziario può liberarlo dal peso opprimente dei debiti e restituirlo al ruolo e al prestigio dei suoi avi.
È difficile, perché in fondo è quasi troppo facile, scrivere un romanzo su Catilina. Di lui e delle sue mosse sappiamo molto, grazie a fonti antiche insolitamente abbondanti. Le Catilinarie di Cicerone, il console che scopre la congiura, la proclama in Senato, spinge l’avversario alla fuga e ne consegna al carnefice i complici che cadono nelle sue mani, trasportano il lettore nella trepidazione di una seduta memorabile, lasciano assistere al colpo di scena del disvelamento. E poi Sallustio, che non molti anni dopo le vicende affida la sua ricostruzione dei fatti a una monografia sofisticata, drammatica.
Il problema, ovviamente, è che Cicerone, ma anche Sallustio, tutto sono meno che testimoni spassionati. Al console preme scolpire l’autoritratto di salvatore della patria, dell’uomo che con sagacia e determinazione ha saputo porre rimedio al più grave pericolo che la Repubblica avesse fino ad allora affrontato, anche a sprezzo del pericolo personale. Le intenzioni di Sallustio sono più sfumate, e più articolata è la sua narrazione. Loda Cicerone, il cui primo discorso definisce «magnifico e utile alla Repubblica», e fa pronunciare a Catone un discorso implacabile che caldeggia l’immediata esecuzione dei congiurati. Ma altrettanto spazio la sua Congiura di Catilina riserva all’astuta riflessione di Cesare: critico, ci mancherebbe, eppure sottile nei distinguo. Per grave che sia lo sdegno occorre mettere da parte ogni emozione, ammonisce. Nessuna pena, «concede, è adeguata al crimine di Catilina, tanto grave da risultare quasi comprensibile: e allora, paradossalmente, meglio evitare la condanna a morte e attenersi alle pene usuali. Meglio non creare un precedente che in questo caso sarebbe sacrosanto, ma aprirebbe le porte ad abusi e distorsioni. Un capolavoro di equilibrismo e Realpolitik, insomma, che mentre evita di alienare del tutto la parte politica in qualche modo rappresentata da Catilina getta le basi per future alchimie di potere. In Senato, Catilina stesso ha in fondo l’ultima parola. Inseguito e sconfitto arringa i suoi soldati prima della battaglia finale nel nome della comune “antica virtù” – vinto, ma certamente non domo. Lo stesso tratto superbo, sprezzante, che lo aveva spinto a presentarsi in Senato per fronteggiare Cicerone. Alle accuse aveva reagito ricordando i meriti della sua illustre famiglia infangati da un parvenu, “un inquilino dell’Urbe”. Sconfitto, aveva promesso di estinguere la sua rovina nella catastrofe.
Alessandro Banda trasforma abilmente in opzione narrativa la difficoltà di confrontarsi con fonti antiche così dettagliate ed eloquenti. Neppure il suo Catilina esce dalle ombre del discorso indiretto, del resoconto interessato. Ma alle spalle di un Cicerone troppo desideroso di gloria per conservare fino in fondo la scaltrezza del politico, il romanzo disegna una trama occulta parallela, una congiura nella congiura, frutto di una rete di alleanze e di interessi che di lì a poco trasformeranno il console da apparente trionfatore in capro espiatorio. Mentre nelle ville dei potenti Cesare e Crasso tramano contro di lui, la vox populi per le strade e nei negozi, qui racchiusa in dialoghi rapidi, vivaci, amplifica le critiche rivolte a un Cicerone precipitoso, avventato, ingenuo. Cesare, d’altronde, lo aveva detto a chiare lettere: le emozioni, in un caso tanto eccezionale, rischiano di oscurare il giudizio.
In fondo era vero. Cicerone, per salvare la Repubblica, ne aveva violato le leggi, mettendo a morte cittadini liberi, certo in piena emergenza, ma senza seguire le procedure previste. Un errore di valutazione involontario, anzi no, perché previsto nei minimi dettagli (nel romanzo) dai suoi avversari occulti, maestri nello sfruttare la sua debordante vanità contro un uomo che «ama se stesso di un amore inesauribile». Un amore funesto, che in pochi anni lo condannerà all’esilio. Tutto previsto, o appunto orchestrato, da Cesare e Crasso. O forse neppure da loro. Si aggira nelle pagine di questo romanzo-pastiche, intessuto di rielaborazioni dei modelli antichi (e non solo), un personaggio che trasforma la saggezza dei filosofi in arma di potere. È il misterioso “Vasaio”, il Nigidio Figulo seguace di Pitagora, che seminascosto nell’ombra spinge il console all’errore guidando la mano di Cesare e Crasso in obbedienza a un oscuro disegno di saggezza secolare. Per Cicerone, ma anche per Cesare, il potere è solo illusione effimera.
Alessandro Banda, Congiura , Guanda, Milano, pagg. 328, € 19