Indifferenza…
internazionale 18.3.18
La settimana
Russia
di Giovanni De Mauro
“Nei paesi occidentali le procedure elettorali sono certe ma il risultato è incerto, in Russia le procedure sono incerte ma il risultato è certo”. Igor Mintusov, consulente politico moscovita, riassume così sul New York Times le contraddizioni delle elezioni presidenziali russe del 18 marzo, un appuntamento che serve a far sembrare democratico un processo politico che di democratico non ha più nulla. Vladimir Putin è talmente forte e popolare che ha il problema di come vincere senza esagerare, per evitare un risultato così schiacciante da diventare imbarazzante. E vuole anche allontanare ogni sospetto di brogli, un rischio inutile visto il successo scontato. I giornali di Mosca raccontano che i suoi collaboratori puntano alla “formula 70/70”: il 70 per cento di voti con il 70 per cento di affluenza. Ma per portare tante persone ai seggi, dando così legittimità al voto, il presidente uscente deve sconfiggere uno dei suoi principali avversari: l’indifferenza degli elettori, in particolare dei più giovani. La loro è un’indifferenza nei confronti delle elezioni, non di Putin. La popolarità del presidente è immensa e fuori discussione, ed è anche il risultato della sistematica repressione di ogni opposizione e di un incessante lavoro di propaganda. Putin è diventato il padre della Russia postcomunista, l’uomo forte che ha portato stabilità e un minimo livello di benessere, e soprattutto il leader che ha restituito al paese il prestigio internazionale. Ma superata la facciata apparentemente monolitica del Cremlino e del potere putiniano, la Russia resta estremamente complessa e sfaccettata, geograficamente e culturalmente diversissima. “È una terra di storie”, scrive Karl Ove Knausgård nel reportage che pubblichiamo in copertina. E raccontare queste storie nascoste è un modo per restituire la reale dimensione sociale, prima ancora che politica, della Russia.
internazionale 18.3.18
Immagini
Ferme tutte
Bilbao, Spagna 8 marzo 2018
La manifestazione in occasione della giornata internazionale della donna a Bilbao, nei Paesi Baschi. “In Spagna l’8 marzo 2018 sarà ricordato come il giorno dell’orgoglio femminista, quello in cui le donne hanno fatto tremare il maschilismo”, ha scritto il sito d’informazione Diario.es. In più di 120 città del paese centinaia di migliaia di persone, donne e uomini, sono scese in piazza per protestare contro la violenza di genere e la discriminazione, e per chiedere parità di diritti. Lo sciopero generale indetto per la giornata ha coinvolto anche i mezzi d’informazione: hanno aderito più di ottomila redattrici della carta stampata e delle tv, sotto lo slogan #Las PeriodistasParamos, noi giornaliste ci fermiamo.
internazionale 18.3.18
Russia
La farsa della democrazia nel regno di Putin
Il risultato delle presidenziali del 18 marzo è già scritto: il leader
russo sarà confermato alla guida del paese. Grazie a un’innegabile
popolarità personale e alla propaganda del Cremlino
Di Deutsche Welle, Germania
In Russia tutto procede secondo copione. Vladimir Putin sta per conquistare il suo quarto mandato da presidente: con ogni probabilità per altri sei anni sarà ancora lui a guidare il paese. Il leader del Cremlino, 65 anni, è ampiamente in testa ai sondaggi, e la sua vittoria alle presidenziali del 18 marzo è data per certa. Stando alle previsioni degli analisti, potrebbe ottenere più del 70 per cento dei voti. Per l’ex funzionario del Kgb, eletto presidente per la prima volta nel 2000, si tratterebbe di un record personale. Secondo il sociologo Lev Gudkov, direttore del Levada Center, un autorevole centro studi sull’opinione pubblica, i rating di approvazione di Putin sono alle stelle. “L’alto grado di approvazione per le sue politiche si basa, oltre che sull’attuale ondata di entusiasmo patriottico-militare, anche sulla mancanza di alternative e su alcune illusioni”, ha detto Gudkov lo scorso dicembre. Tra queste c’è la convinzione, molto diffusa tra i russi, che Putin continuerà a garantire l’attuale livello di benessere.
Gli avversari
Alle presidenziali parteciperanno in totale otto candidati. Tra loro ci sono leader politici di grande esperienza (come il populista di destra Vladimir Žirinovskij e il liberale Grigorij Javlinskij), ma anche alcuni volti nuovi. Al posto dell’anziano Gennadij Zjuganov, il Partito comunista ha candidato Pavel Grudinin, deputato dal 1997 e ammiratore di Stalin. La mossa sembra raccogliere consensi. Grudinin, che ha 57 anni e dirige un’azienda agricola di successo nei pressi di Mosca, è secondo nei sondaggi. L’unica donna in corsa è Ksenija Sobčak, presentatrice televisiva di 36 anni e iglia di Anatolij Sobčak, l’ex sindaco di Pietroburgo che negli anni novanta lanciò la carriera politica di Putin. L’autoproclamata “candidata contro tutti” sta cercando di guadagnarsi i voti dei liberali, aiutando così il Cremlino, consapevolmente o meno, a far salire l’affluenza elettorale. A un primo sguardo sembrerebbe rappresentato l’intero spettro politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, con Putin posizionato al centro. Ma è un’impressione ingannevole. Nei sondaggi tutti i candidati, ovviamente con l’eccezione di Putin, sono sotto la soglia del 10 per cento e nessuno è una reale minaccia per il favorito. Anzi, alcuni sono sospettati di essere candidati di comodo, scelti dal Cremlino. In alcuni dibattiti televisivi capita che Putin sia criticato, ma spesso queste trasmissioni degenerano in tv spazzatura. E il leader del Cremlino se ne tiene alla larga. Al leader dell’opposizione Aleksej Navalnyj, che negli ultimi anni si è accreditato come il principale avversario di Putin, non è stato permesso di candidarsi. Per questo i suoi sostenitori sono stati invitati a boicottare il voto. Navalnyj, che ha 41 anni, vive a Mosca ed è da tempo impegnato in campagne contro la corruzione, nel 2017 è stato condannato con la condizionale per un reato di natura economica in un processo che – afferma l’accusato – è stato una farsa. Gli analisti politici e i sondaggisti ritengono che, pur non avendo i numeri per sconfiggere Putin neanche in elezioni libere e democratiche, Navalnyj avrebbe però potuto ridimensionare l’inevitabile successo del leader del Cremlino. L’incognita maggiore del voto è probabilmente rappresentata dal comportamento che il leader dell’opposizione terrà dopo il 18 marzo: tutti si chiedono se lancerà appelli per nuove manifestazioni contro Putin. “Credo che i cittadini abbiano tutto il diritto di ribellarsi contro la tirannia”, ha dichiarato Navalnyj il mese scorso. “Quelle che si svolgono in Russia sono proteste assolutamente pacifiche. L’atteggiamento dei manifestanti è molto più tranquillo di quello delle autorità, che accompagnano ogni corteo con un’enorme presenza di forze dell’ordine”. Nell’inverno 2011-2012 Navalnyj fu tra i leader delle proteste nate dopo la vittoria alle elezioni legislative del partito di Putin, Russia unita, che fu accusato di brogli. L’insoddisfazione della classe media urbana portò in piazza decine di migliaia di moscoviti, e per la prima volta l’immagine del presidente come leader di successo fu messa in discussione. Il nodo dell’affluenza Dopo la vittoria alle ultime presidenziali, nel 2012, Putin ha imposto limitazioni alla libertà di stampa e alla libertà di manifestare. Nel 2016, inoltre, ha creato la Rosgvardija (Guardia nazionale della Federazione russa), una forza di polizia sotto il suo controllo personale, che ha il compito di soffocare ogni possibile insurrezione. Per dare un segnale di cambiamento, sempre nel 2016 è stato sostituito il capo della commissione elettorale, pesantemente screditato in seguito alle accuse di brogli. Uno dei compiti del suo successore è far aumentare l’affluenza alle urne. Negli ultimi anni in Russia l’astensionismo è cresciuto molto, soprattutto nelle grandi città. Temendo una scarsa partecipazione al voto del 18 marzo, il Cremlino e le autorità russe stanno cercando di corteggiare i cittadini con tutti i mezzi disponibili: dai video comici diffusi sui social media ino alla pubblicità elettorale sulle bottiglie del latte e ai test gratuiti per la diagnosi precoce del cancro in alcuni seggi elettorali. Anche la data del voto, che cade nel quarto anniversario dell’annessione della Crimea, è stata