Il Sole domenica 11.3.18
Teoria del «tutto»
Se l’universo sfugge all’algoritmo
di Vincenzo Barone
«Tutto»
in fisica può voler dire due cose: da un lato, l’universo nella sua
interezza, oggetto di studio della cosmologia, dall’altro, l’insieme di
tutti i fenomeni naturali. È in questa seconda accezione che si parla di
«teorie del tutto», per indicare quelle teorie che si propongono di
descrivere e comprendere, sotto poche leggi universali, tutto ciò che
avviene in natura a livello fondamentale. Ma, come spiega il fisico
Frank Close in un saggio appena pubblicato da Bollati Boringhieri, che
ha il duplice pregio della sintesi e della chiarezza, buona parte del
«tutto» ci è ancora ignota, e dunque la costruzione di una teoria del
tutto non può che partire dall’unificazione dei fenomeni conosciuti.
Questo processo, che passa per la formulazione di «teorie del qualcosa» e
di «teorie del quasi tutto», è reso possibile da una fortunata
caratteristica della natura – la sua organizzazione a «strati»,
approssimativamente indipendenti l’uno dall’altro –, che ci consente di
fare progressi nonostante l’incompletezza delle nostre esperienze.
Sebbene
l’unità sia da sempre un valore in fisica, è con Einstein che
l’elaborazione di una teoria unificata diventa un obiettivo esplicito e
sistematico della ricerca. “Il fine della scienza – affermava il padre
della relatività – è, da una parte, la comprensione più completa
possibile della connessione fra le esperienze sensoriali nella loro
totalità, dall’altra, il raggiungimento di questo fine mediante l’uso di
un numero minimo di concetti e di relazioni primarie”. All’epoca, le
forze di natura conosciute (e le rispettive classi di fenomeni) erano
due: la gravità e l’elettromagnetismo. Einstein cercò per trent’anni di
unificarle producendo una decina di proposte teoriche, tutte
fallimentari (“Gli uomini non dovrebbero unire ciò che Dio ha separato”,
ebbe a dire in proposito un altro genio della fisica, il caustico
Wolfgang Pauli). Diffidando della meccanica quantistica, Einstein
riteneva che la teoria unitaria dovesse essere una teoria classica dei
campi. Oggi le cose si sono complicate, perché le forze sono diventate
nel frattempo quattro, con l’aggiunta delle due forze nucleari, “forte” e
“debole”. In compenso, sappiamo che l’ingrediente disdegnato da
Einstein è essenziale: le teorie fondamentali non possono che essere
quantistiche. Dalla sintesi di relatività ristretta e meccanica
quantistica è nata la teoria quantistica dei campi, il formalismo alla
base del Modello Standard, che descrive le particelle elementari e le
tre forze rilevanti del microcosmo (elettromagnetica, forte e debole).
Questa teoria, però, è solo parzialmente unificata e presenta un alto
grado di arbitrarietà. Inoltre – problema ben più grave – non si sa come
quantizzare la quarta forza, la gravità (quando si tenta di farlo
compaiono quantità infinite prive di senso fisico).
Close paragona
l’attuale situazione della fisica teorica a quella di inizio Novecento,
quando, in una famosa lezione alla Royal Institution di Londra, Lord
Kelvin pronunciò alcune parole passate alla storia: «La limpida bellezza
della teoria dinamica – disse – è al momento oscurata da due nubi».
Kelvin pensava che sarebbe bastato dissipare con qualche abile mossa
quelle nubi – riguardanti il moto della Terra nell’etere e la
descrizione statistica di materia e radiazione – per mettere tutto a
posto. Non poteva immaginare la tempesta che stava per scatenarsi: di lì
a poco, proprio da quelle nubi sarebbero scaturite le due teorie che
hanno sovvertito la fisica contemporanea, la relatività e la meccanica
quantistica. Oggi come allora, alcune «nubi» oscurano il cielo della
fisica fondamentale. Una di esse consiste nel cosiddetto problema della
«gerarchia»il fatto che enormi fluttuazioni quantistiche si cancellino
alla perfezione lasciando esattamente quei piccoli residui che
corrispondono alle proprietà misurate delle particelle elementari.
