lunedì 19 marzo 2018

Il Sole Domenica 18.2.18
Medicina dell’immortalità
L’insegnamento cattolico non separa fede e sacramenti: la Parola
di Dio e l’Eucaristia concorrono insieme al disegno di salvezza
di Mario Delpini

Arcivescovo metropolita di Milano dal 7 luglio 2017

La domanda, o piuttosto l’inquietudine, che io sento decisiva è: «Noi siamo condannati a morte fin dalla nascita o siamo chiamati a vivere per una vita eterna e felice?». Ho l’impressione che la domanda sia imbarazzante per la sensibilità contemporanea e quindi sia tendenzialmente rimossa.
Rimossa significa che ci si immagina di aver tanto da fare e da pensare per il presente che non si ha tempo per interrogare l’orizzonte che, come ipotesi e come aspettativa, sembra tanto lontano. Del resto sembra opinione comune che la risposta all’interrogativo, è, in ogni caso, poco influente per il presente che viviamo. Nell’oggi risulterebbero più determinanti e più interessanti l’indice della borsa, le previsioni metereologiche, le statistiche sulla occupazione e tanti altri temi, piuttosto che il nostro destino finale.
Mi sembra però che la mentalità diffusa inclini a ritenere che sì, in verità, noi siamo condannati a morte. Quello che succede “dopo” è enigmatico, indescrivibile, e ogni immaginazione risulta arbitraria e improbabile. I pronunciamenti della scienza descrivono con indifferenza come succede che la vita finisca nella morte: in fondo si tratta di processi chimici e fisici piuttosto noti. La scienza descrive. La sua capacità descrittiva e le applicazioni che la tecnologia rende possibili hanno guadagnato un tale credito che si finisce per ritenere che la scienza e la tecnologia siano gli unici discorsi seri e affidabili. La scienza è stata tentata di rinunciare alla sua abituale modestia per esibirsi e imporsi come capace di spiegare tutto e di risolvere tutto.
Molti si sono lasciati convincere che la vita è tutta lì: un po’ di chimica, un po’ di fisica e tutto si spiega. «Tu sei vivo per questi processi che poi evolvono e tu diventi morto, e il processo continua: ciò di cui sei fatto diventa altro. È tutto lì. Sei dunque vivo, per morire». Coloro che non trovano tanto allegra la prospettiva cercano con il massimo impegno di ritardare il più possibile quel fenomeno così naturale per cui uno invece di essere vivo è morto. La più parte preferisce non pensarci troppo: si dedica piuttosto a vivere al meglio il tempo disponibile, senza guardare troppo avanti.
Ci sono anche quelli che si prendono la libertà di pensare. Sono coloro che non si accontentano della spiegazione del “come”, ma si domandano anche “perché?”. Quelli che si prendono la libertà di pensare si avventurano su sentieri che la scienza supponente disprezza, ma che gli scienziati seri e tutte le persone ragionevoli ritengono percorribili con altri ragionamenti, altrettanto seri e persuasivi e, in certi momenti, più necessari.
Nella ricerca del senso della vita e del suo esito ultimo la storia ha raccolto molte risposte al desiderio di vivere, di essere felici per sempre, e molti percorsi per raccogliere la protesta contro la morte.
I discepoli di Gesù, che fanno parte della folla che conserva il desiderio di vivere e di essere felici e si unisce alla protesta contro la morte, accolgono con gratitudine e con intima gioia la rivelazione di Gesù.
La rivelazione di Gesù non si pone come dottrina filosofica né come esperienza mistica, ma come la storia del Figlio dell’uomo che abita un frammento di tempo e di spazio per rendere tutto lo spazio e tutto il tempo storia di salvezza. «Il Verbo si è fatto carne» è la sintesi che il Vangelo di Giovanni propone per indicare dove cercare la verità di Dio.
L’intenzione di Dio di salvare tutti si compie nella storia di Gesù. La porta stretta della salvezza non è un’immagine per dire di un Dio severo ed esigente che lascia entrare solo quelli che possono vantare una vita ineccepibile o esibire frutti abbondanti di opere buone. La porta stretta è invece la morte di Gesù, il doloroso passaggio che introduce alla gloria, cioè alla vita di Dio. Alla morte tutti arrivano, prima o poi. Ma la morte non è il precipitare nell’abisso del nulla, perché Gesù è là, nella morte, come la porta che introduce alla vita di Dio. I discepoli di Gesù proclamano che non c’è altro nome che si possa invocare per essere salvati e Gesù dichiara: «E io, quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» e l’evangelista commenta: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
La vita eterna è quindi quella vita che ha principio nella storia di Gesù, cioè nel suo essere “fatto carne”, corpo, tempo, agire, parlare, soffrire: uomo, insomma. In questa rivelazione, in questa promessa si rivela una caratteristica distanza rispetto al pensiero greco, in particolare dalla tradizione platonica, che insegnava l’immortalità dell’anima come prospettiva di salvezza e considerava il corpo una condizione di precarietà da cui evadere. La convinzione che la persona umana sia composta di anima e corpo, ma che la verità dell’uomo sia la sua anima, sopravvive in molte espressioni della storia del pensiero occidentale. Anche il cristianesimo ne è stato segnato anche se ha sempre conservato come indiscutibile la dottrina della “risurrezione della carne”.
L’insegnamento cristiano riconosce nella risurrezione il compimento della salvezza, cioè tutta la persona è salvata. Tutta la persona significa tutte le componenti con cui si può descrivere l’essere umano, secondo l’antropologia che si ritiene di assumere: anima e corpo, oppure anima, corpo e spirito, eccetera. Si comprende pertanto l’insistenza dei racconti evangelici nel raccontare la dimensione corporea delle apparizioni di Gesù risorto.
Nel frammento dell’uomo Gesù è il principio per la salvezza del tutto: ma come possono accedere tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi a questo frammento di storia, per essere salvati? L’intenzione di Gesù di raggiungere tutti si rende effettiva nella celebrazione eucaristica alla quale conduce la predicazione del Vangelo. La comunione con Gesù, con il suo pensiero, con il suo corpo glorioso, è frutto dello stesso Spirito che ha compiuto l’incarnazione del Verbo di Dio nell’uomo di Gesù, figlio di Maria. Lo Spirito, inviato dal Crocifisso, rende possibile entrare nella relazione con il Padre, come figli, perché uniti al Figlio. Perciò lo Spirito rende possibile la divinizzazione di ogni figlio dell’uomo perché diventi figlio di Dio. L’insegnamento cattolico non separa fede e sacramenti, Parola di Dio ed Eucaristia: la dinamica sacramentale è la celebrazione della salvezza che coinvolge tutte le componenti della persona, l’intelligenza, la corporeità, la dimensione intima e la dimensione comunitaria.
Come il pane e il vino «ricevendo la parola di Dio divengono Eucaristia, cioè il corpo e il sangue di Cristo, così anche i nostri corpi, che si sono nutriti di essa, sono stati collocati nella terra e vi si sono dissolti, risorgeranno al loro tempo, perché il Verbo di Dio donerà loro la risurrezione, per la gloria di Dio Padre» (Ireneo, Contro le Eresie, V,2,2). Perciò si può chiamare l’Eucaristia «medicina di immortalità», secondo la suggestiva espressione di Ignazio di Antiochia (Ef 20).