scelta nella speranza di far rivivere l’euforia del 2014. In giro non c’è aria di protesta. Questo clima tranquillo è conseguenza delle scelte fatte in politica interna, ma soprattutto della politica estera del Cremlino. Il terzo mandato presidenziale di Putin è durato sei anni – e non quattro come i precedenti – grazie a un emendamento costituzionale fatto approvare nel 2008. In questo periodo la Russia è cambiata profondamente. L’annessione della Crimea è stata un punto di svolta: ha fatto schizzare in alto la popolarità di Putin, ha spinto l’opinione pubblica a stringersi intorno al presidente e ha portato il paese a scontrarsi con l’occidente. Da allora i politici e i mezzi d’informazione hanno alimentato queste tendenze, come se la Russia fosse una fortezza assediata dall’esterno. La retorica bellica è diventata parte della vita quotidiana. Le sanzioni approvate dai paesi occidentali dopo l’annessione della Crimea e la guerra in Donbass in un primo momento sono state applicate con una certa riluttanza. Ma dopo i tentativi di Mosca di interferire nelle elezioni statunitensi del 2016 sono state rinnovate con maggior rigore. Finora questi provvedimenti hanno creato a Mosca danni minori di quelli causati nel 2014 dal crollo dei prezzi di petrolio e gas, le due principali voci delle esportazioni del paese. Dopo le difficoltà degli ultimi anni, l’economia russa è tornata a crescere, anche se lentamente, e l’inflazione rimane bassa. Tuttavia nel 2017 il reddito reale è calato per il quarto anno consecutivo, con una contrazione dell’1,7 per cento. Le spese militari, invece, sono rimaste molto alte, a scapito degli investimenti in istruzione e sanità. La politica estera Grazie all’intervento militare in Siria a ianco del presidente Bashar al Assad, Mosca è riuscita a porre termine al suo parziale isolamento sulla scena internazionale e ad avere di nuovo un ruolo di primo piano in Medio oriente. Putin ha così realizzato la sua aspirazione: riportare il paese al rango di grande potenza. Nel discorso sullo stato della nazione pronunciato il 1 marzo ha parlato di sé come di un leader che guida il proprio popolo da una vittoria all’altra. La presentazione delle nuovi armi nucleari russe, indirizzata soprattutto agli Stati Uniti, è stata una sorpresa. Nella sostanza il messaggio di Putin è: non provate a toccarci. La politica estera sembra essere il tema principale della campagna elettorale di Putin. Più si avvicina il giorno del voto, più frequentemente il presidente fa riferimento all’arsenale atomico di Mosca. In un’intervista raccolta per il documentario The world order 2018 Putin ha spiegato a chiare lettere che, se sarà attaccato, userà le armi nucleari, anche se questo dovesse portare a “un disastro globale per l’umanità”. D’altronde, ha specificato, “che senso avrebbe per noi un mondo senza la Russia?”. Tutto lascia pensare che ci aspettano tempi turbolenti. Gli Stati Uniti stanno preparando nuove sanzioni. La Russia adotterà probabilmente ritorsioni. Il conflitto in Ucraina potrebbe rapidamente registrare una nuova escalation. In Medio oriente, inine, la guerra in Siria potrebbe ulteriormente allargarsi, rendendo necessario un maggiore coinvolgimento russo. Putin ha usato gli ultimi anni per raforzare le capacità militari della Russia e per allontanarla dall’occidente. E oggi alcuni osservatori temono che dopo il voto, o al più tardi dopo i mondiali di calcio (che la prossima estate saranno ospitati dalla Russia), il paese possa diventare una scheggia impazzita.
internazionale 18.3.18
Le opinioni
Le donne senza potere in America Latina
Di Sylvia Colombo
L aprova che si usano criteri diversi per valutare gli uomini e le donne che governano è che le quattro donne che hanno guidato un paese dell’America Latina negli ultimi quindici anni sono state messe in discussione dai commentatori politici e dall’opinione pubblica sempre a partire dalla stessa domanda: “Questo paese eleggerà di nuovo una donna?”. È una domanda assurda. Immaginate se, nel Venezuela sommerso dai problemi, qualcuno si chiedesse se i cittadini “torneranno a eleggere un uomo” dopo il disastro combinato dal dittatore Nicolás Maduro, o se qualcun altro rifacesse la stessa domanda in Nicaragua dopo il regime autoritario di Daniel Ortega, o a Cuba dopo la riapertura delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Immaginate se qualcuno dicesse: “Questa volta non permetteremo a un uomo di andare al potere”. Da Alberto Fujimori in poi tutti i presidenti del Perù sono stati uomini. Tutti sono stati messi in discussione per diversi motivi, ma mai nessuno si è chiesto: “Questa volta non faremmo meglio a eleggere una donna?”. È uno dei motivi per cui le donne che di recente sono state al potere in America Latina – Cristina Fernández (Argentina), Dilma Roussef (Brasile), Laura Chinchilla (Costa Rica) e Michelle Bachelet (Cile) – parlano di una discriminazione sotterranea nella valutazione del loro operato, a prescindere dalle ideologie e dal contesto politico. Dall’11 marzo, quando Michelle Bachelet ha lasciato l’incarico, in America Latina non c’è un paese che sia guidato da una donna. Come se non bastasse, in questo anno caratterizzato da diverse elezioni legislative e presidenziali, le donne candidate sono poche: tra di loro spiccano Margarita Zavala, moglie dell’ex presidente messicano Felipe Calderón Hinojosa, e Marta Lucía Ramírez, avvocata e leader del Partito conservatore colombiano. Quello che sembrava un passo avanti senza precedenti all’improvviso ha lasciato il posto alla consapevolezza che bisogna fare ancora tanto per sconfiggere la cultura maschilista nella regione. Basta un errore e piovono le critiche. Nelle manifestazioni contro Cristina Fernández, organizzate per protestare contro la corruzione e la crisi economica, spesso la presidente veniva chiamata égua, una parola usata in Argentina per riferirsi a una prostituta. A Laura Chinchilla, come ha scritto di recente il New York Times, veniva chiesto spesso se piangesse a causa dei problemi del governo. Michelle Bachelet ha subìto un’invasione costante nella sua vita personale e sentimentale. I brasiliani inoltre ricordano sicuramente gli insulti sessisti rivolti a Dilma Roussef durante le proteste nel paese. La presidente brasiliana, che ha attribuito la sua messa in stato d’accusa anche alla misoginia, una volta ha dichiarato: “Dicono che sono dura e severa, ma se parlassero di un uomo che ha le stesse qualità direbbero che è forte e inflessibile”. Dopo otto anni alla guida del governo cileno (in due mandati non consecutivi), Bachelet ha detto: “In politica quello che non si pretende da un uomo lo si pretende da una donna. L’unica cosa che chiedo è che il taglio sia fatto con le stesse forbici”. E poi ci sono gli stereotipi che hanno influenzato l’opinione pubblica, le inevitabili attenzioni rivolte al modo in cui quelle donne si vestivano, camminavano, sorridevano (o non sorridevano), si comportavano in pubblico, al fatto che fossero o no accompagnate da uomini. Una situazione di questo tipo può essere risolta in due modi. Il primo è investire su un’istruzione di qualità, che può evitare che i bambini sviluppino dei pregiudizi. Il secondo è con la politica delle quote. In tutti i paesi in cui questa politica è stata applicata, si è registrato un aumento del numero delle donne in parlamento. E questo è un buon segnale: la società si abitua alla presenza di deputate, senatrici, ministre (non solo in ambiti associati alla famiglia ma anche in aree considerate “difficili” come la sicurezza e l’economia). La politica delle quote funziona bene in alcuni paesi dell’America Latina. L’Argentina è l’esempio migliore. Negli anni novanta fu deciso che il 30 per cento dei parlamentari del congresso dovevano essere donne e oggi il numero delle parlamentari supera quella quota sia alla camera sia al senato, mentre in Brasile le deputate sono solo l’11 per cento. In Cile, invece, dopo che è stato introdotto questo sistema, la rappresentanza femminile è passata dal 15 al 23 per cento. Non è molto, ma è un passo avanti. Speriamo che in futuro rieleggere una donna presidente sia considerato naturale. E speriamo che le prossime leader non ricevano insulti sessisti o giudizi sulla loro attività politica in base al colore del loro vestito, o a insinuazioni sulla loro vita sessuale.
