Il Sole Domenica 18.2.18
Medicina dell’immortalità
L’insegnamento cattolico non separa fede e sacramenti: la Parola
di Dio e l’Eucaristia concorrono insieme al disegno di salvezza
di Mario Delpini
Arcivescovo metropolita di Milano dal 7 luglio 2017
La
domanda, o piuttosto l’inquietudine, che io sento decisiva è: «Noi
siamo condannati a morte fin dalla nascita o siamo chiamati a vivere per
una vita eterna e felice?». Ho l’impressione che la domanda sia
imbarazzante per la sensibilità contemporanea e quindi sia
tendenzialmente rimossa.
Rimossa significa che ci si immagina di
aver tanto da fare e da pensare per il presente che non si ha tempo per
interrogare l’orizzonte che, come ipotesi e come aspettativa, sembra
tanto lontano. Del resto sembra opinione comune che la risposta
all’interrogativo, è, in ogni caso, poco influente per il presente che
viviamo. Nell’oggi risulterebbero più determinanti e più interessanti
l’indice della borsa, le previsioni metereologiche, le statistiche sulla
occupazione e tanti altri temi, piuttosto che il nostro destino finale.
Mi
sembra però che la mentalità diffusa inclini a ritenere che sì, in
verità, noi siamo condannati a morte. Quello che succede “dopo” è
enigmatico, indescrivibile, e ogni immaginazione risulta arbitraria e
improbabile. I pronunciamenti della scienza descrivono con indifferenza
come succede che la vita finisca nella morte: in fondo si tratta di
processi chimici e fisici piuttosto noti. La scienza descrive. La sua
capacità descrittiva e le applicazioni che la tecnologia rende possibili
hanno guadagnato un tale credito che si finisce per ritenere che la
scienza e la tecnologia siano gli unici discorsi seri e affidabili. La
scienza è stata tentata di rinunciare alla sua abituale modestia per
esibirsi e imporsi come capace di spiegare tutto e di risolvere tutto.
Molti
si sono lasciati convincere che la vita è tutta lì: un po’ di chimica,
un po’ di fisica e tutto si spiega. «Tu sei vivo per questi processi che
poi evolvono e tu diventi morto, e il processo continua: ciò di cui sei
fatto diventa altro. È tutto lì. Sei dunque vivo, per morire». Coloro
che non trovano tanto allegra la prospettiva cercano con il massimo
impegno di ritardare il più possibile quel fenomeno così naturale per
cui uno invece di essere vivo è morto. La più parte preferisce non
pensarci troppo: si dedica piuttosto a vivere al meglio il tempo
disponibile, senza guardare troppo avanti.
Ci sono anche quelli
che si prendono la libertà di pensare. Sono coloro che non si
accontentano della spiegazione del “come”, ma si domandano anche
“perché?”. Quelli che si prendono la libertà di pensare si avventurano
su sentieri che la scienza supponente disprezza, ma che gli scienziati
seri e tutte le persone ragionevoli ritengono percorribili con altri
ragionamenti, altrettanto seri e persuasivi e, in certi momenti, più
necessari.
Nella ricerca del senso della vita e del suo esito
ultimo la storia ha raccolto molte risposte al desiderio di vivere, di
essere felici per sempre, e molti percorsi per raccogliere la protesta
contro la morte.
I discepoli di Gesù, che fanno parte della folla
che conserva il desiderio di vivere e di essere felici e si unisce alla
protesta contro la morte, accolgono con gratitudine e con intima gioia
la rivelazione di Gesù.
La rivelazione di Gesù non si pone come
dottrina filosofica né come esperienza mistica, ma come la storia del
Figlio dell’uomo che abita un frammento di tempo e di spazio per rendere
tutto lo spazio e tutto il tempo storia di salvezza. «Il Verbo si è
fatto carne» è la sintesi che il Vangelo di Giovanni propone per
indicare dove cercare la verità di Dio.
L’intenzione di Dio di
salvare tutti si compie nella storia di Gesù. La porta stretta della
salvezza non è un’immagine per dire di un Dio severo ed esigente che
lascia entrare solo quelli che possono vantare una vita ineccepibile o
esibire frutti abbondanti di opere buone. La porta stretta è invece la
morte di Gesù, il doloroso passaggio che introduce alla gloria, cioè
alla vita di Dio. Alla morte tutti arrivano, prima o poi. Ma la morte
non è il precipitare nell’abisso del nulla, perché Gesù è là, nella
morte, come la porta che introduce alla vita di Dio. I discepoli di Gesù
proclamano che non c’è altro nome che si possa invocare per essere
salvati e Gesù dichiara: «E io, quando sarò innalzato da terra attirerò
tutti a me» e l’evangelista commenta: «Diceva questo per indicare di
quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
La vita eterna è quindi
quella vita che ha principio nella storia di Gesù, cioè nel suo essere
“fatto carne”, corpo, tempo, agire, parlare, soffrire: uomo, insomma. In
questa rivelazione, in questa promessa si rivela una caratteristica
distanza rispetto al pensiero greco, in particolare dalla tradizione
platonica, che insegnava l’immortalità dell’anima come prospettiva di
salvezza e considerava il corpo una condizione di precarietà da cui
evadere. La convinzione che la persona umana sia composta di anima e
corpo, ma che la verità dell’uomo sia la sua anima, sopravvive in molte
espressioni della storia del pensiero occidentale. Anche il
cristianesimo ne è stato segnato anche se ha sempre conservato come
indiscutibile la dottrina della “risurrezione della carne”.
L’insegnamento
cristiano riconosce nella risurrezione il compimento della salvezza,
cioè tutta la persona è salvata. Tutta la persona significa tutte le
componenti con cui si può descrivere l’essere umano, secondo
l’antropologia che si ritiene di assumere: anima e corpo, oppure anima,
corpo e spirito, eccetera. Si comprende pertanto l’insistenza dei
racconti evangelici nel raccontare la dimensione corporea delle
apparizioni di Gesù risorto.
Nel frammento dell’uomo Gesù è il
principio per la salvezza del tutto: ma come possono accedere tutti gli
uomini e le donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi a questo
frammento di storia, per essere salvati? L’intenzione di Gesù di
raggiungere tutti si rende effettiva nella celebrazione eucaristica alla
quale conduce la predicazione del Vangelo. La comunione con Gesù, con
il suo pensiero, con il suo corpo glorioso, è frutto dello stesso
Spirito che ha compiuto l’incarnazione del Verbo di Dio nell’uomo di
Gesù, figlio di Maria. Lo Spirito, inviato dal Crocifisso, rende
possibile entrare nella relazione con il Padre, come figli, perché uniti
al Figlio. Perciò lo Spirito rende possibile la divinizzazione di ogni
figlio dell’uomo perché diventi figlio di Dio. L’insegnamento cattolico
non separa fede e sacramenti, Parola di Dio ed Eucaristia: la dinamica
sacramentale è la celebrazione della salvezza che coinvolge tutte le
componenti della persona, l’intelligenza, la corporeità, la dimensione
intima e la dimensione comunitaria.
Come il pane e il vino
«ricevendo la parola di Dio divengono Eucaristia, cioè il corpo e il
sangue di Cristo, così anche i nostri corpi, che si sono nutriti di
essa, sono stati collocati nella terra e vi si sono dissolti,
risorgeranno al loro tempo, perché il Verbo di Dio donerà loro la
risurrezione, per la gloria di Dio Padre» (Ireneo, Contro le Eresie,
V,2,2). Perciò si può chiamare l’Eucaristia «medicina di immortalità»,
secondo la suggestiva espressione di Ignazio di Antiochia (Ef 20).