Il Sole Domenica 18.2.18
Stephen Hawking (1942-2018)
Oltre i limiti dell’Universo
È stato non solo un fisico matematico di eccezionale abilità, ma anche il più grande «scienziato visibile» dei nostri tempi
di Vincenzo Barone
Avevamo
parlato di lui domenica scorsa, a proposito della sua convinzione che
si arriverà prima o poi a elaborare una teoria del tutto. «Se saremo
sufficientemente bravi», aggiungeva. Adesso bisognerà fare a meno del
suo genio: Stephen Hawking ci ha lasciati il 14 marzo (il «giorno del pi
greco» per i matematici) e non potrà più partecipare a quella corsa
verso la comprensione dell’universo a cui, nell’ultimo mezzo secolo, ha
contribuito come pochi altri.
Nato a Oxford nel 1942, titolare per
trent’anni della cattedra lucasiana dell’Università di Cambridge (la
stessa di Newton e, nel Novecento, di Dirac), Hawking è stato uno dei
più illustri e influenti studiosi di cosmologia, capace di plasmare e
orientare questa disciplina grazie a una notevole abilità matematica, a
un formidabile intuito e a una profondissima conoscenza della relatività
generale e delle teorie quantistiche. Tra i risultati scientifici cui è
legato il suo nome ricordiamo innanzi tutto i teoremi, dimostrati alla
fine degli anni Sessanta assieme a Roger Penrose, che stabiliscono
l’esistenza di una singolarità iniziale dello spazio-tempo, uno stato di
infinita densità e curvatura dell’universo da cui tutto (incluso il
tempo) ha preso avvio: fu grazie a questi teoremi che si impose
definitivamente la teoria del Big Bang, sostenuta sul piano sperimentale
dall’osservazione del fondo cosmico di microonde.
Vennero poi le
sorprendenti scoperte teoriche sui buchi neri, gli oggetti più
affascinanti e misteriosi della natura. Questi concentrati di pura
gravità sono «neri» perché niente, neanche la luce, riesce a sfuggire
alla loro attrazione. Così perlomeno si riteneva fino al 1974, quando
Hawking dimostrò che i buchi neri, in realtà, non sono completamente
neri, perché, a causa di effetti quantistici, «evaporano», emettendo
radiazione termica, come un corpo riscaldato a una certa temperatura. Le
fluttuazioni quantistiche nelle vicinanze della superficie di un buco
nero generano coppie di particelle e antiparticelle: un elemento di ogni
coppia viene risucchiato dal buco, l’altro sfugge. Il fenomeno,
inizialmente messo in discussione ma poi riconosciuto come reale, pone
un’intrigante domanda: l’evaporazione di un buco nero, che porta infine
alla sua scomparsa, non rischia di cancellare per sempre l’informazione
contenuta nella materia collassata, in contrasto con i princìpi
quantistici che prevedono invece che l’informazione si conservi? È una
delle questioni cruciali su cui si esercitano da lungo tempo i vari
modelli di quantizzazione della gravità, e su cui lo stesso Hawking ha
assunto posizioni diverse nel corso degli anni (gli approcci più recenti
sembrano indicare che le leggi quantistiche sono rispettate).
Rimanendo
in argomento, si deve a Hawking la derivazione precisa della formula
(già congetturata da Jacob Bekenstein) che fornisce l’entropia di un
buco nero in funzione dell’area della sua superficie (il cosiddetto
orizzonte degli eventi). Si tratta di un’espressione matematica di
stupefacente bellezza, una sorta di sintesi della fisica fondamentale:
contiene tutte le costanti universali della natura – per la cronaca: la
costante di Boltzmann della termodinamica, la velocità della luce, il
quanto di Planck, la costante gravitazionale di Newton – organizzate in
una relazione semplicissima. Una delle formule più eleganti della
fisica, ma soprattutto un banco di prova per le teorie di gravità
quantistica, che sono chiamate a renderne conto.
Hawking non è
stato solo un fisico matematico di eccezionale ingegno, ma anche il più
grande «scienziato visibile» della seconda metà del Novecento. Il suo A
Brief History of Time (in italiano, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli)
si è imposto come un best-seller planetario, con decine di milioni di
copie vendute in tutto il mondo. Nel 1988 il tour di presentazione del
libro negli Stati Uniti fu memorabile: teatri stracolmi e folle
acclamanti, come non se ne vedevano per uno scienziato dai tempi di
Einstein. E proprio come Einstein, Hawking ha rappresentato un’icona
della scienza: una mente straordinaria, intrappolata in un corpo segnato
da una grave malattia, incapace quasi di esprimersi, eppure in grado di
pensare, con impareggiabile acume, l’universo.
Riflettendo sul
mito di Einstein, Roland Barthes osservava che esso combina due elementi
apparentemente contraddittori: da un lato, il cervello come organo
prodigioso, ma materiale, che produce continuamente pensiero,
dall’altro, un sapere esoterico, che cerca il segreto del mondo. «Fatto
paradossale – scriveva Barthes –, più il genio dell’uomo veniva
materializzato sotto le specie del suo cervello, più il prodotto della
sua invenzione raggiungeva una condizione magica». Di Hawking, della sua
popolarità e del suo mito, si può dire – fatte le dovute proporzioni –
qualcosa di simile: una scienza incomprensibile ai più, percepita come
un miscuglio di calcolo e di magia, che però – e questo lo capiscono
tutti – ci innalza a vette a cui nessuna narrazione, nessun’opera di
fantasia, nessuna filosofia sono in grado di condurci.
Con lo
sguardo sempre rivolto in avanti e oltre, al futuro – anche lontano –
della fisica e dell’umanità (la capacità di trascendere i limiti,
diceva, è ciò che rende unica la specie umana), nel 2015 Hawking si
presentò nella veste di consulente scientifico delle Breakthrough
Initiatives del miliardario Yuri Milner: costretto all’immobilità,
immaginò minuscole navicelle viaggianti a una frazione della velocità
della luce, da spedire verso Alpha Centauri alla ricerca di pianeti
abitabili e di vita extraterrestre. Già da bambino sognava di «sondare
le profondità dell’universo». Ci è riuscito più di chiunque altro, da
una sedia a rotelle.