SYLVIA COLOMBO è una giornalista brasiliana del quotidiano Folha de S. Paulo e scrive sul New York Times.
“Dietro la crescita economica del paese, le caratteristiche della cultura tradizionale sono crollate…”
internazionale 18.3.18
Un paese che svanisce
Il fotografo Yan Ming racconta una Cina che rischia di perdere le proprie tradizioni. Le sue immagini sembrano semplici, ma sono misteriose e complesse, scrive Christian Caujolle
Prima di trovare la sua strada e di dedicarsi alla fotografia, Yan Ming ha cambiato molti lavori. È stato professore di liceo, musicista rock, editore di riviste e addetto stampa per una casa discografica. Nato a Dingyuan, nella provincia di Anhui, in Cina, solo nel 2010 ha deciso di fare il fotografo a tempo pieno per realizzare il progetto Country of ambition. Questo complesso lavoro ha un titolo difficile da interpretare – Un paese ambito? Il paese dell’ambizione? – e offre uno sguardo amareggiato sulla Cina di oggi. Ming lo spiega così: “Il progetto rilette sulla storia della Cina e su com’è cambiato il nostro modo di vivere”. Questa frase inizialmente era stata cancellata all’ultima edizione del festival di fotografia di Lianzhou, nella provincia di Guangdong, in cui Ming ha esposto alcune delle sue opere in grande formato. Ma le immagini non sono state toccate dalla censura. Fragili e forti al tempo stesso mostrano una Cina che si fa fatica a collocare in un tempo, in una condizione e in un’identità. Il lavoro di Ming in bianco e nero, scattato in pellicola con una vecchia Rolleiflex comprata all’inizio della sua carriera, è un elogio della fotografia. Uno stile classico, dato anche dall’equilibrio del formato quadrato, sempre controllato con attenzione; una distanza giusta, mai troppo ostentata, che lascia respirare gli spazi, che permette ai personaggi di trovare il loro posto nell’inquadratura; e una tonalità rara, a mezzatinta, che usa i grigi con un’apparente dolcezza e senza l’intento di spettacolarizzare.
Un sentimento di nostalgia
Questi elementi si ritrovano per esempio nella foto della statua senza testa o in quella in cui c’è una donna che tiene un grosso pesce come un trofeo. Potremmo citare decine di immagini di Ming che dietro a un’apparente delicatezza si rivelano invece molto violente. E la stessa cosa vale per la composizione: a prima vista abbiamo l’impressione di osservare delle fotografie realizzate nel rispetto delle regole di equilibrio, costruite con eleganza a partire dalle linee diagonali. In realtà, anche se non alzano mai la voce e si lasciano leggere facilmente, sono immagini complesse. Le composizioni sono leggermente fluttuanti, a volte decentrate, e questo squilibrio, anche se lieve, contribuisce al loro fascino. Spesso si concentrano su un solo elemento – un personaggio perso sullo sfondo, un uomo appoggiato alla ruota della sua bicicletta sotto gli alberi o una bambina sul bordo del letto – e nonostante questo sono incredibilmente misteriose e indecifrabili. Che significa l’aria smarrita del ragazzo nudo sulla riva del fiume che fuma una sigaretta dopo aver fatto il bagno? È perso nei suoi pensieri o non pensa a nulla? Perché è lì da solo? “Perché” è la domanda che si potrebbe usare in tutte queste piccole enigmatiche storie: perché il monaco accanto all’albero sembra quasi sfumato? È la nebbia, un effetto della nostra visione o delle lacrime che appannano lo sguardo? Ognuna di queste fotografie – ormai sono più di cento, in una collezione che continua a crescere nel corso dei viaggi di Ming in tutta la Cina – pone un interrogativo. In ognuna di esse c’è qualcosa che in modo inesplicabile non funziona, qualcosa d’insolito: un pescatore visto di spalle, che ha metà del corpo nell’acqua e porta un cappello a forma di ombrello; un uomo robusto che annusa delicatamente un fiore, sullo sfondo di grandi edifici; o le due oche che sono gli unici esseri viventi sullo sfondo di un cantiere abbandonato e desolato. Il ricorso a questi elementi, che disturbano un universo apparentemente regolare e su cui il tempo non sembra far presa (i segni della modernità sono rari), introduce un senso di malinconia. Non sono immagini che trasmettono un sentimento di rivolta, piuttosto di nostalgia, di dolce tristezza. Constatano una condizione ineluttabile senza fornirci il finale della storia. L’invenzione di un linguaggio Tutto questo dipende forse dalla formazione letteraria di questo artista quarantenne, autodidatta, che non era destinato alla fotografia e che sta inventando il suo linguaggio con calma. Un linguaggio dell’assurdo, che rasenta a volte il surrealismo, animato da persone che si travestono da animali, da animali smarriti e da figure molto piccole ritratte in un universo troppo grande, controllato o artiiciale. Ming, che ha scelto come base per il suo lavoro Guangzhou, la più grande città costiera del sud della Cina, ha una visione molto chiara dell’intero progetto: “Dietro la crescita economica del paese, le caratteristiche della cultura tradizionale sono crollate, scomparse, ma la gente non sembra essersene resa conto. Ciò che resta della tradizione rivela una perdita d’identità, che ci porta lontano da dove viviamo. In questo modo un paese grandioso e unico, con immense risorse culturali, in futuro rischia di diventare un piccolo paese senza radici spirituali”.
Da sapere
Il progetto
Yan Ming è un fotografo cinese nato a Dingyuan, nella provincia di Anhui. È laureato in lingua e letteratura cinese. Vive a Guangzhou, nella provincia cinese del Guangdong. Il suo lavoro è rappresentato dalla galleria See + di Pechino, che ha collaborato alla realizzazione di questo portfolio. Il progetto Country of ambition è diventato un libro pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Beijing imaginist press company.
internazionale 18.3.18
Cultura
La creazione di una cultura scritta continentale è un obiettivo lontano ma concreto per le istituzioni europee
Contributo discreto
Di Mircea Vasilescu, Dilema Veche, Romania Libri
All’ultimo salone del libro di Bucarest, nel novembre del 2017, l’ospite d’onore non era un paese, come succede di solito, ma l’Unione europea. Forse il pubblico, distratto da uno stand ben organizzato, interessanti dibattiti, conferenze, attività per bambini, dimostrazioni di cucina e degustazioni di cioccolata, non ci ha fatto caso. Ma la rappresentanza della Commissione europea, alla fiera nella capitale romena, ha messo insieme una fotografia complessiva del mondo dell’editoria e della cultura scritta in Europa. E ha offerto più di un motivo di riflessione, perché senza il contributo della Commissione il panorama culturale europeo degli ultimi vent’anni sarebbe stato molto più povero.
