lunedì 12 marzo 2018

Il Sole domenica 11.3.18
Teoria del «tutto»
Se l’universo sfugge all’algoritmo
di Vincenzo Barone


«Tutto» in fisica può voler dire due cose: da un lato, l’universo nella sua interezza, oggetto di studio della cosmologia, dall’altro, l’insieme di tutti i fenomeni naturali. È in questa seconda accezione che si parla di «teorie del tutto», per indicare quelle teorie che si propongono di descrivere e comprendere, sotto poche leggi universali, tutto ciò che avviene in natura a livello fondamentale. Ma, come spiega il fisico Frank Close in un saggio appena pubblicato da Bollati Boringhieri, che ha il duplice pregio della sintesi e della chiarezza, buona parte del «tutto» ci è ancora ignota, e dunque la costruzione di una teoria del tutto non può che partire dall’unificazione dei fenomeni conosciuti. Questo processo, che passa per la formulazione di «teorie del qualcosa» e di «teorie del quasi tutto», è reso possibile da una fortunata caratteristica della natura – la sua organizzazione a «strati», approssimativamente indipendenti l’uno dall’altro –, che ci consente di fare progressi nonostante l’incompletezza delle nostre esperienze.
Sebbene l’unità sia da sempre un valore in fisica, è con Einstein che l’elaborazione di una teoria unificata diventa un obiettivo esplicito e sistematico della ricerca. “Il fine della scienza – affermava il padre della relatività – è, da una parte, la comprensione più completa possibile della connessione fra le esperienze sensoriali nella loro totalità, dall’altra, il raggiungimento di questo fine mediante l’uso di un numero minimo di concetti e di relazioni primarie”. All’epoca, le forze di natura conosciute (e le rispettive classi di fenomeni) erano due: la gravità e l’elettromagnetismo. Einstein cercò per trent’anni di unificarle producendo una decina di proposte teoriche, tutte fallimentari (“Gli uomini non dovrebbero unire ciò che Dio ha separato”, ebbe a dire in proposito un altro genio della fisica, il caustico Wolfgang Pauli). Diffidando della meccanica quantistica, Einstein riteneva che la teoria unitaria dovesse essere una teoria classica dei campi. Oggi le cose si sono complicate, perché le forze sono diventate nel frattempo quattro, con l’aggiunta delle due forze nucleari, “forte” e “debole”. In compenso, sappiamo che l’ingrediente disdegnato da Einstein è essenziale: le teorie fondamentali non possono che essere quantistiche. Dalla sintesi di relatività ristretta e meccanica quantistica è nata la teoria quantistica dei campi, il formalismo alla base del Modello Standard, che descrive le particelle elementari e le tre forze rilevanti del microcosmo (elettromagnetica, forte e debole). Questa teoria, però, è solo parzialmente unificata e presenta un alto grado di arbitrarietà. Inoltre – problema ben più grave – non si sa come quantizzare la quarta forza, la gravità (quando si tenta di farlo compaiono quantità infinite prive di senso fisico).
Close paragona l’attuale situazione della fisica teorica a quella di inizio Novecento, quando, in una famosa lezione alla Royal Institution di Londra, Lord Kelvin pronunciò alcune parole passate alla storia: «La limpida bellezza della teoria dinamica – disse – è al momento oscurata da due nubi». Kelvin pensava che sarebbe bastato dissipare con qualche abile mossa quelle nubi – riguardanti il moto della Terra nell’etere e la descrizione statistica di materia e radiazione – per mettere tutto a posto. Non poteva immaginare la tempesta che stava per scatenarsi: di lì a poco, proprio da quelle nubi sarebbero scaturite le due teorie che hanno sovvertito la fisica contemporanea, la relatività e la meccanica quantistica. Oggi come allora, alcune «nubi» oscurano il cielo della fisica fondamentale. Una di esse consiste nel cosiddetto problema della «gerarchia»il fatto che enormi fluttuazioni quantistiche si cancellino alla perfezione lasciando esattamente quei piccoli residui che corrispondono alle proprietà misurate delle particelle elementari. Un’altra riguarda la costante cosmologica, responsabile dell’espansione accelerata dell’universo. L’origine più naturale di tale costante sarebbe l’energia del vuoto, che secondo la teoria quantistica dei campi permea tutto l’universo, ma la discrepanza tra il valore osservato e la stima teorica è inimmaginabile: 1 seguito da 120 zeri! Queste e altre «nubi» indicano chiaramente che occorre andare al di là dell’attuale paradigma teorico, e le proposte in tal senso non mancano: il panorama comprende modelli di grande unificazione basati sulla supersimmetria (che però non incorporano la gravità), vari approcci di gravità quantistica e uno schema molto più generale, che tenta di unificare tutto, la teoria delle stringhe. Ma la risoluzione di ogni singolo problema ne fa comparire altri, alcuni dei quali piuttosto indigesti (come il multiverso, che sfida i criteri stessi di scientificità delle teorie).
Nel 1980, in una conferenza intitolata «Fine in vista per la fisica teorica?» (che Close cita in apertura), Stephen Hawking previde, con una probabilità del 50%, che i fisici avrebbero raggiunto la teoria finale entro la fine del millennio. Tornando sulla questione dieci anni dopo e constatando che i progressi erano stati più lenti di quanto ci si aspettasse, si limitò a spostare in avanti il traguardo di altri dieci anni. Nel 2018 la meta appare ancora lontana e nessuno si sbilancia più sul futuro. Troveremo mai una teoria del tutto? E prima ancora, è immaginabile una simile teoria? Hawking suggeriva tre scenari: 1) Esiste una teoria definitiva, che un giorno saremo in grado di scoprire; 2) Non esiste una teoria finale, ma solo una sequenza infinita di teorie che descrivono l’universo con precisione crescente; 3) Non esiste alcuna teoria dell’universo: al fondo delle cose, gli eventi sono soggetti solo al caso. La preferenza del fisico inglese andava alla prima opzione. Ma molti la pensavano (e la pensano) in maniera diversa: «Se scoprissimo davvero la teoria finale che spiega tutto – scrisse nel 1994 Tullio Regge – rimarrei deluso dall’universo e lo considererei opera di un dilettante». Regge, come il suo collega e amico Freeman Dyson, propendeva per un universo inesauribile, infinito anche nella sua struttura logica (la seconda opzione). Quanto alla terza opzione, a sostenerla per primo è stato John Archibald Wheeler, uno dei fisici più inventivi del Novecento. Secondo Wheeler, dopo l’era «galileiana», caratterizzata dalla descrizione quantitativa dell’universo, e l’attuale era «newtoniana», caratterizzata dalle leggi matematiche della natura, dobbiamo aspettarci una terza era, quella della «legge senza legge», in cui scopriremo che le leggi fisiche fondamentali emergono da un substrato caotico, costituito da una miriade di eventi quantistici elementari.
C’è anche un quarto scenario, proposto dallo stesso Regge e dal fisico matematico Roger Penrose: la loro idea, decisamente radicale, è che la teoria del tutto sia non computabile nel senso logico-matematico del termine. Le attuali teorie sono algoritmi che ci consentono di calcolare porzioni del mondo, ma, a partire dagli studi di Kurt Gödel e Alan Turing, sappiamo che ci sono problemi che non ammettono algoritmi risolutivi. Perché non immaginare che il problema del «tutto» sia di questo tipo? Se così fosse, l’universo avrebbe escogitato un bel modo per rendersi irriducibile a quel suo infinitesimo sottosistema che è la nostra mente.
vincenzo.barone@uniupo.it
Frank Close, Teorie del tutto , trad. di Francesca Pe’, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 136, € 19