lunedì 19 marzo 2018

Il Sole Domenica 18.2.18
Stephen Hawking (1942-2018)
Oltre i limiti dell’Universo
È stato non solo un fisico matematico di eccezionale abilità, ma anche il più grande «scienziato visibile» dei nostri tempi
di Vincenzo Barone


Avevamo parlato di lui domenica scorsa, a proposito della sua convinzione che si arriverà prima o poi a elaborare una teoria del tutto. «Se saremo sufficientemente bravi», aggiungeva. Adesso bisognerà fare a meno del suo genio: Stephen Hawking ci ha lasciati il 14 marzo (il «giorno del pi greco» per i matematici) e non potrà più partecipare a quella corsa verso la comprensione dell’universo a cui, nell’ultimo mezzo secolo, ha contribuito come pochi altri.
Nato a Oxford nel 1942, titolare per trent’anni della cattedra lucasiana dell’Università di Cambridge (la stessa di Newton e, nel Novecento, di Dirac), Hawking è stato uno dei più illustri e influenti studiosi di cosmologia, capace di plasmare e orientare questa disciplina grazie a una notevole abilità matematica, a un formidabile intuito e a una profondissima conoscenza della relatività generale e delle teorie quantistiche. Tra i risultati scientifici cui è legato il suo nome ricordiamo innanzi tutto i teoremi, dimostrati alla fine degli anni Sessanta assieme a Roger Penrose, che stabiliscono l’esistenza di una singolarità iniziale dello spazio-tempo, uno stato di infinita densità e curvatura dell’universo da cui tutto (incluso il tempo) ha preso avvio: fu grazie a questi teoremi che si impose definitivamente la teoria del Big Bang, sostenuta sul piano sperimentale dall’osservazione del fondo cosmico di microonde.
Vennero poi le sorprendenti scoperte teoriche sui buchi neri, gli oggetti più affascinanti e misteriosi della natura. Questi concentrati di pura gravità sono «neri» perché niente, neanche la luce, riesce a sfuggire alla loro attrazione. Così perlomeno si riteneva fino al 1974, quando Hawking dimostrò che i buchi neri, in realtà, non sono completamente neri, perché, a causa di effetti quantistici, «evaporano», emettendo radiazione termica, come un corpo riscaldato a una certa temperatura. Le fluttuazioni quantistiche nelle vicinanze della superficie di un buco nero generano coppie di particelle e antiparticelle: un elemento di ogni coppia viene risucchiato dal buco, l’altro sfugge. Il fenomeno, inizialmente messo in discussione ma poi riconosciuto come reale, pone un’intrigante domanda: l’evaporazione di un buco nero, che porta infine alla sua scomparsa, non rischia di cancellare per sempre l’informazione contenuta nella materia collassata, in contrasto con i princìpi quantistici che prevedono invece che l’informazione si conservi? È una delle questioni cruciali su cui si esercitano da lungo tempo i vari modelli di quantizzazione della gravità, e su cui lo stesso Hawking ha assunto posizioni diverse nel corso degli anni (gli approcci più recenti sembrano indicare che le leggi quantistiche sono rispettate).
Rimanendo in argomento, si deve a Hawking la derivazione precisa della formula (già congetturata da Jacob Bekenstein) che fornisce l’entropia di un buco nero in funzione dell’area della sua superficie (il cosiddetto orizzonte degli eventi). Si tratta di un’espressione matematica di stupefacente bellezza, una sorta di sintesi della fisica fondamentale: contiene tutte le costanti universali della natura – per la cronaca: la costante di Boltzmann della termodinamica, la velocità della luce, il quanto di Planck, la costante gravitazionale di Newton – organizzate in una relazione semplicissima. Una delle formule più eleganti della fisica, ma soprattutto un banco di prova per le teorie di gravità quantistica, che sono chiamate a renderne conto.
Hawking non è stato solo un fisico matematico di eccezionale ingegno, ma anche il più grande «scienziato visibile» della seconda metà del Novecento. Il suo A Brief History of Time (in italiano, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli) si è imposto come un best-seller planetario, con decine di milioni di copie vendute in tutto il mondo. Nel 1988 il tour di presentazione del libro negli Stati Uniti fu memorabile: teatri stracolmi e folle acclamanti, come non se ne vedevano per uno scienziato dai tempi di Einstein. E proprio come Einstein, Hawking ha rappresentato un’icona della scienza: una mente straordinaria, intrappolata in un corpo segnato da una grave malattia, incapace quasi di esprimersi, eppure in grado di pensare, con impareggiabile acume, l’universo.
Riflettendo sul mito di Einstein, Roland Barthes osservava che esso combina due elementi apparentemente contraddittori: da un lato, il cervello come organo prodigioso, ma materiale, che produce continuamente pensiero, dall’altro, un sapere esoterico, che cerca il segreto del mondo. «Fatto paradossale – scriveva Barthes –, più il genio dell’uomo veniva materializzato sotto le specie del suo cervello, più il prodotto della sua invenzione raggiungeva una condizione magica». Di Hawking, della sua popolarità e del suo mito, si può dire – fatte le dovute proporzioni – qualcosa di simile: una scienza incomprensibile ai più, percepita come un miscuglio di calcolo e di magia, che però – e questo lo capiscono tutti – ci innalza a vette a cui nessuna narrazione, nessun’opera di fantasia, nessuna filosofia sono in grado di condurci.
Con lo sguardo sempre rivolto in avanti e oltre, al futuro – anche lontano – della fisica e dell’umanità (la capacità di trascendere i limiti, diceva, è ciò che rende unica la specie umana), nel 2015 Hawking si presentò nella veste di consulente scientifico delle Breakthrough Initiatives del miliardario Yuri Milner: costretto all’immobilità, immaginò minuscole navicelle viaggianti a una frazione della velocità della luce, da spedire verso Alpha Centauri alla ricerca di pianeti abitabili e di vita extraterrestre. Già da bambino sognava di «sondare le profondità dell’universo». Ci è riuscito più di chiunque altro, da una sedia a rotelle.