A lungo termine
Le norme comunitarie non regolano tutte le attività dei paesi che fanno parte dell’Unione. La cultura e l’istruzione, per esempio, dipendono dalle scelte fatte a livello nazionale. Da una parte si segue infatti il principio della sussidiarietà, che, per farla breve, prevede che le decisioni vadano prese il più vicino possibile ai cittadini. Dall’altra, cultura e istruzione dipendono quasi completamente dall’identità dei singoli paesi. Eppure gli organismi dell’Unione europea hanno sostenuto diversi progetti comunitari in questi due ambiti. Alcuni di questi programmi hanno avuto un grande successo, per esempio l’Erasmus. L’idea alla base dell’Erasmus, che ha permesso a milioni di studenti universitari di studiare per un periodo in un altro stato europeo, è molto semplice. Per questo ha funzionato. Per quanto riguarda la cultura scritta, per lungo tempo l’Unione europea non ha influenzato le politiche culturali nazionali. Prima del 1992 non esisteva nemmeno un quadro legale per adottare politiche comunitarie in materia culturale. Solo con il trattato di Maastricht l’Unione si è data la facoltà di incoraggiare e sostenere le attività dei vari stati, rispettando le diversità nazionali e regionali, ma allo stesso tempo valorizzando il patrimonio culturale comune e il dialogo interculturale. Il primo progetto di successo è stato Ariane, dedicato alle traduzioni. L’idea era arrivata dalla Commissione, e il consiglio dei ministri della cultura dei vari stati l’aveva approvata l’11 giugno del 1996 in Lussemburgo. Si trattava di distribuire 7 milioni di Ecu (la moneta virtuale adottata dal Consiglio europeo nel 1978) per finanziare la traduzione di libri. Poi però, anche se era stata trovata una posizione comune, l’accordo non fu formalizzato (il Regno Unito, alle prese con la mucca pazza non la considerò una priorità). Solo il 28 maggio del 1997 un “comitato di conciliazione” a Bruxelles decise di avviare il programma. Il suo obiettivo era “sostenere le traduzioni di opere letterarie, favorire progetti di cooperazione, formare professionisti del settore soprattutto traduttori, e supportare i premi letterari alcuni dei quali riservati alle traduzioni”. Il programma doveva durare due anni, ma proseguì ben oltre. Ormai è solo un ricordo, ma Ariane ha avuto un ruolo importante nel favorire la conoscenza reciproca delle culture europee, perché ha permesso la traduzione di letterature considerate minori e di libri di grande valore culturale ma poco appetibili per il mercato. Grazie ad Ariane i lettori francesi, tedeschi, italiani e spagnoli hanno potuto conoscere autori cechi, sloveni, lituani, bulgari e romeni che altrimenti non sarebbero stati tradotti perché ancora poco conosciuti fuori dai loro paesi. Il progetto Ariane è stato seguito da altri programmi dedicati alla cultura scritta: il premio dell’Unione europea per la letteratura, per esempio, assegnato ogni anno a degli scrittori emergenti selezionati nei 37 paesi coinvolti nel programma Cultura. I vincitori accedono a finanziamenti per la traduzione delle loro opere nelle altre lingue europee. Un miliardo di euro oggi, sotto il profilo finanziario, tutte le iniziative culturali dell’Unione sono raggruppate nel programma Europa creativa, che ha un bilancio di circa un miliardo di euro. Una sezione è dedicata alle traduzioni, ma ci sono sostegni anche per altre attività legate alla pubblicazione di libri.
Ma quali sono, vent’anni dopo Ariane, i risultati concreti di questi progetti? Il più rilevante è la crescita del numero delle traduzioni in tutta Europa, in particolare tra lingue e culture “minori”. È anche aumentata la presenza degli scrittori nello spazio pubblico: i fondi sono serviti a organizzare festival di letteratura, letture pubbliche, conferenze e incontri. Autori conosciuti e apprezzati nel proprio paese hanno ottenuto visibilità e fama a livello europeo. Senza Ariane e gli altri programmi europei, insomma, un’editoria e una letteratura europee probabilmente non esisterebbero. Un altro fatto non trascurabile è che questi programmi prevedono un sistema di finanziamenti non diverso da quello adottato dai singoli paesi per le loro politiche culturali. Infine le politiche europee che sostengono la cultura scritta hanno avuto anche un’altra conseguenza. Nel tempo hanno favorito la nascita di diverse associazioni professionali legate all’editoria, tra cui la Federazione europea dei librai, la Federazione degli editori europei e il Consiglio degli scrittori europei. In un modo o nell’altro, queste organizzazioni sono partner della Commissione e rappresentano gli interessi dei loro iscritti a livello comunitario. Contribuiscono inoltre a far conoscere più a fondo l’industria editoriale europea. La Federazione degli editori, per esempio, conduce studi sullo stato dell’industria del libro ed è impegnata in diverse attività per stimolare la collaborazione tra le varie associazioni nazionali. Certo, alcune di queste attività non sono particolarmente interessanti per i lettori. Riguardano per lo più questioni tecniche, dalla legislazione sull’editoria all’inquadramento professionale di chi lavora nel settore. Ma senza di esse i lettori avrebbero un’offerta più ristretta e la conoscenza reciproca delle culture europee non avrebbe lo stesso impatto. non deve stupire, quindi, che a una fiera del libro l’ospite d’onore sia stata l’Unione europea. Lo slogan dello stand di Bucarest era: “A casa propria, in Europa”. E ha offerto al pubblico una visione d’insieme del mondo del libro e dell’editoria a livello continentale. In questo modo i cittadini-lettori si sono potuti sentire più europei, più vicini all’idea di Europa. Purtroppo durante la fiera si è parlato di nuovo del fatto che la Romania è il paese che legge di meno in Europa. Ma questa è un’altra storia, per la quale non possiamo tirare in ballo l’Europa. È un problema che noi romeni dovremmo essere in grado di risolvere con i nostri mezzi. tanto per cominciare, potremmo ispirarci ai progetti di sostegno alla lettura che sono stati realizzati con successo in altri paesi. Considerato che facciamo ancora parte dell’Europa, sarebbe saggio imparare dall’esperienza degli altri.
l’espresso 18.3.18
E il cattolico si scopre in Movimento
di Susanna Turco
Uragano». «Tsunami». Anno zero. «Svolta senza ritorno». Spartiacque tra «prima» e «dopo». Sono pesanti come pietre, le parole con le quali il mondo cattolico racconta gli esiti del voto e s’affaccia il nuovo Parlamento a trazione grillina e leghista, la batosta del Partito democratico (c’è chi parla di «capolinea»), la consunzione di quello che fu il centro e le difficilissime prospettive per creare un governo che conterrà l’uno l’altro vincitore o entrambi. Parole che sono eco abbastanza esatta dello sconvolgimento in corso. Forse l’onda - quella che ha attraversato il Paese, la gente comune - i vertici non l’avevano vista tanto bene: adesso si stanno attrezzando in fretta per affrontarla. Al silenzio pre-elettorale, è seguito un pressing sgranato come un rosario, che alcuni autorevoli osservatori prevedono si farà sempre più forte.