Un’altra riguarda la costante cosmologica, responsabile dell’espansione
accelerata dell’universo. L’origine più naturale di tale costante
sarebbe l’energia del vuoto, che secondo la teoria quantistica dei campi
permea tutto l’universo, ma la discrepanza tra il valore osservato e la
stima teorica è inimmaginabile: 1 seguito da 120 zeri! Queste e altre
«nubi» indicano chiaramente che occorre andare al di là dell’attuale
paradigma teorico, e le proposte in tal senso non mancano: il panorama
comprende modelli di grande unificazione basati sulla supersimmetria
(che però non incorporano la gravità), vari approcci di gravità
quantistica e uno schema molto più generale, che tenta di unificare
tutto, la teoria delle stringhe. Ma la risoluzione di ogni singolo
problema ne fa comparire altri, alcuni dei quali piuttosto indigesti
(come il multiverso, che sfida i criteri stessi di scientificità delle
teorie).
Nel 1980, in una conferenza intitolata «Fine in vista per
la fisica teorica?» (che Close cita in apertura), Stephen Hawking
previde, con una probabilità del 50%, che i fisici avrebbero raggiunto
la teoria finale entro la fine del millennio. Tornando sulla questione
dieci anni dopo e constatando che i progressi erano stati più lenti di
quanto ci si aspettasse, si limitò a spostare in avanti il traguardo di
altri dieci anni. Nel 2018 la meta appare ancora lontana e nessuno si
sbilancia più sul futuro. Troveremo mai una teoria del tutto? E prima
ancora, è immaginabile una simile teoria? Hawking suggeriva tre scenari:
1) Esiste una teoria definitiva, che un giorno saremo in grado di
scoprire; 2) Non esiste una teoria finale, ma solo una sequenza infinita
di teorie che descrivono l’universo con precisione crescente; 3) Non
esiste alcuna teoria dell’universo: al fondo delle cose, gli eventi sono
soggetti solo al caso. La preferenza del fisico inglese andava alla
prima opzione. Ma molti la pensavano (e la pensano) in maniera diversa:
«Se scoprissimo davvero la teoria finale che spiega tutto – scrisse nel
1994 Tullio Regge – rimarrei deluso dall’universo e lo considererei
opera di un dilettante». Regge, come il suo collega e amico Freeman
Dyson, propendeva per un universo inesauribile, infinito anche nella sua
struttura logica (la seconda opzione). Quanto alla terza opzione, a
sostenerla per primo è stato John Archibald Wheeler, uno dei fisici più
inventivi del Novecento. Secondo Wheeler, dopo l’era «galileiana»,
caratterizzata dalla descrizione quantitativa dell’universo, e l’attuale
era «newtoniana», caratterizzata dalle leggi matematiche della natura,
dobbiamo aspettarci una terza era, quella della «legge senza legge», in
cui scopriremo che le leggi fisiche fondamentali emergono da un
substrato caotico, costituito da una miriade di eventi quantistici
elementari.
C’è anche un quarto scenario, proposto dallo stesso
Regge e dal fisico matematico Roger Penrose: la loro idea, decisamente
radicale, è che la teoria del tutto sia non computabile nel senso
logico-matematico del termine. Le attuali teorie sono algoritmi che ci
consentono di calcolare porzioni del mondo, ma, a partire dagli studi di
Kurt Gödel e Alan Turing, sappiamo che ci sono problemi che non
ammettono algoritmi risolutivi. Perché non immaginare che il problema
del «tutto» sia di questo tipo? Se così fosse, l’universo avrebbe
escogitato un bel modo per rendersi irriducibile a quel suo infinitesimo
sottosistema che è la nostra mente.
vincenzo.barone@uniupo.it
Frank Close, Teorie del tutto , trad. di Francesca Pe’, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 136, € 19