Il Sole Domenica 18.2.18
Kalidasa (IV-V sec. d.C.)
Eros e ascesi: l’amore hindu
Tradotta per la prima volta «La storia di Shiva e Parvati», splendido poema che rappresenta la visione tantrica della sessualità
di Giuliano Boccali
Come
spesso accade nei miti indiani, un demone – Taraka in questo caso – si è
impadronito dell’universo e ne fa scempio; nessuno degli dèi lo può
debellare, ma il creatore Brahma sancisce che un dio non ancora
esistente, figlio di Shiva e Parvati, lo potrà vincere. Il suo nome sarà
Kumara e il poema della sua origine (Kumarasambhava in sanscrito),
tradotto per la prima volta in italiano, è la bellissima storia d’amore
dei suoi divini genitori, storia che sprigiona una grande densità di
significati destinati a dilatarsi. Come molte ’fiabe’, esordisce con la
descrizione del reame ricco e felice dove nasce e cresce la protagonista
Parvati: quello di suo padre Himalaya, re supremo dei monti, di cui è
offerta nell’incipit la straordinaria descrizione; mentre dell’eroina si
narrano in breve il concepimento, la nascita accompagnata da fausti
segni, l’infanzia e l’adolescenza felici fino a descriverne la forma
stupenda all’età di sedici anni, ritenuta nell’India antica quella della
perfezione fisica sia per la donna sia per l’uomo. E questa descrizione
completa di Parvati è la prima così estesa di una beltà femminile
dell’intera letteratura indiana, rappresentando il prototipo di
un’espressione letteraria destinata a grande successo anche come forma
autonoma.
Il canto iniziale si chiude con una breve descrizione di
Shiva immerso nell’ascesi come rifugio dal dolore lacerante del suo
lutto per la tragica morte della prima sposa, di cui Parvati è la
reincarnazione; adolescente ingenua e già innamorata, ma istruita dal
padre, la meravigliosa fanciulla gli si affaccenda intorno per
compiacerlo e attirarlo. Il Dio la lascia fare. Kalidasa (IV-V sec.
d.C.), l’autore del poema, con questo pone subito i due poli della
figura del dio supremo che appare dividersi fra l’ascesi e l’eros, o
meglio integrarli in se stesso, contrassegni della sua
complessiUrquharttà fra i quali non esiste mediazione. La polarizzazione
particolare ascesi-eros si riverbera anche sulla figura della fanciulla
divina e sull’intero poema, anche se l’amore è destinato qui a
prevalere definitivamente pure per evidenti ragioni di plot. Come sempre
accade nelle opere indiane classiche di più alto valore poetico e di
coerenza interna meglio evidente, sono così poste le strutture
significanti fondamentali dell’opera, che coincidono in questo caso con
quelle dell’intera civiltà indiana; essa sembra infatti alimentarsi
incessantemente del distacco e del desiderio posti in una condizione non
tanto contraddittoria quanto speculare.
E così, a vincere la
refrattarietà di Shiva all’amore è chiamato il Cupido indiano, Kama, che
come il suo collega occidentale opera con arco e frecce; male però
gliene incoglie: disturbato nella sua meditazione profonda, in un
impulso irrefrenabile di collera il Grande Asceta incenerisce con
l’energia sprigionata dal suo terzo occhio l’incosciente arciere. A
conquistare Shiva non è dunque il dardo del dio dell’amore, sarà invece
l’intelligente Parvati, che lo attrae gareggiando con lui in un’ascesi
implacabile. Lo sposalizio trionfale nella capitale del regno,
fantasmagorica e festante, e una notte d’amore senza fine coronano la
storia di una delle coppie più amate della religione hindu e
dell’immaginario mondiale, capace di meravigliare i lettori di ogni
epoca.
Composta secondo i principi raffinati della letteratura
indiana classica, costruita in maniera magistrale nella scansione degli
episodi e dei sentimenti, La Storia di Shiva e Parvati si può leggere
anche come un’introduzione poetica ai grandi temi della relazione fra
ascesi ed erotismo e della visione tantrica della sessualità. Dietro e
attraverso la trama iconica dei significati profondi, scintilla sempre
l’arte di Kalidasa, forse il più grande genio poetico dell’India
classica, capace di evocare tutti gli aspetti dell’emozione. E questa si
rivela soprattutto nelle immagini originali che ricorrono copiose nel
poema, ispirate in particolare dalla natura, da accostamenti di colori,
da bagliori improvvisi e giochi di riflessi luminosi, da coraggiosi
confronti e contrasti di forme. Ecco per esempio una strofe dalla
descrizione del sorgere della luna (VIII, 60) con cui Shiva incanta la
sua sposa: «L’Oriente, incitato dalla notte, rivela / come un segreto
questo cerchio di luna, / l’apparizione trattenuta sino alla fine del
giorno, / mentre prima si scorge il sorriso di un tenue chiarore».
Ma
c’è un altro aspetto della poesia di Kalidasa che si desidera mettere
in luce; un aspetto niente affatto diffuso nella mentalità indiana, che
si può chiamare “umanistico” e che trova a mio parere particolare
consenso nella sensibilità di un odierno lettore europeo. Si esprime in
tratti di grande attenzione a particolari concreti dei rapporti, come
nel caso della strofe III, 22, dove il re dei celesti Indra congeda
Amore cui ha appena affidato la missione di trafiggere Shiva:
«“Così
dev’essere!” Ricevendo come una ghirlanda sul capo / l’ordine del suo
signore, Amore che inebria si avviò; / con la mano ruvida per gli
incitamenti al suo elefante Airavana, / Indra toccò il corpo di lui».
La
mano “ruvida” (di un Dio!) per le carezze all’elefante suo veicolo e
compagno è un tratto geniale, assolutamente unico nella consuetudine
poetica indiana. Al lettore non sarà però sfuggito anche il tratto
ironico nel paragone sull’attitudine di Amore che riceve «come una
ghirlanda sul capo», cioè come un coronamento trionfale… l’ordine
sornione che gli costerà l’incenerimento.
Ma l’acume psicologico
di Kalidasa non solamente abita in rappresentazioni sottilmente ironiche
o mondane; altrove infatti anima di verità i due sentimenti più forti
dei protagonisti, il dolore e l’amore. È il caso della strofe (VII, 74)
che evoca la gioia radiosa di Shiva poco prima della cerimonia di nozze
con l’amata:
«Congiungendosi a quella giovane, sempre più bella la
luna del suo volto, / i loti degli occhi di Shiva fiorirono, / le acque
della sua anima si illimpidirono: / divenne come il mondo quando si
congiunge alla stagione autunnale».
Divenne cioè come il mondo
dopo la stagione delle piogge, con l’aria trasparente, il cielo terso,
le notti di luna bianche d’incanto sospeso… Potremmo moltiplicare gli
esempi, forse finiremmo per richiamare ogni strofe del poema, come
potrebbe accadere per altri capolavori dello stesso Kalidasa e di altri
grandi poeti indiani: dove ogni strofe, se ascoltata in un lento e
assorto assaporare, dischiude la magia di segrete risonanze, di
corrispondenze sottili fra mondo esterno, naturale o umano, e silenziosa
interiorità.
Anticipiamo un estratto dell’introduzione
di «La storia di Shiva e Parvati» (Kumarasambhava), per la prima volta
tradotta in italiano a cura del nostro collaboratore Giuliano Boccali
(Marsilio, Venezia, pagg. 304, € 19)