Editoriali su “Avvenire”. Analisi del voto su “Civiltà cattolica”. Prese di posizione a partire da quella del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano: «La Santa Sede sa che deve lavorare nelle condizioni che si presentano. Noi non possiamo avere la società che vorremmo, le condizioni che vorremmo avere». Un eccezionale manifesto di realismo. Cioè non è il massimo ritrovarsi un’Italia dove vincano Lega e Cinque stelle, che viri verso il gruppo di Visegrad - Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria - piuttosto che verso l’Occidente. Non è il sogno della vita, ma di necessità virtù: un governo serve, e serve il prima possibile. Servono «accordi realistici e possibili», «realistici e fattibili», insiste nel suo ultimo articolo il gesuita padre Francesco Occhetta, notista politico di “Civiltà cattolica”, vicino a Papa Bergoglio. Come l’intero mondo cattolico, guarda al suo nume tutelare di questa fase politica: il capo dello Stato Sergio Mattarella. Per questa via, dopo il «contropiede», lo scompiglio assoluto che il voto del 4 marzo ha creato sia negli ambienti di centrodestra che di centrosinistra, l’associazionismo cattolico lavora a rimettersi in pari - vaste programme - con una base che, da nord a sud, è andata in una direzione diversa rispetto a quella consueta, spiazzando il largo mondo dei moderati che da decenni si divideva lo spazio tra Comunione e Liberazione e Acli, teocon e Azione cattolica. Dall’altro lato, si cuce un dialogo con i nuovi vincitori: anzitutto coi Cinque stelle che, per predisposizione e per attenzioni d’accreditamento, appaiono meno indigeribili rispetto alla Lega di Matteo Salvini. Mentre i grillini di Di Maio smettevano di parlare di taxi del mare, il leader del Carroccio ha sì sventolato il Vangelo dal palco della campagna elettorale (facendo felice Antonio Socci) ma non ha ammorbidito le proprie posizioni né sull’Europa, né tanto meno sugli immigrati. Al contrario, come si vedrà, Luigi Di Maio ha fatto moltissimo per avvicinarsi al mondo cattolico - fino al bacio dell’ampolla di San Gennaro. Tutto per arrivare come l’altro giorno al post su Facebook in cui in sostanza diceva alla Cei: siamo con voi. Non che l’entusiasmo Oltretevere esondi. «Il linguaggio politico di Salvini è stato come un tuono sulle paure, quello di Di Maio è stato simile a un fulmine sulle istituzioni», scrive padre Occhetta, quasi appaiando i due partiti, e anzi specificando che «M5S è contrario alle regole della democrazia rappresentativa e a favore di forme di democrazia diretta. Per questo sono riusciti a far prevalere una visione messianica e moralistica della politica, sacrale e al tempo stesso laicista». Ma qualche differenza alla fine c’è. Ed è quella differenza che, sgranata l’ipotesi di un governo Lega e Cinque stelle (comunque troppo simili per sommarsi), porta a descrivere ancora come possibile un «governo guidato dal M5S con appoggio (esterno) del Pd su precisi punti programmatici». Qualcosa che sembra in grande sintonia coi vari appelli alla «responsabilità dei cattolici» che si avanzano da più parti. In ritardo, ma non tutti. A raccontare il progressivo avvicinamento ai Cinque stelle di una parte del mondo cattolico è stato più di altri (o forse unico) il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio. Che l’anno scorso (era fine aprile) con una intervista data al “Corriere della Sera” in accoppiata con la pubblicazione, sul quotidiano dei vescovi, di una delle rarissime interviste concesse da Beppe Grillo, aveva in qualche modo reso evidente il reciproco interesse dei due mondi: l’endorsement, si disse. All’epoca Tarquinio fu molto criticato, adesso appare una specie di anticipatore di tendenza. In fondo fu lui a chiarire che coi Cinque stelle i cattolici avevano molto in comune, il 75 per cento delle cose, a essere precisi: «Se guardiamo ai grandi temi, nei tre quarti dei casi abbiamo la stessa sensibilità». Oggi Tarquinio non rifiuta il ruolo di profeta grillino: «So quali sono gli orientamenti, so dove va il voto del mondo cattolico impegnato, vedo la sensibilità che c’è», dice all’Espresso. Più stupito semmai della portata del consenso raccolto dalla Lega, «ma per quel che riguarda i Cinque stelle mi aspettavo un risultato ragguardevole, perché hanno saputo intercettare il disagio reale, e sommarlo agli errori degli altri partiti. Lo si è visto benissimo nella Capitale con la sindaca Raggi: i tassisti nelle buche delle strade ci stanno lasciando gli ammortizzatori, ma continuano a votarli. Lo scontento è più forte delle gomme», dice. È proprio una prima pagina di “Avvenire” che, nel settembre 2016, fotografa l’avvicinamento ai grillini. Quando, nonostante una delle tante gaffe dell’amministrazione Raggi, proprio nei confronti di Monsignor Galantino peraltro (la sindaca era invitata con il segretario della Cei in Vaticano nell’aula Paolo VI, la sua segreteria rispose che era necessaria la presenza di un pari grado, cioè del Papa), il quotidiano dei vescovi scrisse che non si doveva buttare il bambino con l’acqua sporca, e che i Cinque stelle rappresentavano una novità perché parlavano alla gente comune. Non ai quadri. Non ai mediatori. Era dell’estate il primo contatto tra Luigi Di Maio e il Vaticano, officiato dal giornalista Pietro Schiavazzi. Dopo, soprattutto nel corso dell’anno scorso, sono arrivate prese di posizione come quella a favore della chiusura domenicale degli outlet per salvaguardare la famiglia (ripetuta sia a Pasqua che a Natale), e un progressivo allontanamento dei Cinque stelle dai tuoni contro i taxi del mare e barconi. Fondamentale è stato però il passaggio epocale delle unioni civili. Nell’inverno 2016. Quando Luigi Di Maio - allora via Beppe Grillo, che era ancora leader indiscusso - scoprì che poteva giocare sulla diffidenza che i vescovi avevano sempre covato nei confronti di Renzi. E fece schierare d’improvviso i Cinque stelle contro la stepchild adoption, proprio quando il governo aveva detto che non l’avrebbe tolta dal ddl Cirinnà. Un passaggio che i vescovi non hanno dimenticato, come si vede. E che anzi suona come una garanzia, anche rispetto a un certo «laicismo» dei Cinque stelle che pure non s’è fatto invisibile. E che anzi Famiglia Cristiana, con un celebre editoriale, giusto la primavera scorsa ha puntualmente elencato.
l’espresso 18.3.18
Sì, anche noi abbiamo perso
Un voto in contrasto con le attese del mondo cattolico. Parla il fondatore di Sant’Egidio
colloquio con Andrea Riccardi
Un voto quasi «contro la Chiesa». «Dissonante» rispetto al messaggio che ha veicolato. Una «sconfitta». Che rivela come «l’Italia stia diventando un paese molto diverso». Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, affronta con pacata spietatezza il ceffone, lo «tsunami» arrivato dalle urne.
Cosa hanno rivelato le elezioni?
«Sono state molto emozionali, hanno rivelato i sentimenti degli italiani: la rabbia e la paura. E hanno chiarito che alcune forza sono sintonizzate con la gente, altre no. Ecco in fondo il problema: questo è il voto di italiani che si trovano soli di fronte al futuro e reagiscono emotivamente».
E la Chiesa che ruolo ha svolto?
«Su questo risultato anche la Chiesa si dovrebbe interrogare: è la più grande rete di prossimità del Paese, è l’unica realtà che ha presidi in ogni angolo della società. Ma quale messaggio ha veicolato in questi anni? Non un messaggio di paura. Anzi: un messaggio di speranza, di apertura agli stranieri, addirittura di maggior integrazione europea - pensiamo ai discorsi di Papa Francesco».
C’è uno scarto evidente: gli italiani sono andati in direzione contraria.
«Non dico che abbiano votato contro la Chiesa, ma hanno dimostrato una diversità evidente e sentimenti di autodifesa, diversi dai messaggi ecclesiali. Nel popolo cattolico è mancata una cultura popolare: pensieri lunghi, prospettive, riferimenti che tengono insieme la gente. Non ci sono più mediazioni. Francesco dice: “accogliere i migranti”.
Ma questo come diventa pratica, proposta? Wojtyla disse: se la fede non diventa cultura, è vissuta a metà. Oggi tutto è fluttuante nel Paese, è emotivo. In questo senso c’è una lettura profonda da fare su come si comunica con la gente. Per la Chiesa e per i cattolici, perché il Paese va in un altro senso».
A cosa si deve questa dissonanza?
«Non c’è stata la capacità di intercettare e dialogare con le paure, di sciogliere la rabbia. Mentre sono convinto che Lega e M5S non siano solo un fenomeno social: hanno fatto più politica in mezzo alla gente. Per questo, oltre che di sconfitta del Pd, parlo in qualche modo di sconfitta della Chiesa. C’è un voto cattolico che è andato alla Lega o a M5S: non dico che debbano essere scomunicati, ma il messaggio della Chiesa non ha avuto rilevanza per loro. Questo risultato significa però che il Carroccio è stato più rassicurante. E che la cultura dell’accoglienza mi sembra molto in crisi di fronte alla paura e alla rabbia della gente».
