Il Sole Domenica 18.2.18
Aristotele
La prudenza dello stratega
di Maria Bettetini
Sii
prudente! Una raccomandazione tante volte fatta e ricevuta, volta a
evitare gli eccessi di velocità, le frequentazioni sbagliate, il golfino
dimenticato. Nel linguaggio quotidiano è prudente chi ha sempre un
ombrello in auto, chi compra per tempo i biglietti. Niente di male, le
parole assumono sensi nel tempo diversi. Ma in filosofia la prudenza è
un’altra cosa, traduce la prudentia latina e la phron?sis greca, è la
capacità di scegliere i mezzi con cui raggiungere i fini individuati
dall’int elligenza, la virtù dello stratega, che per vincere la guerra
deve organizzare bene i movimenti delle sue truppe e sapere quando
ordinare un attacco o una ritirata, come far agire le spie e gli
alleati.
Solo che, per Aristotele e per molta filosofia che a lui
nei secoli si è ispirata, la guerra di cui si parla è quella che ognuno
di noi combatte tutte le volte che compie un’azione morale, anzi no,
qualunque azione, dato che tutte hanno la tensione al raggiungimento di
un fine, che sia lavarsi i denti o salvare una vita buttandosi nelle
acque agitate del mare (che poi dire azione morale o etica è
pleonastico, se mos ed ethos significano consuetudine, abitudine a
ripetere un’azione che comunque va innanzitutto compiuta, quindi
significherebbe «azione agita»).
Pierre Aubenque è uno dei più
grandi studiosi aristotelici viventi, e in generale dell’ultimo secolo.
La sua opera più nota è Le problème de l’être chez Aristote, del 1962,
cui ha fatto seguito La prudence chez Aristote (1963), prima e finora
unica a essere tradotta in italiano nell’elegante prosa di Faber Fabbris
(che non è uno pseudonimo, è il nome di un ingegnere appassionato di
filosofia, tutt’altro che dilettante). Per comprendere il senso del
secondo libro si devono ricordare i contenuti del primo, che negli anni
Sessanta scosse gli studiosi presentando un Aristotele che in certo
senso si poté dire «debole», ma che così è meglio oggi non definire, per
evitare le contaminazioni di tale aggettivo oggi.
Diciamo che
Aubenque ha tolto la metafisica di Aristotele dagli scaffali polverosi
di un aristotelismo da manuale, che nei secoli ha sistematizzato in
certezze quegli appunti che costituiscono le sue lezioni sull’essere, e
insieme lo ha sottratto all’eccesso opposto, all’Aristotele che evolve,
mutando pensiero riga dopo riga, come avrebbe voluto uno Jaeger. In un
passo di Aubenque, citato nelle limpide pagine della prefazione di
Enrico Berti, si legge che la metafisica «decostruisce le chiusure, apre
sempre di nuovo delle possibilità prematuramente chiuse nel pensiero».
Per
dirla con Kant, la metafisica è la respiration même de la pensée, il
respiro stesso del pensiero. Una dichiarazione d’amore, ma anche la
consapevolezza che quei «molti modi» con cui l’essere si può dire non
consentiranno mai un sistema chiuso, una lettura priva di dialettica e
aporeticità delle pagine metafisiche di Aristotele.
Così, nello
studio sulla prudenza, ossia sul versante etico, la phron?sis non è una
scienza, ma è necessaria a costruire quella scienza «pratica» che è
l’etica, e lo è in quanto è conoscenza teoretica dei fini, quindi della
causa finale della vita dell’uomo nella polis, in ultima analisi la
felicità. Certamente la scienza che quindi possiamo dire, con più
esattezza, «politica», non è esatta come possono esserlo le scienze
matematiche, che valgono indipendentemente dal qui e ora. Nelle fondanti
pagine introduttive dell’Etica a Nicomaco, d’altra parte, Aristotele
ricorda che «il moralmente bello e il giusto», oggetto della scienza
politica, hanno «tante differenze e fluttuazioni», tanto che alcuni li
ritengono definiti solo per convenzione. Invece essi esistono «per
natura», ma, come ben sa l’uomo coltivato, non potremo pretendere in
proposito dimostrazioni esatte, perché dobbiamo richiedere «in ciascun
campo tanta precisione quanta ne permette la natura dell’oggetto».
Insomma,
esistono verità etiche, ma consentono eccezioni, perché vanno sempre
contestualizzate e lette nel tempo e nello spazio. La filosofia pratica
studia quindi le azioni umane da un lato per capire quali meccanismi
seguano, dall’altro per mostrare quale sia il bene dell’individuo e
della famiglia in sé e all’interno della comunità, arrivando a definire
gli «abiti buoni», le virtù etiche che come vertici si distanziano da
due cattivi comportamenti. La prudenza è una virtù, ma della mente, non
del fare: è la capacità di scegliere come raggiungere il bene mostrato
dall’altra virtù «della mente», quella sapienza che sa vedere il bene,
nonostante le tante «differenze e fluttuazioni» di cui si diceva.
È
quindi l’intelletto a comandare, a vedere il bene e a decidere come
raggiungerlo, ma a differenza di tanti filosofi, non solo greci e non
solo antichi, proprio la «debolezza» della scienza pratica è quella che
permette di salvare il mistero della proairesis, della scelta.
Nonostante tutte le buone educazioni alla virtù e quindi i corretti
abiti mentali, la decisione umana rimane del tutto indeterminata.
Libera. Come Martha Nussbaum ha, fin troppo, sottolineato, tale
«fragilità» della scienza etica è quella che consente di collocare
Aristotele accanto alla grande letteratura tragica, dove l’uomo, a volte
anche inconsapevolmente, sbaglia, si pente, si dispera. È fragile, è
solo, ma può essere padrone di stesso, è uomo.
Pierre
Aubenque, La prudenza in Aristotele , prefazione di Enrico Berti,
traduzione di Faber Fabbris, con un’intervista inedita all’autore,
Studium edizioni, Roma, pagg. 238,
€ 22.50