Il Sole domenica 11.3.18
Rossana rossanda
Saper fare i conti con il corpo
di Eliana Di Caro
Non
è mai semplice decidere le copertine di un libro, ma quella di Questo
corpo che mi abita appare particolarmente indovinata: ritrae due mani
intrecciate, eleganti, adagiate su un contrastante sfondo color mattone
che ne esalta la delicatezza.
Lo studio del pittore rinascimentale
Andrea del Sarto sembra evocare le mani dell’autrice, Rossana Rossanda,
che in un capitolo centrale della raccolta, quello che dà il nome al
volume, si sofferma sul decadimento del suo corpo e di come vi è venuta a
patti in una fase della vita in cui ha scoperto anche l’importanza del
sé. Ricorda le sue mani, «loro sì che erano “la forma”. Erano
bellissime»; poi, invecchiando, hanno denunciato l’inesorabilità del
tempo: «A ogni articolazione c’è una collinetta, un cornetto sconnesso,
irregolare, come se sotto le sue ossa premessero per uscire». Sul tema
del diktat del corpo, della bellezza e dell’incombere della vecchiaia ci
sono pagine di spietata sincerità, sia su se stessa sia sulla
“condanna” cui è sottoposta la donna che è anzitutto «vista: è lo
sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui prima di tutto è bella o
brutta, bionda o bruna, gambe e seni e fianchi. Lei non può non vedersi
vista. (...) Siamo così avvezze a curare la nostra apparenza, che appare
eccentrico il non farlo».
Il libro - a cura di Lea Melandri, che
aveva ospitato i singoli contributi sulla rivista «Lapis» - riprende
alcuni momenti della riflessione di Rossanda, dedita per molti anni
esclusivamente al partito e alla sua causa, e per questo a volte
criticata o poco compresa dalle militanti femministe: ai loro occhi,
come ricorda la stessa autrice, non si era resa autonoma ma aveva finito
per «martirizzarsi» nell’antica dipendenza dall’universo dell’uomo. Nel
saggio «Autodifesa di un io politico» l’intellettuale comunista rifiuta
questa lettura e spiega chiaramente l’urgenza della sua scelta: «Ho
visto attorno a me, vicino o lontano, gente che non riusciva a essere
perché costretta da inutili illibertà. Inutili nel senso che derivavano
da prepotenze, arroganze o azioni di potere che si possono condannare e
scartare da sé. (...) Non tollero che non abbiamo gli stessi diritti di
gestire la nostra sorte e la nostra intrinseca, non coatta, liberatoria
diversità perché bloccati dalle necessità imposte dal potere, dal
denaro, da tutto ciò che fa di alcuni oggetto di scelte altrui. Questo
per me è “politica”, sono “gli altri” - non è una privazione, è come
respirare». Vuol dire lotta contro la disuguaglianza, rifiuto di
rassegnarsi di fronte a un destino predeterminato, distanza rispetto al
ripiegamento delle donne su stesse.
Un tema, quest’ultimo, su cui
torna più avanti, nel contributo «Il profondo e la storia», scritto nei
drammatici giorni della fine dell’89, dove invita le altre a realizzare
che non sono fuori dalla storia come credono («nessuno lo è») ma, se
mai, «molti e quasi tutte le donne sono state messi fuori dai luoghi di
decisione della storia». Rossanda, la ragazza del secolo scorso che fa
politica non solo femminile, ma interviene anche «nell’altra politica»
rivendicando questo impegno con orgoglio (e senza considerare gli uomini
dei nemici), è considerata un «caso». Una che non «sarà mai liberata
dalle furie che ha alle calcagna finché vorrà capire. Sii soltanto
donna, estranea, parziale». Impossibile, sottolinea lei: «Io non sono
due, sono una sola».
eliana.dicaro@ilsole24ore.com
Rossana Rossanda, Questo corpo
che mi abita , a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri, Torino,
pagg. 120, € 12