C’erano avvisaglie di tutto ciò?
«Quando l’estate scorsa si è visto che non aveva spazio la legge sullo ius soli, dopo che addirittura il Papa aveva firmato un appello, quello fu un segnale di irrilevanza, una sconfitta della Chiesa stessa».
S.T.
l’espresso 18.3.18
Ho la tessera Cigielle e voto Cinquestelle
di Gianfrancesco Turano
Alla fine del mondo come lo conosciamo, il sindacato non sta per niente male, grazie. Di sicuro, si sente molto meglio di tante formazioni politiche che si dissolvono con accelerazione esponenziale. Mentre i partiti si scindono, cambiano nome, scompaiono, la gran parte del mondo del lavoro resta ferma al trinomio Cgil-Cisl-Uil, come nel 1950. È un brutto colpo per i profeti della disintermediazione, da Matteo Renzi ai Cinque stelle. Il leader democrat è stato il critico più radicale dei sindacati. Le urne gli hanno risposto con chiarezza. Anche il vincitore Luigi Di Maio ha avuto subito modo di verificare l’alto indice di gradimento del sindacato nei sondaggi. Nel Sud grillino le domande per avere il reddito di cittadinanza non sono state presentate all’Inps ma ai Caf (centri di assistenza fiscale) dei sindacati. Nella coscienza divisa del cittadino il sindacato è l’organizzazione che, oltre a presentargli la dichiarazione dei redditi, la domanda per la pensione o per la cassa integrazione, lo difenderà dai partiti per i quali lo stesso cittadino ha votato. È il potere democratico più vicino alla scala 1:1. Cerca accordi con una controparte resistente e lascia le utopie alle promesse della campagna elettorale. «La coscienza scissa esiste da decenni», dice il politologo Paolo Feltrin dell’università di Trieste. «Negli anni Settanta l’operaio scioperava con la Fiom e si proteggeva votando Dc. Ma è certo che mai voto politico fu più sindacale di quello del 4 marzo. A dispetto delle dichiarazioni bellicose di alcune forze politiche verso i corpi intermedi, il sindacato ha molto poco da temere da un’elezione che legittima le sue battaglie contro la legge Fornero o contro certi aspetti estremistici del Jobs act». Molti anni dopo la fine del sindacato come cinghia di trasmissione dei partiti, la frattura fra coscienza politica e coscienza sindacale è arrivata al livello di sindrome schizoide. Chi lo ha capito, e ha dato retta alle rivendicazioni dei lavoratori, ha vinto. Ma il cittadino scisso non sarà facile da governare. Lo stesso delegato aziendale che ha votato M5S o Lega, Pd o Forza Italia, è quello che siederà a un tavolo negoziale per valutare norme e riforme varate dal governo. Il passato recente è all’insegna del depotenziamento. L’elenco breve include lo smontaggio della riforma Brunetta sul pubblico impiego, della riforma Madia sulla pubblica amministrazione e la Buona scuola. Anche alla legge Fornero si è già aggiunta parecchia acqua con una quindicina di categorie di fatto esentate dalla norma generale attraverso l’Ape (anticipo pensionistico) sociale. Il movimento Cinquestelle, partito di maggioranza relativa e unico rappresentato in parlamento a non avere mai governato a livello nazionale, ha già conosciuto gli highlander del sindacato nelle grandi città. Le sindache Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino sono passate dalla mancanza di relazioni diplomatiche a più miti consigli, dopo le batoste iniziali. E molti dei loro antagonisti sindacali erano, allora come adesso, elettori grillini. La Lega ha scelto una via pragmatica e di non aggressione dopo avere tentato senza troppo successo di strutturarsi con un suo sindacato, quando ancora Beppe Grillo faceva il comico. La bossiana di ferro Rosi Mauro ha guidato prima il Sal (sindacato autonomista lombardo) nel 1990, poi il Sinpa (Sindacato padano) nel 1999. Alla fine la pasionaria si è dovuta buttare in politica ottenendo la vicepresidenza del Senato (2008-2013) e poi l’espulsione dalla Lega per il caso Belsito, un processo nel quale è stata archiviata. Oggi nelle piazzeforti regionali del leghismo, Lombardia e Veneto, i politici locali hanno costruito un rapporto di stretta interlocuzione e di collaborazione con i sindacati tradizionali. Per contrasto, il governatore pugliese Michele Emiliano, uno dei leader della fronda renziana nel Pd, pochi giorni fa ha incassato la denuncia per comportamento antisindacale dei vertici dell’Acquedotto (Aqp), controllato dalla Regione. L’altro messaggio forte del 4 marzo è che il sindacalista va bene se fa il suo mestiere. Al governo o in Parlamento piace sempre di meno. Lo hanno decretato le politiche con la bocciatura compatta, in prima battuta, dei candidati provenienti dal mondo sindacale. Soltanto con i resti sono stati recuperati la senatrice Anna Maria Parente, già responsabile del coordinamento donne della Cisl, e il deputato Guglielmo Epifani, ex segretario generale della Cgil e reggente del Pd dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani (2013). Gli altri, tutti esodati. Sono rimasti fuori il ministro del Lavoro Cesare Damiano (Cgil), solo terzo nella proletaria Terni, il sottosegretario uscente all’Economia Pierpaolo Baretta, ex responsabile dei metalmeccanici della Cisl, l’altro cislino Giorgio Santini, deputato democrat del Veneto, e l’ex Fiom-Cgil Giorgio Airaudo, uno dei protagonisti dello storico referendum Fiat-Miraiori del 2011, vinto da Sergio Marchionne. «Ho fatto campagna elettorale Foto: Ansa sul territorio», dice il torinese Airaudo, eletto nel 2013 con Sel e poi passato in Leu. «Sono andato nelle fabbriche che conosco e dove mi conoscono. Mi dicevano: non ce l’ho con te ma voto Lega perché toglie la Fornero e voi ve ne siete andati dal Pd troppo tardi. Altro che cinghia di trasmissione. Con il governo Monti si è rotto tutto. Il risultato? Oggi sulle linee di montaggio dell’Iveco ci sono i nonni che non sanno quando smetteranno di lavorare e che mantengono i figli precari. Per loro e per gli altri lavoratori vale il principio: il sindacato è il mio delegato». Airaudo tornerà da dove veniva per affrontare la marcia verso il rinnovo del vertice Cgil. Per la prima volta gli aspiranti eredi di Susanna Camusso sono tre: Maurizio Landini, Vincenzo Colla e Serena Sorrentino. Dal Piemonte alla Sicilia è il momento dell’orgoglio sindacale anche per Salvo Guglielmino, portavoce nazionale della Cisl. «Nella mia zona, il siracusano, i Cinque stelle sono arrivati fino al 70 per cento ma non credo che ci saranno contraccolpi per il sindacato. Nei nostri paesini, dove ormai non ci sono più neanche l’uicio postale e i carabinieri, si va al patronato, nelle sedi confederali. Noi abbiamo mantenuto gli avamposti sul territorio. I partiti, no». La tenuta del sindacato deve molto a un livello di conlittualità bassa. A volte troppo bassa, come nel caso della riforma Fornero che ha segnato il divorzio di molti elettori di sinistra dal Pd. Un certo becerismo resiste più nel rapporto di rappresentanza che nei privilegi corporativi, molto ridotti rispetto al passato. Lo si vede in un settore debole, i trasporti, dove sigle che hanno pochi iscritti e che non hanno intaccato in modo decisivo la forza dei confederali, possono avere un peso localmente rilevante.
Lo sciopero per i diritti della donna, lo scorso 8 marzo, non ha avuto effetti a Milano dove l’azienda locale (Atm) ha un solo tesserato dell’Usb su 9600 dipendenti, dei quali 7000 iscritti ai sindacati. A Roma, com’è tradizione, è stato il caos nonostante un’adesione molto bassa dei dipendenti Atac (16 per cento). In compenso, una serie di vertenze-simbolo ha incrementato l’apprezzamento. I casi Whirlpool, Embraco, Ryanair, Amazon hanno dimostrato che il vecchio delegato, con tutti i suoi difetti, dà una mano alla vedova e all’orfano laddove i partiti hanno sgombrato l’area da un pezzo, seppure non si sono rassegnati alle delocalizzazioni e ai braccialetti con Gps per controllare i tempi trascorsi alla toilette. È anche una questione pratica. La trattativa sull’Ilva di Taranto, dove M5S ha stravinto pur essendo favorevole alla chiusura con riconversione dell’impianto, non si può fare senza quei corpi intermedi che infastidivano Renzi e che la fatwah di Beppe Grillo («eliminiamo i sindacati, voglio uno Stato con le palle») vorrebbe cancellare. Ed è certamente una questione politica. Se n’è accorto Donald Trump fotografato nei giorni scorsi insieme alle tute blu in occasione dell’accordo sui dazi a favore dell’industria Usa. Magari i metal workers ritratti alla Casa Bianca erano in larga parte “non union”. Ma è un fatto che i lavoratori del manifatturiero dell’America suburbana hanno dato un apporto fondamentale all’elezione del milionario di Manhattan. «In tutto l’Occidente», conclude Feltrin, «la sinistra ha rotto i rapporti con il mondo del lavoro per puntare tutto sulle minoranze e sui diritti civili. Ma con i diritti civili non si mangia e non si prende un voto in più»
l’espresso 18.3.18
Le idee
Per capire la differenza col razzismo serve l’etologia più della politica. E c’è un solo rimedio: la cultura
La paura è animale
di Raffaele Simone
«Bisogna reagire a una cultura della paura che, seppur in taluni casi comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente». Così parlò, il 22 gennaio scorso, il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella prolusione al Consiglio permanente Cei. Si riferiva ovviamente alla supposta “paura” degli italiani dinanzi al lusso di immigrazione che si riversa da anni sul paese. «Avere dubbi e timori non è un peccato», ha precisato a mo’ di conforto riprendendo le parole del Papa, «il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte».
Ma si può davvero cancellare la paura, e in particolare la paura collettiva, dalla lista delle grandi emozioni umane? È possibile raggiungere la “libertà dalla paura” di cui parlava Franklin D. Roosevelt nel suo famoso discorso del 1941? E poi: la paura può essere considerata un peccato? In questo caso, la storia pullulerebbe di peccatori, individuali e collettivi, dato che nel suo corso sono registrati non pochi momenti di Grandi Paure collettive, di solito originate da notizie false (le fake news non sono un’invenzione dell’era digitale). La più famosa fu forse quella che si scatenò nelle campagne francesi poco dopo la Rivoluzione del 1789: la falsa notizia di un’invasione di bande di briganti stranieri che venivano a distruggere i raccolti e uccidere i contadini per vendicare la nobiltà danneggiata dalle rivolte agrarie. Ci fu chi si rivolse al signore in cerca di aiuto. Altri usarono i forconi e le falci proprio contro di lui facendogli pagare con la vita i suoi privilegi. Felix culpa, però, si direbbe: per tagliare corto coi disordini l’Assemblea Nazionale decise di eliminare i privilegi feudali, le disparità fiscali e la vendita delle cariche, determinando così la fine dell’Ancien Régime. Non sempre però la conclusione è così benigna. In due occasioni (verso la fine degli anni Dieci e ai primi degli anni Cinquanta) nel mondo politico e tra il popolo degli Stati Uniti corse quella che qualcuno chiamò Paura Rossa, creata dal diffondersi della convinzione che un gruppo comunista clandestino volesse infiltrare il governo e impadronirsi del potere. In quel caso la conseguenza fu una spietata caccia alle streghe e l’epoca del maccartismo. Un volume introvabile, che raccoglie un impressionante catalogo di paure collettive dal medioevo alla modernità (a cura di Laura Guidi e altre, Storia e paure. Immaginario collettivo, riti e rappresentazione della paura in età moderna, 1992), mostra quanto è frequente il formarsi di Grandi Paure.
Anche gli etologi e i neuroscienziati, però, mostrano che la paura non è una scelta personale, ma una risposta naturale e poco governabile. In “L’errore di Cartesio”, Antonio R. Damasio la colloca tra le cinque «emozioni universali» (insieme a felicità, tristezza, ira e repulsione). L’etologia la definisce più precisamente come lo stato «psicologico, isiologico e comportamentale indotto negli animali e negli umani da una minaccia, attuale o potenziale, al proprio benessere o alla propria sopravvivenza». E vi intravvede una funzione positiva: predisporre a fronteggiare situazioni critiche. Ora, la situazione critica perché la paura si scateni è proprio l’incontro con chi non è come noi, con l’altro, con lo straniero. Alla paura dinanzi al diverso e allo sconosciuto l’animale risponde, secondo gli etologi, con una strategia attiva o una passiva. Alla prima, battezzata fight-or-flight «combatti o scappa», si ricorre quando la minaccia è ancora evitabile. La strategia passiva invece consiste nel freezing (nel mondo umano, dovrebbe corrispondere alla timidezza), cioè il restare immobili e acquiescenti, e si attiva quando alla minaccia non ci si può più sottrarre. La scelta tra l’una e l’altra dipende dalla valutazione del momento: se ha a che fare con un predatore, l’animale attiva il freezing quando il pericolo è ancora lontano; se invece si supera una distanza considerata di sicurezza, attiva una risposta di fuga.
La risposta degli umani alla paura non sembra troppo dissimile. Verso i sei mesi il bambino comincia a distinguere le persone familiari dagli estranei e reagisce in modo differenziato a chi appartenga al primo o al secondo gruppo: con simpatia verso i primi, con avversione e evitamento verso i secondi. Se ha a che fare con estranei, cerca una persona nota che si interponga e lo rassicuri. Come diffida degli estranei, il bambino, soprattutto quando è in gruppo, tende a stigmatizzare e isolare gli outsider e i diversi, usando varie procedure, principalmente il dileggio e il bullismo. A suscitare reazioni di questo tipo non è solo chi appartiene a un gruppo dotato di diversità vistose (per es., aver la pelle di un altro colore o seguire pratiche e rituali urtanti per i locali): basta esser troppo grasso o troppo magro, balbuziente, troppo alto o troppo basso, molto bravo a scuola o molto somaro. In altre parole, il gruppo fissa arbitrariamente dei criteri standard di normalità e qualunque differenza vistosa rispetto a quei criteri funziona come trigger per indurlo a riiutare, anche in modo violento. In questa risposta il grande Irenäus Eibl-Eibesfeldt vede, bontà sua, un’«aggressione educativa», perché serve a spingere il “diverso” ad adeguarsi alla norma del gruppo, in modo che tutto torni normale.
Considerazioni come queste suggeriscono che non è tanto facile tenere a bada la paura, meno anco- ra quando è collettiva e magari manovrata da qualche meneur de foules (come li chiamava Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle 1895), cioè da qualche mestatore che la sfrutta ai suoi fini. Ma contengono un suggerimento ulteriore, anche se fastidioso a prima vista: la paura dello straniero, dello xenos, è diversa dal razzismo. Il razzismo è una costruzione culturale derivante da ideologie e convinzioni deliranti. La paura dello straniero (esito a usare il termine xenofobia) è invece una risposta naturale dinanzi a qualcuno che non ci somiglia e di cui non capiamo le intenzioni. Se le teorie politiche incorporassero qualche elemento di etologia umana e tenessero conto delle emozioni di cui siamo portatori e spesso preda, riuscirebbero forse a spiegare come mai (vedi il Rapporto Eurispes 2018) solo il 28,9 per cento degli italiani sappia indicare la reale incidenza degli stranieri sulla popolazione (in realtà dell’8 per cento). Per il 35 per cento la quota sarebbe esattamente il doppio e per il 25 per cento addirittura un residente in Italia su quattro sarebbe non italiano. La paura agisce come un allucinogeno: ingigantisce e deforma i fenomeni. Che cosa può sciogliere il nodo? La fede, come suggeriscono Bergoglio e il presidente Cei? Oppure, più efficacemente, la cultura? Difficilmente una paura collettiva fa presa su chi si informa, interroga i fenomeni, li valuta nel loro giusto peso. Questa lista di pratiche virtuose (me ne rendo conto scrivendola) è però visibilmente patetica in un’epoca in cui i lettori di giornali diminuiscono a vista d’occhio e una politica urlata e mendace induce a tutt’altro.
l’espresso 18.3.18
Cultura
Polemiche
Obbligati a partecipare
di Paolo di Paolo
Ma non fu illusione, anzi fu per noi acquisto ben saldo, l’aver appreso che gli intellettuali non tradiscono quando fanno politica, ma soltanto quando fanno una certa politica...Norberto Bobbio, luglio 1955. Sono andato a riprendermi “Politica e cultura”, un libro di oltre sessant’anni fa, per cercare di calmare la strana inquietudine post-elettorale. Un po’ è servito. Non so se gli intellettuali hanno perso, come diceva provocatoriamente il titolo dell’articolo di Marcello Fois sullo scorso numero dell’Espresso; di sicuro, però, sono parecchio a disagio. I leader delle forze vincenti sembrano non amarli, usano (o hanno usato ino all’altro ieri) l’etichetta come un insulto: «Voi intellettuali!». Salvini vittorioso brinda alla faccia di Roberto Saviano, ironizzando: visto come è andata? Così passa, o si consolida, l’idea che i professori stiano da una parte, fuori dal mondo, e il popolo, la gente, la vita vera da un’altra. Così - scottatissimi – i professori accettano, quasi in silenzio, l’analisi dominante: «Non avete capito niente». Quelli più disinvolti provano a riguadagnare terreno, a riposizionarsi in fretta: ma sì che avevamo capito, vi pare? Solo, non abbiamo fatto in tempo a dirlo, o stavamo scrivendo il prossimo grande romanzo, o eravamo a un Salone del Libro, o nessuno ci ha interpellati. Guai a dire a un intellettuale che si impegna poco: s’inalbera subito. Un paio di anni fa, sempre su queste pagine, avevamo provocato, sull’eterno (o almeno ciclico) tema “engagement”, una decina di autori. I più si sono innervositi, anche giustamente. Non se ne esce. Non si può pretendere - questo è vero - che chiunque scriva, o faccia cinema, arte in genere, se la senta di intervenire sul presente. A volte, non si ha l’inclinazione a stare al centro del dibattito. Altre volte, più semplicemente, non si ha niente da dire. Penso a una scena di “Mia madre” di Nanni Moretti, di una sincerità disarmante. La regista impegnata (Margherita Buy) si perde nei propri pensieri durante una conferenza stampa: «Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente». Forse molti intellettuali hanno vissuto con questo stato d’animo la stagione politica più recente: con un Silvio B. più spompato e inoffensivo sulla scena, niente più barricate. Un misto di apatia, rassegnazione, “vada come vada”? Forse avremmo potuto - privi di risposte o convinzioni nette - porre qualche domanda in più. Mi è tornato in mente il solito Pasolini che, nel 1973, inchiodava i suoi colleghi a interrogativi perentori come: «Che cosa intendete per estremismo? L’estremismo è una posizione ideologica o un mero fatto di temperamento? Qual è la differenza tra estremismo e fanatismo? Alla fine, non credete che tra tutte le attività umane, la politica è o dovrebbe essere la meno estremista?». Forse avremmo potuto mettere in discussione certe parole del lessico elettorale, chiedere per esempio che vuol dire esattamente il termine “sicurezza”, usato in tutti i programmi politici. Eccetera. Magari qualcuno fra noi l’ha fatto, anzi di sicuro: bene, bisogna restare a lavorare sodo là, nel campo dei dubbi – e alzare un poco la voce quando si fa una domanda, tenerla più bassa proprio quando si dà una risposta. L’anti-ideologico Camus insisteva a tratteggiare (incarnandola) la figura possibile di un artista-cittadino né seduto né bugiardo, non un dispensatore di certezze ma di dubbi, uno che rifiuta di dire agli altri come devono pensare, ma chiarisce con nettezza, con onestà i suoi sì e i suoi no. Uno che, come il romanzesco signor Grand, non dà le spalle alla peste, né si mette in ginocchio davanti a essa; non è rassegnato e non è vigliacco, preferisce una piccola verità coerente a una verità grandiosa. Procede in senso contrario alla sfiducia, contraddice ogni forma di cinismo ironico, e nella propria «interminabile sconitta» resta comunque convinto che niente sia inutile. Troppo vasto programma? Può darsi. E tuttavia, è anche quello da cui passa ogni occasione buona a saldare, a risaldare politica e cultura, a ripensarle parenti, alleate, non contrapposte. Ci riuscivano quotidianamente, e senza proclami, due persone - posso dire due intellettuali? - che abbiamo perso nel corso dello stesso anno 2017: Tullio De Mauro, nato nel 1932, e Alessandro Leogrande, nato nel ’77. Dimostrando, con i libri e con i gesti, che la cultura può (forse deve) non essere politicizzata, ma non può essere apolitica. E ora? Che ci aspetti un governissimo o un governicchio, che a guidarlo siano i nuovi leader o un vecchio garante istituzionale, che possiamo fare? Quello che abbiamo sempre fatto, nel piccolo e nel grande, o qualcosa di diverso? Ci mettiamo idealmente all’opposizione o, altrettanto mentalmente, in una comfort zone, al calduccio del compromesso? Seguitiamo a navigare a vista o immaginiamo una nuova rotta? Ognuno farà come crede, ma direi: teniamo vivo il dialogo, il più possibile. Fra noi, ma non solo fra noi. Nei saloni e nei festival, ma non solo nei saloni e nei festival. Non stiamocene troppo zitti, in ogni caso. «Ristabilire la iducia nel colloquio signiica rompere il silenzio». È ancora Bobbio: «Nulla più del silenzio può costituire una cintura di difesa per il nostro dogmatismo, perché nulla più che la parola degli altri può turbare il nostro sonno dogmatico». Ciascuno, aggiunge il filosofo, dispone di un piccolo tesoro di certezze personali che non mette di buon grado in discussione, che chiude gelosamente nel silenzio della sua intimità. «Ne facciamo tutti i giorni esperienza su noi stessi. Se quelle poche certezze vengono attaccate e scosse, bisogna ricominciare daccapo e ricominciare è faticoso. Più che faticoso è umiliante. Con gli altri parliamo assai più volentieri dei particolari decorativi della nostra costruzione metaisica che delle fondamenta. E quando la costruzione è compiuta o ci sembra compiuta tanto da considerarla stabile, allora è il silenzio, tante isole di silenzio». Proviamo a creare, con tutti i mezzi a disposizione, ponti e ponticelli fra isole di silenzio. Non cerchiamo troppi rifugi. Esponiamoci alle sberle di grillini ortodossi e leghisti granitici, se necessario. Può farci bene. Rimettiamo sul tavolo i «nostri presunti tesori», facciamoli pure sbefeggiare un po’, se questo serve a spezzare la catena del silenzio. «Renderci disponibili agli altri perché possano guardarci dentro e magari mettere tutto a soqquadro. Rinunciare alla presunzione che gli altri abbiano torto solo perché la pensano diversamente da noi». Ci proviamo? Non avremo la tempra e la mitezza di nonno Bobbio, ma se il 4 marzo del 2018 è da considerarsi un anno zero, un inizio, un disastro o una grande occasione, comunque qualcosa di inusitato, tanto vale rompere qualche schema, provare a fare un passo nell’inesplorato. Se Di Maio e Salvini ci sembrano tanto abissalmente distanti da noi è anche perché non li abbiamo mai invitati a cena. Né ci hanno invitato loro, per carità. Ma io sono pronto a prenotare: non so se funziona, ma facciamo che l’invito è questo.